APOLOGIA DELLA VITA AGRESTE
Perché l’uomo, in fondo, abbisogna di poco.
E se il nostro tempo è il tempo della fine; un tempo nel quale il mondo sprofonda nella vergogna delle proprie abdicazioni, nell’insignificanza delle proprie aberrazioni; se il nostro tempo è davvero il tempo del tramonto, allora diviene vitale volgere lo sguardo speranzoso in direzione di una nuova alba, tornando a guardare le cose semplici, le cose di sempre, le radici.
Soprattutto in primavera, la stagione terribile e ribelle, con quelle nuvole cariche di attesa e quella luce di imminente sorpresa. La primavera, il momento della semina e dei calori che invogliano a mettersi in cammino lungo sentieri boschivi di collina magari incespicando tra orme e pietre, annusando il profumo dei tigli e degli alberi in fiore, udendo i gorgheggi della vita che si risveglia e che restituisce all’uomo attento l’eco immortale delle voci antiche, ancestrali. Indugiare con lo sguardo sugli orti nuovi, pronti a essere fresati e dissodati, rincalzati e pacciamati. È quello il momento di tornare al richiamo immutato della terra, assecondando i mormorii accennati della primavera. Mettersi a lavorare per ricavare quello che il suolo può offrire in cambio del sudore, monito atavico e sempre valido che dimostra come ogni autentica conquista abbisogni di sacrificio.
E così la semina, la pacciamatura, il lavoro sudato. Informarsi sulle tecniche migliori, tentare, fallire, riprovare. Immergere le mani fra zolle, fango e radici per apprendere lezioni sideralmente contrarie a quelle che decenni di cemento e di denaro hanno cercato di impartire con l’inganno della seduzione. Comprendere, in ultima analisi, che il mondo organico è il solo mondo reale e che il pensiero, per essere pensiero e financo spirito, deve germinare entro quell’unica realtà organica fatta di sensi e di simboli.
La Nature est un temple où de vivants piliers/Laissent parfois sortir de confuses paroles;/L’homme y passe à travers des forêts de symboles/Qui l’observent avec des regards familiers[1] [La Natura è un tempio dove vivi pilastri/lasciano talvolta scaturire confuse parole;/l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli/che l’osservano con sguardi familiari].
Certo, la sapienza della terra è un obiettivo inesauribile, ma chiunque torni in qualche modo alla coltivazione della terra non impiegherà molto tempo a realizzare che occorre tagliare il fogliame in eccesso; che la corretta distanza tra le foglie rappresenta un coefficiente dirimente ai fini della resa produttiva; che l’incolumità della pianta può essere preservata con sostanze naturali, come il pestato di aglio o il sapone di Marsiglia.
Vangare, dissodare, seminare, dimenticandosi di grattacieli e algoritmi, di abiti costosi o automobili veloci. Ripulirsi attraverso la polvere, rinascere assieme ai frutti e agli ortaggi, prevedere provviste per l’inverno. Scoprire le ore per mezzo dei rintocchi delle campane, omologo simbolico della provvidenza: al lavoratore della campagna, infatti, abitante del reale, non occorrono orologi né dispositivi, perché la misura del tempo appartiene al cielo e da esso, al momento giusto, arriveranno istruzioni attraverso il rintocco delle campane.
E poi respirare, fuggire i miasmi del catrame, nutrirsi di alimentazione salubre, non già inquinata da chimica conservante o tumorale. Riacquistare forza e muscoli, olfatto e polmoni, gambe e intestino, ripulirsi dai veleni che ottundono i sensi e surriscaldano i nervi, perché nella natura il benessere diviene quasi necessario, ineludibile. Parafrasando Henry David Thoreau: alcolici e sigarette, che nelle metropoli vengono consumati in quantità smodate, in mezzo alla natura danno il voltastomaco.
Lavorare la terra e provare fatica, appagamento al momento di risultati, apprensione in caso di acquazzone o di grandine, pronti a ricostruire in caso di calamità, affondando le scarpe su terreni incerti come incerto è il terreno dell’esistenza. Il quale, tuttavia, può essere illuminato guardando a quella provvidenza che fa nascere i fiori e la vita e che rintocca spirituale e soave come il suono di una campana. Coloro che, in bilico sull’orlo dell’abisso del presente, odono il suggerimento del passato di tornare all’origine, di ricongiungersi con il fondamento, potranno allora sopportare il tramonto, superare la notte e attendere finalmente l’alba grazie alla riconquistata consapevolezza che quello che conta, ancora una volta e in saecula saeculorum, sono soltanto le cose eterne.
[1] C. Baudelaire, Correspondances (1857), trad. it. C. Ortesta, in Id., I fiori del male, Giunti, Firenze, 2007, p. 30.
@PHOTO by FRANCESCO BELLÉ, 2024