L’ASSOLUTO E L’EVENTO
Estratto da The Absolute and the Event. Schelling after Heidegger di Emilio Carlo Corriero
Nella critica al correlazionalismo, opportunamente condotta nel suo Après la finitude, Meillassoux riconduce persino il pensiero dell’Ereignis di Heidegger a tale atteggiamento filosofico incapace di pensare l’Assoluto, in quanto sciolto dalla correlazione tra essere e pensiero (Meillassoux 2012: 8). Tale assunto, chiaramente funzionale al discorso di Meillassoux, parte dall’idea che l’Ereignis heideggeriano possa riassumersi nelle tesi esposte in Identità e differenza del 1957, laddove effettivamente Heidegger insiste sulla co–appropriazione (Zusammengehörigkeit) di “essere” e “pensiero” quale tratto distintivo dell’Ereignis, inteso per l’appunto come evento di appropriazione vicendevole. E tuttavia l’Ereignis è anche e soprattutto co–appropriazione di “essere” e “tempo”, come si evince in modo chiaro per esempio nella conferenza Zeit und Sein del 1963, laddove si chiarisce altrettanto chiaramente un aspetto fondamentale dell’Ereignis. Infatti, ciò che risulta essere ancor più importante rispetto all’“accusa” di correlazionalismo è che nell’Ereignis di Heidegger è sempre contenuta l’idea di un’eccedenza, descritta da Heidegger mediante la nozione di Enteignis (“dispropriazione” che sempre si accompagna all’“appropriazione” dell’Ereignis), che impedisce di pensare l’essere e il pensiero nella loro piena e perfetta correlazione.
D’altra parte, sono proprio i passaggi di Identità e differenza che legittimano meglio di altri luoghi heideggeriani le tesi esposte da Agamben nel saggio *Se. L’Assoluto e l’Ereignis del 1982, pubblicato poi nella raccolta dal titolo La potenza del pensiero (Agamben 2005: 163–190), circa la possibilità di sovrapporre e far coincidere l’Ereignis di Heidegger con l’Assoluto di Hegel. Il saggio di Agamben, certamente illuminante quanto alle radici etimologiche dell’Ereignis e al suo accostamento generale all’Assoluto, risulta però incapace di restituire l’“assolutezza” — l’aseità — tanto dell’Ereignis quanto dell’Assoluto qui visto, per l’appunto hegelianamente, come “risultato” di un movimento, piuttosto che come origine inesausta e a–sé da cui provengono le varie e molteplici forme dell’essere.
In quanto eccedenza ontologica che “occasiona” (rende possibile, fa accadere) l’essere senza mai risolversi del tutto in pensiero e forme (manifestazioni) dell’essere medesimo, l’Ereignis è piuttosto da leggersi in affinità con un’altra forma di Assoluto, vale a dire con quella proposta da Schelling nei primi anni dell’Ottocento e ulteriormente chiarita nelle sue Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana: una forma di Assoluto che, schlechtin betrachtet [per eccellenza, N. d. C.], coincide con l’infondatezza dell’essere (Ungrund) e con la sua imprepensabilità (o, se vogliamo, “ancestralità”), ossia con una (sovra–)dinamica che assicura l’essere e le sue forme (tra cui lo stesso pensiero portato sull’essere) senza mai coincidere fino in fondo con tali manifestazioni […]
Tale accostamento è possibile sulla base di una particolare lettura della Physis.
Per Heidegger, l’accesso all’essere–aperto della Physis deve venire da una necessità, ossia «dall’abbandono dell’ente da parte dell’essere, nel momento in cui prendiamo sul serio il fatto che l’essere si sottrae all’ente» (GA 45, 189; Heidegger 1988a: 133), vale a dire lo eccede. Ma è probabile, come ipotizza lo stesso Heidegger, che l’esser–aperto della Physis «sia in primo luogo la radura, l’illuminarsi [Lichtung] nel mezzo dell’ente, illuminarsi nel quale il nascondersi dell’essere deve farsi palese» (GA 45, 189; Heidegger 1988a: 133). Ciò significa che l’essere si mostra come un divenire, come un processo in cui è incluso tanto l’oblio dell’essere, quanto la possibilità dell’“altro inizio”: si tratta di un processo che per perpetuarsi e per garantire il movimento non può esaurirsi in un’appropriazione definitiva quale per esempio pare compiersi nella tecnica come imposizione e dominio sull’essere, ma piuttosto di una eccedenza ontologica e dinamica che è per l’appunto descritta dalla Physis dei Greci, concetto sul quale Heidegger torna con grande chiarezza nel commento alla composizione poetica di Hölderlin, Wie wenn am Feiertage [Come quando nel giorno di festa, N. d. C.].
