«AVERROÈ L’INQUIETANTE» E MERLEAU-PONTY: LA CARNE E IL DIAFANO

Estratto di Come l’uom si etterna. Traduzione annotata del Commento di Lewi ben Gershom (Gersonide) ai tre Opuscoli di ibn Rushd e figlio sulla felicità mentale, Paideia, Torino 2021 di Roberto Gatti.
Il presente estratto rappresenta un tentativo di una riattualizzazione della dottrina di Averroè, condotta da un punto di vista fenomenologico sulla scia della riflessione di Merleau-Ponty. Nella prospettiva rushdiana [Averroè, N. d. C.], l’intelletto materiale (l’organo con cui il singolo conosce) finisce con il diventare un sostrato universale, unico per tutta l’umanità. Infatti, il processo conoscitivo è paragonabile a quello con cui degli oggetti diventano visibili all’occhio di un singolo uomo. Nella percezione, la componente soggettiva e individuale (il fatto cioè che alcuni determinati oggetti ‘mi’ si mostrano, con le loro particolari sfumature di colore e le loro inclinazioni nello spazio e nel tempo) è resa possibile da fattori universali e impersonali: la luce del sole che illumina (paragonata all’azione esercitata dall’Intelletto Agente); la presenza dell’aria o mezzo in cui la luce si diffonde, accostati a un intelletto materiale unico per tutta l’umanità; gli eide con cui degli oggetti visibili vengono intenzionati (quelle sfumature di rosso e quegli oggetti che riconosco come libri). Nei termini di Merleau-Ponty, non sono ‘io’ che percepisco le cose, ma quest’ultime si danno o si mostrano.
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Quale rilettura della dottrina rushdiana sull’unicità ed eternità dell’intelletto materiale è oggi possibile fornire? Si deve dire innanzitutto che la recentissima ripresa di attenzione riservata ai temi della noetica rushdiana ha sottolineato come quest’ultima abbia storicamente rappresentato una linea alternativa rispetto a una tradizione che avrebbe invece finito per porre l’accento sulla sostanzialità o spiritualità dell’Io cartesianamente inteso.[1] Da questo punto di vista, così come è stato efficacemente detto (Brenet 2019), Averroè rappresenta il rimosso o l’elemento «perturbante» della tradizione filosofica occidentale. Si è anche detto che la noetica del pensatore arabo metterebbe in rilievo «l’elemento trans-individuale» della condizione umana.[2] In questo senso, come elementi possibili di attualizzazione sono stati chiamati in causa la competenza linguistica innata di Chomski, il pensiero di Marx e anche il Worldwide Web.[3]
Da parte mia, vorrei invece proporre brevemente un’attualizzazione fenomenologica della noetica rushdiana, basandomi su alcuni temi della filosofia di Maurice Merleau-Ponty. Faccio questo accostamento, nella consapevolezza che l’intento primario di questo mio lavoro è stato innanzitutto di natura storico-filologica.
Due elementi sembrano suggerire una possibile comunanza tra la noetica rushdiana e la fenomenologia del pensatore francese. Il primo è il tentativo, costantemente perseguito da quest’ultimo, di «rimaneggiare la nostra idea del soggetto» (Merleau-Ponty 2003, 527) e cioè di andare al di là di un’opposizione Io-mondo o soggetto-oggetto, in cui i termini relativi siano considerati come già costituiti e vengano colti in una sorta di reciproca irriducibilità. Questo tentativo di risalire al di là della dicotomia soggetto-oggetto si traduce poi, nell’opera postuma merleau-pontyana (Merleau-Ponty 1969), in una sorta di ontologia fenomenologica che ha come sua nozione fondamentale «la carne dell’essere».
