BELLUM IUSTUM: RIFLESSIONI HEGELIANE SULLA GUERRA
Nell’odierna società contemporanea sono ben pochi i temi di discussione che possano vantare un parere unanime e condiviso. Ogni questione, da quelle politiche a quelle relative al gender, passando per quelle scientifiche (o pseudo-scientifiche) fino a quelle legate all’etica civile, genera immancabilmente una serie più o meno edificante di polemiche, differenti punti di vista e prese di posizione a volte nette. Ve n’è, tuttavia, almeno una sulla quale, quantomeno a parole, la coscienza collettiva non sembra avere dubbi di sorta: la guerra. La risposta di ogni cittadino occidentale che venisse interrogato in merito non differirebbe più di tanto dalla posizione standard che, dal termine del secondo conflitto mondiale, è stata assunta tanto dai capi di governo quanto dalle grandi masse: la guerra è qualcosa di orribile, inutile, distruttivo e sempre sbagliato. La carta delle Nazioni Unite, che nel 1945 inaugurò e suggellò questa presa di coscienza istituzionalizzandola attraverso i fini e i principi del suo statuto, mette bene in chiaro quale debba essere il primo e più importante obbligo della neonata organizzazione sovranazionale:
salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità.
Sebbene quella della guerra come flagello sia oggi una visione ampiamente accettata, vale certamente la pena notare che si tratta di un modo di pensare relativamente recente, frutto dell’impressionante evoluzione subita dagli apparati bellici nel corso del secolo a noi precedente. Eppure, anche ammettendo che nessuno possa seriamente mettere in dubbio la legittimità, sul piano morale, di questa oggi insindacabile weltanschauung, non bisogna dimenticare che la guerra è un fenomeno complesso che accompagna l’uomo fin dagli albori della sua civiltà, e che una così monolitica e perentoria presa di posizione, per quanto eticamente fondata, potrebbe allontanare da una più profonda comprensione del bellicismo come atto sociale e umano.
A mettere in guardia dalle analisi parziali e unilaterali che rischiano, successivamente, di accaparrarsi il monopolio della pubblica opinione, è un pensatore che ebbe della guerra un’idea molto diversa da quella oggi corrente, e che così esprime le proprie riserve:
La semplice condotta dell’animo ingenuo è di tenersi, con confidente persuasione, alla verità pubblicamente riconosciuta e di fondare, su questa salda base, il suo modo di operare e la sua ferma posizione nella vita. Contro questa semplice condotta forse già appare la supposta difficoltà, in qual modo, tra le infinitamente diverse opinioni, si lasci distinguere e rintracciare ciò che vi è di universalmente riconosciuto e accettato; e questo imbarazzo si può facilmente considerare come giustamente e veramente grave per la cosa. Nel fatto, però, quelli i quali fan buona questa difficoltà sono nella situazione di non vedere il bosco a cagione degli alberi.
Il filosofo in questione è Hegel, e l’adagio metodologico appena citato si trova nelle prime pagine dei suoi Lineamenti di filosofia del diritto. In ottemperanza a questo modo di procedere, quello cioè di non fermarsi alle opinioni maggiormente in voga e di considerare ogni fenomeno come inscritto in un contesto più ampio (il bosco, per l’appunto, che rischia di defilarsi sullo sfondo dei singoli alberi), sarà necessario che anche la guerra venga interpretata come parte organica di una struttura complessa, composita e, stando alla posizione speculativa di Hegel, razionale.
La guerra, infatti, trova una sua precisa collocazione all’interno del sistema hegeliano, in particolare per quanto attiene allo spirito oggettivo, di cui i Lineamenti costituiscono la più elaborata esposizione. Il fenomeno dello scontro tra popoli e civiltà occupa uno dei gradini più alti dello sviluppo dell’idea, venendo a trovarsi tra le tematiche dell’eticità, l’ultima e più sostanziale tappa del processo dialettico dello spirito oggettivo. Se lo stato, infatti, rappresenta l’apice dell’eticità, allora il rapporto (soprattutto bellicoso) tra stati, intesi come grandi rappresentanti dei rispettivi popoli, sarà la razionale prosecuzione del divenire storico dello spirito. La guerra, insomma, avrebbe il ruolo di fondamentale motore della storia, contribuendo all’affermazione dei caratteri nazionali e impedendo che si verifichino avvilenti momenti di stagnazione:
Essa ha il più alto significato in ciò, che, per suo mezzo, come ho spiegato altrove, la salute etica dei popoli è conservata nella sua indifferenza, di fronte al rafforzarsi delle determinatezze finite, come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione, nella quale lo ridurrebbe una quiete durevole, come vi ridurrebbe i popoli una pace durevole o, anzi, perpetua.
