DALL’ALTRA PARTE DELLA FINESTRA: I MALANNI FILOSOFICI DI WITTGENSTEIN
All’inizio degli anni ’20 dello scorso secolo, Hermine Wittgenstein si trovava di fronte all’ennesima stravaganza del suo celebre fratello. L’allora trentunenne Ludwig Wittgenstein era infatti intenzionato ad abbandonare la filosofia per dedicarsi all’insegnamento elementare dopo aver conseguito, nel 1919, l’abilitazione di maestro di scuola. Le perplessità espresse dalla sorella e la peculiare risposta del grande logico sono compendiate in un passo dei ricordi di famiglia stesi dalla stessa Hermine:
La sua […] decisione, quella di scegliere una professione del tutto inappariscente, e se possibile di fare il maestro elementare in una scuola di campagna, fu per me in un primo tempo incomprensibile, e poiché noi fratelli siamo abituati a esprimerci per immagini, gli dissi allora, in occasione di una lunga discussione, che immaginarlo come maestro elementare, lui con la sua raffinata intelligenza filosofica, era come immaginare uno che volesse usare uno strumento di precisione per aprire una scatola di latta. Ma Ludwig mi rispose con un paragone che mi costrinse al silenzio. Mi disse infatti: «Mi ricordi un uomo che guarda attraverso una finestra chiusa e che non riesce a capire gli strani movimenti di un passante; non ci riesce perché non sa quale tempesta è scatenata là fuori, e che quell’uomo forse fa fatica a tenersi in piedi».
Sulla risposta immaginifica di Wittgenstein torneremo a breve. Per il momento sarà utile contestualizzare i (legittimi) dubbi della buona Hermine. Non si tratta, a prima vista, che dell’assai giustificata preoccupazione di una sorella per la ritrosia del fratello nell’accettare il proprio destino professionale. Ma i termini della questione, sondati da Hermine secondo un’ottica che potremmo situare a metà tra il borghese e il maternalista, assunsero certamente tutt’altra caratura nella coscienza del Wittgenstein reduce dalla stesura del Tractatus Logico-Philosophicus (ultimato durante gli ultimi anni della Grande Guerra, ma che verrà pubblicato solo nel 1921). L’opera, tra le più dense e controverse del secolo scorso, conteneva infatti non poche considerazioni in merito alla filosofia e ai suoi scopi, adombrando al contempo l’idea che di essa aveva maturato il suo autore. Tentare di capire cosa rappresentasse la filosofia per Wittgenstein è la chiave di volta per gettare luce sulla sua decisione apparentemente ingiustificata di abbandonare definitivamente la speculazione in favore di una vita più parca.
Sarà un breve scorcio di alcune significative proposizioni del Tractatus a indirizzare questo tentativo di ricostruzione psicologica. A partire dalla 4.112, secondo cui:
Lo scopo della filosofia è il rischiaramento logico dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività.
La filosofia, dunque, non può essere una dottrina, con ciò intendendo che non la si può rubricare come uno dei tanti saperi specialistici che costituiscono l’edificio della conoscenza umana. Essa, al massimo, si può considerare come l’architetto che, di quell’edificio, sonda la fattibilità intrinseca assicurandosi che la costruzione proceda in maniera corretta e puntuale. L’attività rischiaratrice e “architettonica” della filosofia, dunque, la pone in una posizione del tutto particolare nei confronti di tutte le altre scienze settoriali. Wittgenstein lo esplicita nella proposizione 4.111:
La filosofia non è una delle scienze naturali. (La parola «filosofia» deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali).
Sopra o sotto, quasi a identificare un compito di preparazione e revisione dei risultati conseguibili e conseguiti dalle scienze naturali, ma “non già presso”. La filosofia e la scienza, pur dialogando proficuamente tra loro, non sono sovrapponibili e non operano sullo stesso piano, contrariamente a certe interpretazioni troppo sincretistiche tra le quali spicca quella di Bertrand Russell, amico e privilegiato interlocutore di Wittgenstein. Per Russell, infatti, la scienza riguarda essenzialmente ciò che sappiamo, che possiamo calcolare, maneggiare, prevedere; mentre la filosofia riguarda tutto ciò che (ancora) non sappiamo. La conclusione del pensatore inglese è che il campo della filosofia, con il passare del tempo e l’avanzamento del progresso scientifico, verrà restringendosi sempre di più mentre, consequenzialmente, la scienza diverrà la principale depositaria della conoscenza umana a tutti i livelli. Quello prospettato da Russell è un progressivo trapasso della filosofia nella scienza, che verrebbe quindi a emendare la proposizione wittgensteiniana di cui sopra si discuteva.
Eppure, con buona pace di Russell, sembra che Wittgenstein accordi alla filosofia alcune peculiari caratteristiche che sembrano scongiurare le pretese monopolistiche della scienza. La proposizione 6.52 del Tractatus recita infatti:
Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati […].