Il secondo elemento di questa possibile attualizzazione è la ricerca dedicata dal pensatore francese all’«origine della verità». Essa si traduce nel progetto di mostrare come, a partire dalla fatticità dell’esistenza umana, si delinei quel mondo di essenze ideali o verità universali, proprio del discorso scientifico.[4]
Da quest’ultimo punto di vista, in un passo della Fenomenologia della percezione Merleau-Ponty mostra in che modo per l’uomo si costituisca fenomenologicamente l’essenza ideale del triangolo, inteso in maniera universale come l’ente la cui somma degli angoli interni è sempre uguale a 180°.[5] Questa nozione universale o eidos si costituisce grazie ai movimenti percettivi del «corpo proprio» che tracciano, a partire da un triangolo dato (e cioè tracciato su di un foglio e dato nella sua individualità: ad es., come triangolo rettangolo o scaleno), un sistema preciso di riferimenti spaziali che permette di cogliere intuitivamente la verità del teorema degli angoli del triangolo.[6] Come nella noetica aristotelico-rushdiana, l’universale viene colto a partire dalla virtus ymaginativa e da quella cogitativa. Entrambe queste facoltà intenzionano però in universale un determinato tracciato grafico. Inoltre, le operazioni del mio corpo non sono decise dal mio Io empirico o da uno di natura assoluta, nei confronti del quale esse rivestirebbero il ruolo di meri strumenti. Queste operazioni assecondano semmai delle proposte di tracciato che sono già nel mio campo percettivo, così come, nella noetica del pensatore arabo, le forme immaginative rappresentano altrettanti intelligibili in potenza. Da questo punto di vista, è significativo che Merleau-Ponty scriva che non si dovrebbe dire che «io percepisco il mondo», ma che «il mondo si percepisce in me».
Il lavoro postumo del fenomenologo sembra poi incentrato su una nozione di «visibilità del mondo» considerata, ancora una volta, al di qua dell’opposizione soggetto-oggetto. Infatti, il mondo non è l’oggetto della coscienza dell’uomo; esso si costruisce semmai nello spazio di incontro tra la carne del corpo e quella dell’essere ed è, contestualmente, il darsi del visibile e dell’invisibile (inteso quest’ultimo come l’inesauribilità del campo percettivo). Questo tema della visibilità sembra richiamare il diaffonum di Averroè; è un modo per indicare la reciproca esposizione di soggetto e oggetto. Quest’ultimi vengono colti, per così dire, in una loro situazione sorgiva, in cui i ruoli appaiono scambiati in una sorta di «chiasma» o «intreccio» perenne[7].
Per concludere, la proposta che ho formulata ha accostato l’intelletto materiale rushdiano al corpo proprio merleau-pontyano e ha svolto l’analogia rushdiana tra intelletto e diaffonum nel senso della «carne dell’essere» del pensatore francese.
[1] Cf. Agamben-Brenet 2020.
[2] Per questa proposta interpretativa cf. il volume curato da Etienne Balibar e Vittorio Morfino (Balibar-Morfino 2014), al cui interno il saggio dedicato da Illuminati ad Averroè riprende le conclusioni già indicate in Illuminati 1996. La nozione di trans-individuale implica la «tesi del processo di individuazione sull’individuo e quella del primato della relazione sui termini della relazione» (Balibar-Morfino 2014, 11).
[3] Questi tre riferimenti sono stati proposti da Illuminati 1996. Sulla possibilità di accostare la noetica rushdiana e il cyberspazio, Illuminati scrive che questo accostamento è valido nella misura in cui il secondo viene «naturalmente concepito secondo modalità gerarchiche e non reticolari, in cui l’intelletto agente gioca una funzione direttiva, distributiva e propulsiva. Il singolo soggetto, che detiene una frazione dell’intelletto materiale, fa login sull’intelletto agente (se addirittura non è trascinato a “navigare” da quest’ultimo) per accedere a tutti i siti dell’intelletto materiale contenenti gli intelligibili in potenza. La singola operazione deve chiudersi a un certo punto, mentre solo la metarete è eterna e permanentemente attiva» (ivi, 61-62).
[4] Si ricordi che «origine della verità» era il titolo originariamente assegnato da Merleau-Ponty all’opera poi intitolata Il visibile e l’invisibile (così come mostrano anche le Note di lavoro che accompagnano l’edizione postuma).
[5] Cf. Merleau-Ponty 2003, 494-499. Cf. anche, in Merleau-Ponty 1969, 46, il riferimento a «quella unità ideale o di significazione che fa sì che il triangolo del geometra sia il medesimo a Tokyo e a Parigi, nel V secolo prima di Cristo e adesso». Detto nei termini della noetica medievale a cui ci hanno abituato le pagine precedenti di questo lavoro, l’eidos triangolo costituisce l’intelligibile puro di questa figura. L’esempio della somma degli angoli interni come verità universale costituisce un vero e proprio topos della tradizione filosofica. A partire dal Menone platonico, questo esempio non solo attraversa le opere di Spinoza, ma si ritrova già in un passo dell’Epitome rushdiana alla Metafisica, ripreso fedelmente nell’enciclopedia falaqueriana.
