BREVI PENSIERI DI UN NON-IMPERATORE SULLO STOICISMO E DINTORNI
A me stesso. Proprio come fece Marco Aurelio: mettere su carta i propri pensieri per nessuno che non sia sé stesso. Certo, questo presuppone la finzione di sdoppiare la mia personalità in (almeno) due entità separate, una parte che parla e una che ascolta, una che scrive e una che legge. Mi si perdonerà questa necessaria schizofrenia d’autore. Anzi! Sono autore e recensore: posso perdonarmela da me. E posso anche essere comodamente indulgente: non avrò nessuna pretesa di essere o sembrare saggio come il grande imperatore.
Ciò detto, di quell’uomo ho sempre apprezzato la compostezza e il forte carattere. In realtà, come di molti uomini di cui ammiro le gesta e le opere, anche per Marco non posso che rifarmi all’idea che di lui mi sono fatto distillandola dai libri di storia e dalle raccolte di aforismi. Ma forte e composto dev’esserlo stato quasi sicuramente; non mi spiegherei, diversamente, come abbia fatto a gestire – e neanche troppo male – l’incipiente rovina del più grande impero sulla faccia della Terra figurando, alla fine, tra i migliori sovrani di Roma antica. Tuttavia, l’aspetto che di lui mi ha sempre maggiormente colpito è la perentorietà dei suoi pensieri. I pensieri retti e altisonanti di un vero filosofo stoico. E confesso che spesso, pur senza negargli la mia adorazione, mi sono domandato se davvero, come uomo, si sia sempre attenuto alla rigidità di quelle severe regole. La domanda non nasceva mai da una forma di sfiducia nei confronti dell’imperatore, ma da un impulso più personale. Il fatto è che ogni volta che ho provato ad applicare lo stoicismo alle faccende (sicuramente meno travagliate di quelle imperiali) della mia vita, sono sempre incorso in infruttuosi disastri.
Quando ero ragazzo, per dirla tutta, fui un sincero ammiratore e seguace della filosofia stoica. La ricerca fine a sé stessa della conoscenza, l’imperturbabilità del saggio atta a renderlo impermeabile alle insidie delle passioni, la ferma ed eroica accettazione di ogni calamità e del proprio fato: questi nobili temi mi rinvigorivano l’animo e mi capitava sovente di farne dei veri e propri precetti di vita. Eppure, a ripensarci fuori dal quieto e misurato alveo del mio filosofare, mi rivedo per quello che ero ed apparivo veramente: non altro che un ragazzo timido e goffo che si sentiva terribilmente solo. Così, che ne fossi cosciente o meno, trasformai la più pietosa delle condizioni umane – ma a quei tempi molto difficilmente l’avrei dipinta in questi termini – in un’oasi di virtù: sarei stato solo per scelta, attorniato unicamente dai principi della logica e della ragione e illuminato dalla convinzione di star perseguendo il cammino della vera saggezza. Avrei realizzato il mio ideale ascetico in santuari accuratamente selezionati, al riparo da occhi indiscreti e al sicuro dal chiasso della folla (che per me, in quel complesso momento, poteva costituirsi anche solo di una manciata di persone).
Ora, però, quei luoghi appartati e deserti che bazzicavo da adolescente – con i miei libri come unici compagni – mi ispirano una specie di sinistro horror vacui e il loro silenzio, che prima ricercavo con avidità quasi vampirica, mi opprime e mi sconcerta oltre il limite della tolleranza. Mi chiedo se anche all’imperatore sia mai capitato qualcosa di simile o, piuttosto, se i fragori del campo di battaglia e i ringhi feroci dei Marcomanni lo abbiano tenuto occupato a sufficienza da sottrarlo a questa mesta esperienza. Sono però quasi sicuro che la sua tempra stoica abbia più volte vacillato nel corso degli anni, specialmente quando il destino, che non sempre è un diligente alleato dei filosofi, decise di sottrargli l’amato fratello Lucio Vero o spinse l’amico Avidio Cassio al tradimento e alla rivolta. (E, detto tra parentesi, nemmeno quell’importuna questione della peste dev’essere stata una passeggiata).
Eppure non faccio troppa fatica a immaginarmelo mentre, dall’arcione bronzeo del suo pregiato monumento equestre, si schermisce dicendo che il vero saggio basta a sé stesso, che le passioni violente non lo devono impensierire e che tutte le cose avvengono per una ragione, anche quelle tragiche e spiacevoli. Tutto ciò era destino.