È dunque forte, in Hegel, la convinzione che la guerra, lungi dall’essere qualcosa di deplorevole, costituisca un naturale balsamo per la salute dello stato (implementando una sorta di cementificazione dei cittadini e limitando l’insorgenza di moti rivoluzionari interni, da Hegel indicati con la formula di “determinatezze finite”) e per quella della storia, che se confinata in un’angusta pace perpetua (e qui il rilievo polemico all’indirizzo della diplomazia internazionale kantiana è evidente) finirebbe coll’impantanarsi in uno stato di putrida marcescenza.
La guerra assume quindi i connotati di un momento etico vero e proprio, come parte integrante della vita dei popoli e degli stati; per dirla in termini meno arzigogolati di quelli usati da Hegel potremmo ricorrere alla celebre massima di un suo contemporaneo, vale a dire il generale prussiano Carl Von Clausewitz, secondo cui “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Clausewitz, che ammise di provare lievi simpatie nei confronti della filosofia hegeliana (e che condivise anche la triste sorte del suo propugnatore, morendo nella stessa epidemia di colera che spense Hegel), redasse una ponderosa opera sulla guerra destinata ad avere un’immensa fortuna, e che all’epoca non doveva essere troppo diversa, nella percezione dei lettori, da quello che per noi oggi potrebbe essere un manuale di meccanica o di management; il fatto stesso di fare la guerra, di sapere come condurla, di capirne la stretta affinità con i meccanismi politici, non solo costituivano argomenti di pubblico interesse per le classi colte, essendo la guerra faccenda quotidiana e culturalmente accettata nella risoluzione delle controversie, ma si presentavano anzi come requisiti fondamentali per tutti coloro che avrebbero eventualmente voluto (o dovuto) intraprendere la carriera di ufficiale.
Va però fatta, a questo punto, una serie di precisazioni sul carattere e sulla fisionomia della guerra per come essa veniva intesa quando Hegel e Clausewitz ne descrivevano, a tratti quasi entusiasticamente, i principali aspetti. La nostra sensibilità odierna, drasticamente plasmatasi sulla scorta dei tremendi conflitti del ‘900, è infatti assai distante dalle posizioni “prussiane” dei due personaggi presi in esame, ed anzi ben più prossima al netto pacifismo etico della carta dell’ONU. La differenza così marcata tra vedute sullo stesso argomento dipende ovviamente dal carattere intrinseco della guerra scelta come exemplum, dal momento che, mettendo per il momento da parte giudizi troppo trancianti, non tutte le guerre sono tra loro uguali.
Quel era, perciò, la guerra di Hegel e Clausewitz? A conclusione dei Lineamenti di filosofia del diritto, tra le annotazioni di Eduard Gans ricavate dalle lezioni di Hegel, si trova questa breve precisazione sui conflitti moderni:
Quindi, le guerre moderne son fatte umanamente, e la persona non è in atteggiamento di odio, di fronte alla persona. Tutt’al più, sopravvengono ostilità personali agli avamposti: ma, nell’esercito come esercito, l’ostilità è qualcosa di indeterminato, la quale vien meno, di fronte al dovere, che ciascuno rispetta nell’altro.
Fa certamente specie incorrere in un’espressione che presenta la guerra come condotta “umanamente”, ma ancora una volta il rischio è quello di essere sviati dalla concezione della guerra post-novecentesca. La guerra di Hegel è, per l’appunto, un’azione condotta sul piano dell’umanità, nella misura in cui non coinvolge l’odio vero e proprio dei singoli nei confronti di altri singoli (laddove, nelle due guerre mondiali a noi più familiari, l’odio assume tonalità apertamente razziste e xenofobe), bensì un generico o, per usare termini più specificamente hegeliani, un indeterminato senso del dovere che altro non è se non l’estrema propaggine della grande volontà libera dello stato o della nazione sotto cui si serve in qualità di soldato.
Tutto questo porta a una legittimazione sul piano razionale anche degli aspetti più cruenti; la violenza stessa, che da un punto di vista astratto (vista cioè come un mezzo per risolvere le controversie sul piano privato degli individui) risulterebbe inaccettabile, nel più comprensivo orizzonte dell’eticità statale assume i connotati dell’accidente necessario all’interno di un confronto fra grandi totalità indeterminate. Così Hegel:
Il principio del mondo moderno, il pensiero e l’universale, ha dato al valore militare l’aspetto più elevato, per cui la sua manifestazione sembra essere più meccanica, e non appare come fatto di questa persona particolare, ma, soltanto, come di un componente di una totalità, per cui, parimenti, esso appare come non rivolta contro persone singole, ma contro una totalità ostile; e, quindi, il coraggio personale appare come non-personale. Quel principio ha inventato, quindi, l’arma da fuoco; e non è già un’invenzione accidentale di quest’arma quella che ha trasformato l’aspetto semplicemente personale del valore militare, nell’aspetto più astratto.
La curiosa e quasi pittoresca nota conclusiva in merito all’invenzione e all’impiego delle armi da fuoco è perfettamente coerente con il quadro complessivo delineato dal grande idealista: il bellum iustum di Hegel è una guerra sostenuta dalla ragione e combattuta con i mezzi dell’astrazione.