[6] Nella riflessione di Merleau-Ponty la nozione fenomenologica di «corpo proprio» o «corpo fenomenico», oltre a non essere ovviamente il corpo fisiologico considerato come insieme di partes extra partes, non è nemmeno sinonimo di coscienza incarnata del singolo individuo. In altre parole, il corpo non è da intendersi come il sinolo aristotelico o come principio di individuazione, dal momento che la riflessione del filosofo francese vuole sempre cogliere l’elemento impersonale o pre-personale della condizione umana. Questa nozione fenomenologica fa semmai riferimento all’esposizione reciproca del corpo proprio e del mondo, alla loro reciproca inerenza o al loro appartenersi, così come indica proprio l’espressione merleau-pontiana di «essere al mondo» (cf. la nota critica di Andrea Bonomi alla sua resa dell’espressione francese être-au-monde in Merleau-Ponty 2003, 11-12). Ciò diventa ancora più chiaro negli scritti raccolti in Segni e nell’opera postuma, in cui viene riproposta la nozione husserliana di «intercorpo» e cioè di un corpo che non è più soltanto mio, ma anche dell’altro e del mondo. Da questo punto di vista, negli scritti posteriori alla Fenomenologia della percezione Merleau-Ponty preferisce impiegare, rispetto alla nozione di corpo proprio, quella di «carne», che non è più appunto soltanto mia, ma anche la carne del mondo. Il concetto di «carne» viene dunque inteso in un’accezione non più soltanto antropologica (come era ancora nella Fenomenologia), ma ontologica, nel senso in cui nel Vangelo di Giovanni si legge che «il logos si fece carne».
[7] Per il paragone, sollecitato dal testo aristotelico del De anima, tra il meccanismo della percezione e quello della intellezione cf. i due testi in Crawford 410-411, rr. 688-702 e 438-439, rr. 51-71. Nel secondo di questi testi Averroè lascia però cadere l’analogia tra l’intelletto materiale e il diaffonum evidenziata dal primo, concentrandosi su un confronto, di natura più generica, tra questo intelletto e il visus o visione. Cf. in part. ibid., rr. 66-71: «quemadmodum enim visus non movetur a coloribus nisi quando fuerint in actu». Sull’analogia tra l’intelletto materiale e il diafano, cf. il lavoro di Emanuele Coccia, che sottolinea come, sulla base di questo accostamento, il pensiero non venga concepito da Averroè come una sostanza o una facoltà, ma come medio o luogo di pensabilità («la medialità del pensiero»): «La ragione, l’intelletto non è una facoltà, ma un medio, il luogo cioè in cui una forma può sussistere indifferentemente dalla possibilità di mutamento e indifferentemente dall’imputarsi a questo o quel soggetto» (Coccia 2005, 142). Secondo lo studioso anche il paragone istituito dalla tradizione tra il pensiero e lo specchio va nella stessa direzione: «Come uno specchio è lo spazio in cui ogni cosa diviene pura visibilità e non esiste che nel grado in cui può essere vista, così l’intelletto è il luogo metafisico della pensabilità di ogni cosa» (ivi, 119).
BIBLIOGRAFIA
AVERROIS CORDUBENSIS, Commentarium Magnum in Aristotelis De anima, Crawford, F.S., ed., Cambridge (Mass.), 1953.
Agamben, G. – Brenet, J. B., Intelletto d’amore, Macerata, 202o.
Balibar, E. – Morfino, V., Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni, Milano, 2014.
Brenet, J. B., Averroè l’inquietante. L’Europa e il pensiero arabo, Roma (ed. or. 2015), 2019.
Coccia, E., La trasparenza delle immagini. Averroè e l’averroismo, Milano, 2005.
Illuminati, A., Averroè e l’intelletto pubblico, Roma, 1996.
Merleau-Ponty, M., Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, Milano (ed. or. 1945), 2003 e Id., Il visibile e l’invisibile, trad. it. di A. Bonomi, Milano (ed. or. 1964), 1969.
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