Vorrei sinceramente riuscire a crederci. Davvero. Ma devo confessare a me stesso di non seguirlo più di tanto su questi punti. Sì, ho sperato per molto tempo e con grande intensità che un uomo possa effettivamente bastare a sé stesso. Ne avevo un urgente bisogno. Il tempo e l’esperienza, con i loro modi non sempre delicati e riguardevoli, mi avrebbero però inflitto significativi ammaestramenti. Mi avrebbero posto ben presto di fronte all’Altro privandomi della possibilità di ignorarlo, ridicolizzando completamente la mia presunta atarassia.
E l’Altro, il mio antico spauracchio, ora sembra essere qualcosa a cui non posso davvero sottrarmi. Lo temo. Lo invidio. Mi vergogno di fronte al suo sguardo. Lo odio, ma vorrei saperlo amare. Non posso farci nulla. Pare che gli altri esistano e che io debba per forza di cose provare qualcosa. Dolore e imbarazzo, principalmente. E altre amenità.
Marco mi biasimerebbe.
Io potrei forse avanzare timidamente l’obiezione che, almeno in una singola occasione, anche lui sia stato spinto ad agire dai moti del cuore. Magari solo una volta, in punto di morte, quando gettò alle ortiche la prudente consuetudine inaugurata da Nerva di designare il proprio successore adottandolo per meriti e inclinazione; e invece lui, il savio imperatore filosofo, scelse il figlio Commodo. L’inaffidabile, vizioso e incompetente Commodo. Immagino lo amasse sinceramente e non riesco a fargliene una colpa. Era destino ancora una volta. Il saggio non dovrebbe farsi scuotere dallo scorrere del tempo e dall’avvicendarsi degli eventi.
Sono di nuovo costretto a sottolineare che non ho velleità di ritenermi o fingermi saggio. Perché nemmeno su quest’ultimo aspetto riesco a concordare appieno. Per almeno due ordini di ragioni.
La prima è che il fluire del tempo e degli eventi mi dà spesso la nausea. La mia scorza non è neanche lontanamente paragonabile a quella del nobile romano e se, sul piano della speculazione teorica, posso accettare che “tutto scorre” non riesco però a farlo nella pratica. Perché odio la precarietà. Odio camminare senza sapere dove si poserà il mio prossimo passo. Odio l’orizzonte sfocato. Odio ogni forma di abisso. Odio la fragilità dei legami. Odio l’esistenza liquida.
Secondariamente, non so accettare mansuetamente i verdetti del destino. L’unica cosa che io abbia mai ottenuto nell’adeguarmi è la gastrite. Ma solo adeguandosi, direbbe l’imperatore, un saggio può conseguire il dominio su sé stesso ed esercitare l’autarchia. Ho però constatato che oggi il termine “autarchia” è diventato desueto e che i capitani della mia epoca gli preferiscono la parola “resilienza”; e che quando la usano, solitamente, non è per accompagnarla a espressioni come “libertà” e “autonomia”, ma piuttosto a “sfruttamento” e “dipendenza”.
Posso senz’altro rimproverarmi di non aver saputo leggere e intercettare lo spirito del mio tempo, di non aver recepito correttamente le sue consegne. Sono e morirò povero. E non da stoico.
Ma almeno su un ultimo punto io e l’imperatore ci troviamo in sintonia. Abbiamo entrambi concluso, probabilmente percorrendo itinerari molto diversi, che la vita, non importa quanto umile e umiliata, debba comunque sapersi schiudere al pensiero. Lui, nei suoi Ricordi, l’ha detto in maniera un po’ meno prosaica:
Costui filosofeggia senza tunica, quello senza libro, quello mezzo nudo. «Manco di pane, – egli afferma, – tuttavia continuo a vivere secondo ragione». Ed io: «Benché la scienza non mi nutra, vi persisto»[1].
Ma il senso, tirando le somme, è grossomodo lo stesso. Un imperatore e un plebeo, appesi al chiodo i rispettivi ranghi, non possono che riconoscersi vicendevolmente come portatori (sani) di ragione.
Negli occhi dell’Altro, mio malgrado e forse per fortuna, alla fine so di esserci anch’io.
[1] I ricordi, Marco Aurelio, Carlo Carena (a cura di), Einaudi, Torino 2003, pp. 52.