Physis, phyein significa la crescita. Ma come intendono i Greci la crescita? Non come l’accrescimento quantitativo, neppure come “evoluzione”, e neppure come la successione di un “divenire”. Physis è il venire fuori e il sorgere, l’aprirsi che sorgendo ritorna al tempo stesso nel suo venire fuori e così si racchiude in ciò che di volta in volta fa essere presente un ente. Physis, pensata come parola fondamentale, significa il sorgere nell’aperto, il diradare e illuminare (das Lichten) di quella radura (Lichtung) nella quale soltanto qualcosa può in generale apparire, profilarsi, mostrarsi nel suo “aspetto” (eidos, idea) e così essere presente come questa o quella cosa. Physis è il ritrarsi in sé sorgendo (das aufgehende In–sich–zurück–Gehen) e nomina il far essere presente ciò che sta nell’aperto di questo sorgere essenziante. (GA 4, 56; Heidegger 1988b: 70).
Per l’Hölderlin citato e commentato da Heidegger, la Physis, la natura in quanto caos che si apre e presiede agli enti, è al di sopra degli dèi: è il sacro stesso. «Essa, la potente, ha in proprio potere un’altra cosa rispetto agli dèi: in lei soltanto, in quanto Lichtung, ogni cosa può essere» (GA 4, 59; Heidegger 1988b: 73). Solo la natura garantisce e custodisce presso di sé la possibilità per gli enti di apparire, ma in quanto gli enti appaiano per (tramite) la natura e nella natura, essa non può fungere da fondamento. In ciò sta la sua superiorità rispetto agli dèi e a Dio. Una filosofia che sappia pensare così la Physis e il divenire degli enti non è più onto–teologica, poiché il fondamento (theos, Dio) è semmai nella possibilità stessa della Physis, e questa non dipende mai da quello. La Physis dunque, in quanto sacro caos da cui tutto proviene e presso cui tutto accade, sembra perfettamente capace di esporre quella doppia e vicendevole appropriazione di essere e pensiero e di essere e tempo che l’Ereignis, in tutte le sue varie declinazioni, vorrebbe di fatto descrivere. In questo senso risulta ancora più plausibile l’accostamento dell’Ereignis di Heidegger all’Assoluto di Schelling: la progressiva definizione di quest’ultimo ha come fondamento le riflessioni schellinghiane di filosofia della natura e di filosofia dell’identità.
In Schelling è evidente il ricorso alla nozione greca di Physis, per un verso, ovviamente per descrivere la processualità e la produttività dell’essere in generale e, per l’altro, per evidenziare un’origine infondata e inesausta che garantisce e conserva nel processo gli enti prodotti, senza però mai ridursi al processo stesso e ai suoi componenti. Ciò che è già descritto nella definizione di Assoluto proposta da Schelling nella filosofia dell’Identità, dove si parla per gli enti di una “doppia vita” nell’infinito e nel finito, diviene ancor più manifesto con l’introduzione — nelle Ricerche filosofiche — dell’Ungrund quale assoluto considerato assolutamente (schlechtin betrachtet). Tale introduzione chiarisce ulteriormente l’affinità dell’Assoluto alla Physis sopra descritta: per un verso, infatti, l’Assoluto descrive la totalità degli enti nella processualità del loro divenire e, per l’altro, in quanto “considerato assolutamente”, l’Assoluto è per l’appunto sciolto dal processo stesso pur garantendolo come una inesausta e infondata risorsa dinamica.
La doppia e vicendevole appropriazione “essere–tempo” e “essere–pensiero”, che descrive l’accadere (temporale) degli enti e la possibilità della loro comprensione, si accompagna dunque tanto alla nozione di Assoluto quanto alla nozione di Ereignis, a condizione di pensare però l’Assoluto in quanto “sciolto”, “separato” dal processo che descrive e dall’appropriazione compiuta.
