BREVE VANILOQUIO RIBELLE
E io vorrei addirittura affermare che chi resta incapace di cominciare a filosofare di fronte a un paio di stivali scalcagnati; anzi, chi, di fronte a questo paio di stivali scalcagnati è capace di non cominciare a filosofare, non può qualificarsi filosofo[1].
La filosofia deve tornare a occuparsi delle cose semplici, delle cose prime, delle cose ultime.
Da una parte il pensiero ha finito per abdicare ai tecnicismi accademici autoreferenziali; dall’altra, alla democratizzazione perversa che ha condotto a un illanguidimento generale delle intelligenze. Tutti parlano e scrivono e compongono, nessuno tace o legge o contempla. Nei circoli, nelle università, nelle biblioteche: ovunque parole prive di energia vitale, livellamento, chiose di chiose di chiose e mai un guizzo di originalità. Meglio il nozionismo mnemonico, il virtuosismo del citazionismo. La memoria è diventata una banca dati, la ragione una procedura di mera computazione.
Filosofia come ricognizione di quello che esiste, come catalogo enciclopedico o archivio, invece di osservazione di quello che è. Primeggiano il plurilinguismo e la ricerca archivistica, mentre la capacità di formulare costruzioni e argomentazioni individuali, e perciò stesso uniche e differenziate, finisce per atrofizzarsi. Domande essenziali che battono come un cuore nel petto della vita – chi sono?, che cos’è la coscienza?, che cos’è la verità?, che cos’è la conoscenza?, dove stiamo andando?, che cos’è l’essere? – paiono ormai puerili quesiti da fanciullo ingenuo: un filosofo, dicono i poliziotti del pensiero, non deve preoccuparsi di queste cose.
Resta nondimeno inevasa una domanda: di cosa deve occuparsi, allora, questa misteriosa filosofia? Essa è costruzione di senso innescata da quella meraviglia di aristotelica memoria divenuta oggigiorno, invece che rincorsa verso il tuffo in un taglio di luce, segno di ingenua credulità e debolezza esistenziale e sociale. Educato all’imperativo performante della tecnica, l’uomo ha dimenticato di essere uomo e, in quanto tale, un ente in tensione storica e costante con il grande mistero che inghiotte ogni tentativo tassonomico. Le neuroscienze hanno disvelato il pensiero come una mera attività fisiologica e qualunque quesito intorno all’essere o al fondamento, per esempio, finisce per diventare un orpello velleitario privo di qualunque scientificità e, perciò stesso, autorità.
Non si tratta di resuscitare un atteggiamento luddista o grossolanamente retrogrado, né di semplificare questioni storiche e culturali che meriterebbero trattazioni molto più ampie: è in gioco qualcosa di diverso. Le parole, contaminate da una esterofilia linguistica aberrante, da tempo non riescono a incarnare un pensiero, il quale a propria volta non germoglia più perché impossibilitato a trovare un veicolo adeguato di espressione e costruzione. Per essere credibile ogni cosa deve essere già stata: tutto è già visto e già esperito, imitazioni di imitazioni, «precessione dei simulacri». Gli algoritmi regolano ogni spazio del reale, pervasivi e capillari, il relativismo sociale che allenta la morale incontra nondimeno un’ortodossia incontrovertibile quando si tratta di danaro o scienza, entità che al contrario non possono essere messe in discussione.
Il pensiero deve svoglere un ruolo catastrofico, essere esso stesso un elemento catastrofico, di provocazione, in un mondo che vuole epurare tutto, sterminare la morte, la negatività. Ma deve nello stesso tempo restare umanista, preoccuparsi dell’uomo […][2].
Invece nulla, pensiero sonnolento e febbrile impazienza di rispondere nella paradossale assenza di domande. E tutto per la fretta di sbarazzarsi di «un paio di stivali scalcagnati».
[1] G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution (1980), trad. it. M. A. Mori, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 389.
[2] J. Baudrillard, Mots de passe (2000), trad. it. S. De Amicis, Armando Editore, Roma, 2002, p. 80.
@ILLUS. by TEKATLON, 2020
Il pensiero deve svolgere un ruolo catastrofico; vero. Resta da definire il termine “catastrofe” [gr. καταστροϕή, propr. «rivolgimento, rovesciamento», der. di καταστρέϕω «capovolgere»].
Io, che sono il profeta scomodo della DESISTENZA; credo che la Filosofia, in quanto arte del pensiero, debba tendere al Silenzio del Pensiero: questo è il rovesciamento “catastrofico” che auspico. Silenzio del Pensiero che zittisce ogni voce che lo voglia dire. Chi non può parlare? Solo chi non è umano, chi non è un ESSERE umano.
Ma non è qui tanto questione di PENSARE o di PARLARE (dire) il Pensiero pensato: il desistenzialista crede che qualunque pensiero, in quanto declinazione del Pensiero (con la ‘P’ maiuscola) sia nient’altro che declinazione ontalgica. Uno è il Pensiero dell’umano: l’essere sofferente e Molti sono i fenomeni sofferenti del Pensiero umano.
La vera “catastrofe” che il pensiero desistenzialista auspica è la presa di Coscienza dell’Ontalgia; senza questa Coscienza ci si perderà sempre in chiacchiere filosofiche che mai risolveranno una volta per tutte la Questione dell’Essere (umano).