Val qui la pena di aprire una breve parentesi. La formula “bellum iustum” venne impiegata già ai tempi dei Romani per indicare non solo una guerra “giusta” sul piano ideologico (magari intesa come portatrice di civiltà), ma anche da un punto di vista tecnico. Per i Romani era combattuta dignitosamente solo quella guerra che rispettasse alcuni criteri ben precisi: essa doveva svolgersi in campo aperto, con gli opposti schieramenti disposti uno di fronte all’altro e doveva premiare coloro i quali dimostravano una maggiore forza e una superiore organizzazione tattica. I fenomeni di guerriglia e le astuzie che esulavano dal fragore del campo di battaglia erano ritenuti appannaggio dei cosiddetti latrones, banditi codardi e vigliacchi di scarsissimo riguardo. Eccezion fatta per l’utilizzo delle bocche da fuoco, la battaglia napoleonica non si svolgeva in modo troppo diverso. I battaglioni si muovevano compatti, si disponevano su più file e, dopo aver scaricato le proprie armi, caricavano il nemico con le baionette spianate. Entrambe le epoche ebbero poi le rispettive formazioni tattiche d’occasione: la famosa testudo dei legionari e il quadrato dei reggimenti di fanteria.
Non serve sottolineare ulteriormente il carattere ormai superato di questo tipo di impostazione. Le guerre mondiali e tutte le successive, profondamente trasformate soprattutto dall’impatto determinante dei nuovi mezzi d’assalto e delle tecnologie avanguardistiche, presentano un volto ben differente da quello enucleato sin qui. E questo ha fatto sorgere, a critici ed esegeti del pensiero hegeliano, un certo numero di domande sulla validità strutturale del sistema e del ruolo della guerra al suo interno. Ci si è spesso chiesti, tanto per fare un esempio, se lo stesso Hegel avrebbe mantenuto inalterata la sua posizione qualora avesse potuto essere testimone degli orrori del ‘900. Immaginando un’ipotetica risposta affermativa al quesito, non mancherebbero, nell’opera del filosofo, passi che ancora oggi potrebbero adeguarsi alle nostre realtà socio-politiche e vedere nella guerra una necessità impellente e ineliminabile. Anche in un mondo profondamente interconnesso, costituito da enormi federazioni di stati e, apparentemente, in pace, i germi del conflitto non tarderebbero a manifestarsi nuovamente:
Sol che lo Stato è un individuo, e nell’individualità, è contenuta essenzialmente la negazione. Quindi, anche se un certo numero di Stati si costituisce a famiglia, quest’unione, in quanto individualità, deve crearsi un’antitesi e generare un nemico.
Per quanto cinica, l’osservazione di Hegel non è completamente fuori luogo quando la si applichi ad alcuni degli ultimi conflitti contemporanei. Il pensiero si volge quasi automaticamente all’appena concluso conflitto tra Stati Uniti e Afghanistan, esempio concreto di una guerra salutata dall’Occidente come bellum iustum sul piano ideologico e combattuta nell’arco di vent’anni con metodi che avrebbero scontentato tanto Hegel quanto i Romani (le differenze sostanziali tra i combattenti e l’adozione di attacchi a sorpresa e tattiche di guerriglia consentono di parlare a tutti gli effetti di una “guerra asimmetrica”). Ma ciò che conta, in ultima analisi, è la constatazione che la guerra, per quanto vituperata e risospinta ai margini dei grandi agglomerati statali occidentali, continua nondimeno a essere parte della nostra quotidianità e a imperversare in forme nuove e sempre più disumanizzate (o astratte, come forse avrebbe detto Hegel).
Se spogliata dai suoi elementi ormai vetusti e retrogradi, la speculazione del pensatore di Stoccarda sembra aver inquadrato un elemento sinistramente incontestabile: la guerra è ineluttabile, sempre ritorna e spesso è voluta e innescata da quelle stesse grandi potenze che, magari con lo sbandierato pretesto di dover preservare la pace, continuano a “crearsi un’antitesi”. Poste innanzi alla reale concatenazione degli eventi, le pur belle parole dei trattati e delle carte internazionali non possono che scolorire e velarsi di un’amara ipocrisia. Hegel, verosimilmente, le apostroferebbe in maniera non troppo dissimile da questa:
Però, malgrado ciò, le guerre han luogo quando esse siano nella natura della cosa; gli Stati crescono di nuovo rigogliosamente, e le chiacchiere ammutoliscono, dinanzi alle serie repliche della storia.
@ILLUS. in evidenza e nl corpo dell’articolo by SOBERMAN, 2022
@ILLUS. nel corpo dell’articolo by GENE-RICK, 2022
@ILLUS. in fondo by KITSCHSTER feat. PATRICIA MCBEAL, 2022