Con questa constatazione irrompiamo direttamente nel piano esistenziale, di fronte al quale i rigidi schemi delle scienze sembrano costretti ad arretrare perché troppo aridi in relazione alle problematiche davvero “vitali” dell’uomo. Se da un lato la scienza si configura come lo strumento più utile e funzionale a restituirci una visione del mondo coerente e manipolabile (ci permette, cioè, di padroneggiare il mondo), dall’altro essa mostra tutta una serie di insufficienze strutturali che le impediscono di essere universalmente esaustiva. E non si tratta di una situazione dovuta allo stato dell’arte, al grado di sviluppo attuale della scienza, poiché, se si trattasse solo di attendere gli ulteriori avanzamenti della tecnica, allora bisognerebbe convenire, con Russell, che prima o dopo la scienza arriverebbe ad avere ragione anche di quegli (al momento) insondabili problemi della vita di cui fa menzione Wittgenstein. Ma allora in che direzione bisogna porsi per poter “sfiorare” questi problemi che la scienza non riesce a codificare? La risposta è alla proposizione 6.41:
Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia un valore v’è, esso dev’essere fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo.
La scienza, come detto, è il nostro miglior strumento per comprendere e ammaestrare il mondo; ma il senso più intimo del mondo, inteso come qualcosa di superiore, va ricercato all’infuori di esso. Wittgenstein esprime con delle tautologie (“tutto è come è”, “tutto avviene come avviene”) i fenomeni mondani, sottintendendo che solo a questi fenomeni può applicarsi il vaglio delle scienze. La scienza descrive le cause e gli effetti, nonché gli accidenti, l’avvenire delle cose e il loro oggettivo essere-così. Più di questo non può e non deve fare. Le sue proposizioni non possono che rivelarsi, in ultima analisi, tautologiche. Qui stanno contemporaneamente il suo pregio e la sua più grande limitazione, giacché, come si legge nella proposizione 6.42 del Tractatus:
[…] Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto.
Per tutto ciò che esula dalla dimensione mondana e si configura come qualcosa di “più alto”, possiamo far valere la regola che Wittgenstein applica alla forma logica sottesa alle proposizioni stesse:
Ciò che può essere mostrato non può essere detto.
Accanto al rigore della speculazione meramente logica e scientifica, dunque, si colloca nel pensiero di Wittgenstein una forte componente alternativa che acquisisce connotati esistenziali, andando a toccare anche gli ambiti (non ulteriormente analizzabili in questa sede) dell’etica e dell’estetica. Ma ciò che più conta, giunti a questo punto, è la caratterizzazione della filosofia intesa da Wittgenstein come ricerca del senso. Un senso che, come sottolineato, ha da essere extra-mondano e extra-scientifico e che proprio perciò non può che presentarsi come problematico. In sede logica e scientifica, infatti, il perseguimento della verità procede sui binari solidi dell’applicazione di teoremi, della sperimentazione e della prova empirica, appoggiandosi costantemente alle ferree e ineludibili verifiche della matematica. Se ciò che è più alto, per sua stessa natura, non può essere indagato mediante questi stessi potentissimi strumenti epistemologici, quale dovrà essere il compito del filosofo?
Quale che sia la risposta al quesito, è evidente che lo sforzo filosofico non può che diversificarsi da quello scientifico anche in virtù di un metodo più rapsodico e meno schematico di procedere. La filosofia è quindi un’attività trasversale e non (lo ripetiamo ancora una volta insieme a Wittgenstein) una disciplina dotata di metodologie istituzionalizzate. Ciò che la contraddistingue è una ricerca, quella del senso e dei valori, molto meno lineare di quella scientifica. Se la scienza, come detto, procede su binari solidi, la filosofia naviga costantemente in mezzo alla tempesta. E qui possiamo finalmente tornare alla risposta del nostro filosofo. Solo chi si renda conto di quanto la ricerca del senso extra-mondano delle cose sia perigliosa, complessa e, talvolta, arida e destabilizzante può comprendere il malessere del pensatore che impiega le sue migliori energie per perseguirla. In quest’ottica la filosofia assume il carattere del sublime, dello streben romantico che si manifesta contemporaneamente come attrazione e repulsione, come desiderio di strappare il velo del reale e di ritrarsi di fronte all’abisso che potenzialmente potrebbe spalancarsi sotto i nostri piedi. Wittgenstein sperimentò sicuramente questa ambivalente sensazione che Mario Micheletti, appoggiandosi alle considerazioni di Erik Stenius, ha felicemente sintetizzato in un suo saggio wittgensteiniano:
Lo Stenius osserva che per il nostro filosofo l’attività filosofica non fu mai una piacevole occupazione intellettuale, né un mezzo per stabilire qualche originale dottrina sulla vita o sulla realtà, ma fu una passione da cui non poté mai liberarsi, perché si sentiva come un prigioniero in filosofia, e perciò lo scopo essenziale della filosofia era per lui di trovare una via d’uscita da sé stessa.
Solo il filosofo, colui che è dall’altra parte della finestra sotto alla tempesta che imperversa, può capire il terribile fardello della ricerca di senso, la lacerante e greve passione che conduce agli spazi siderali extra-mondani di un’indagine che si muove sempre sull’orlo del fallimento.
Risulterà allora più comprensibile, a questo punto, quanto potesse sembrare allettante, agli occhi di Wittgenstein, la placida tranquillità di un’isolata scuola elementare di provincia.
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