Come osserva Giorgio Agamben, per Hegel «l’Assoluto, in quanto participio passato, ha bisogno di un’assoluzione, che lo porta a essere solo alla fine ciò che è veramente» (Agamben 2005: 177); in questo caso, intendendo dunque l’Assoluto come il “risultato” di un processo l’affinità con l’Ereignis si riduce all’“avvenuto”, a ciò che è già accaduto e che può essere dunque descritto come segno dell’assoluta correlazione tra essere e pensiero — e semmai alla necessità di ciò che avverrà sempre in quest’ottica di piena correlazione. In quanto però la co–appropriazione evocata dall’Ereignis riguarda anzitutto la relazione essere–tempo, l’Assoluto non può risolversi meramente nel divenire del Concetto, nel suo movimento, ma deve rimanere capace di assolversi dal processo stesso, ossia di astenersi dall’accadere (degli enti e delle forme del pensiero) che sempre assicura. L’Ereignis rimanda di fatto a un’eccedenza dinamica che molto ha a che fare con la nozione di Physis richiamata sopra, nonché con la complessa definizione di Assoluto articolata da Schelling nelle Ricerche filosofiche mediante l’introduzione dell’Ungrund. Così intesa, l’affinità tra Assoluto ed Evento si chiarisce, anche nel dibattito contemporaneo, come un passaggio (o un ritorno?) a una forma di metafisica non onto–teologica.
Emilio Carlo Corriero – Università di Torino, dipartimento di Filosofia e Scienza dell’Educazione
La presente nota bibliografica è opera del curatore dell’articolo.
Sulla tematica del correlazionismo si rinvia a Quentin Meillassoux, Après la finitude. Essai sur la nécessité de la contingence, Éditions du Seuil, Paris, 2006.
Per l’interprezione agambiana dell’Assoluto hegeliano si veda, Giorgio Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenza, Neri Pozza, Vicenza 2005.
Sull’interpretazione heideggeriana della poetica di Hölderlin cfr., Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988.
@ILLUS. IN EVIDENZA by, FRANCENSTEIN, 2020
@ILLUS. by, PATRICIA MCBEAL, 2020
THE ABSOLUTE AND THE EVENT. Schelling after Heidegger
“…un’origine infondata e inesausta che garantisce e conserva nel processo gli enti prodotti, senza però mai ridursi al processo stesso e ai suoi componenti.”
“…l’Assoluto è per l’appunto sciolto dal processo stesso pur garantendolo come una inesausta e infondata risorsa dinamica.”
Questo Assoluto può essere certo pensato per ovviare alla difficoltà di pensare l’infinito. E questa “infondata risorsa dinamica” pare essere affine a un ergon puro, privo di energia e dunque determinazione, che ha appunto in sé l’infinito potenziale che, a posteriori, è ottenuto vagliando il principio di contraddizione.
Tuttavia l’infinito potenziale reca con sé le medesime problematiche dell’infinito attuale, poiché l’indeterminazione non é pensabile che come determinazione inattuale.
Dunque il modello dell’infinito inattuale a fronte di un finito attuale risulta più problematico del modello dell’infinito attuale. Poiché oltre a render conto dell’infinito si deve render conto di come avvenga il passaggio da inattualità ad attualità (processo off-on, accadimento, per quanto, si assume, non l’Assoluto non accadato col suo processo).
Vertendo poi il ragionamento su una concezione insiemistica, è inevitabile che tutti gli enti nell’infinito inattuale come in quello attuale vengano compresi essendo insiemi non vuoti all’interno di insiemi non vuoti all’interno dell’Insieme non vuoto (mancante di nulla). Per ognuno di questi insiemi vi è almeno una funzione (descrizione) che fa corrispondere ogni elemento degli insiemi con almeno un elemento di ogni altro insieme (mutuato da assioma della scelta di Zermelo). Ciò significa continuità e unione dei molteplici in assenza di divisioni.
Nondimeno dalla presenza di una “wirklichkeit” si induce la sua attualità testimoniandola e verificandola. Ciò non esclude, ovviamente, le alternative, moglichkeiten, ma se queste sono, allora sono anch’esse wirklichkeiten. Poiché se la Costante non è cieca e inconsustanziale alle variabili, quelle sono anch’esse tutte invariabili, attributi della Sostanza, senza che vi sia distinzione tra Costante e invariabili.
L’Assoluto è tutto intero in qualsiasi punto di sé stesso. La Sua consapevolezza è il suo stesso Essere.
Ciò riporta all’ontologia, ovviamente, ma come può non essere maggiore un Assoluto mancante di nulla rispetto a un Assoluto che processa il proprio nulla astenendosi da esso? Perché l’Assoluto non se ne sta eternamente presso di sé, in conformità a sé stesso, mai sazio perché non conosce il vuoto?