C’È PIÙ COMPETIZIONE TRA DONNE?
Ad alcuni, forse, sembrerò indelicato ma è necessario che io inizi parlando di menopausa e dell’evidenza scientifica che rileva l’impatto che su di essa ha un contesto sociale favorevole per le donne: nello specifico è la constatazione che ad aumentare la probabilità di alleviare, o addirittura evitare i suoi sintomi tipici, siano uno status e una considerazione più elevata della donna, nonché un più solido sostegno familiare e amicale.[1] Uno dei più recenti studi scientifici che lo conferma si focalizza sulle donne di mezza-età appartenenti al matriarcato radicale dei Mosuo e sulle loro, meno fortunate, coetanee delle circostanti società patriarcali.[2] Se la sintomatologia delle prime è pressoché assente, quella delle seconde non si discosta granché dai dati registrati da noi in Occidente. Il fatto è che solo in una società incentrata intorno al punto di vista materno si realizza una tendenziale ma reale equità ed armonia nelle relazioni, nonché un benessere più diffuso tra i membri che la compongono, sia donne, sia uomini. Tra l’altro i matriarcati radicali considerano le mestruazioni un dono da celebrare a partire dalla loro prima comparsa. Tutto l’opposto di quanto non avvenga nelle principali tradizioni androcentriche che le ritengono, invece, “impurità contaminanti da cui tenersi alla larga”. Non è forse vero che nell’Alto Medioevo in Europa alle donne mestruate era fatto divieto di entrare in Chiesa? E nei secoli successivi non venivano ritenute la causa del deterioramento del latte, del vino e dei fiori?
A causa del ciclo, persino oggi, da noi, si riscontra la tendenza a mettere in relazione la natura femminile alla perdita di controllo di sé e dei propri nervi. Se da un lato, ciò avviene non di rado a sproposito, dall’altro si tende a parlar poco della irritabilità e della suscettibilità di noi uomini. Perché? La tendenza a reagire in maniera inconsulta e nevrotica non è forse alla base di un gran numero di comportamenti maschili tanto gravi quanto dannosi? Oltretutto i comportamenti antisociali non solo trovano puntualmente negli uomini il maggior numero dei responsabili, ma sono anche direttamente proporzionali al grado di machismo e misoginia presente nella cultura che li ha formati. Nel 2020, quando del Consiglio d’Europa faceva ancora parte la Federazione Russa – poi estromessa per avere invaso l’Ucraina – è stato commissionato uno studio sulla popolazione carceraria di tutti i suoi 47 Stati membri e si è scoperto che, dallo stretto di Gibilterra a quello di Bering, le carceri erano popolate per oltre il 95% da uomini. In Italia, secondo l’Istat, gli uomini rappresentavano il 95,7% della popolazione carceraria, il 92% degli imputati per omicidio, l’87,5% per rissa. Le statistiche sugli incidenti stradali mortali ci informano che quelli causati dagli uomini, a parità di tempo e km di guida con le donne, erano l’83,08%.[3] Alla luce di tutto ciò, quindi, a chi spetta il primato dei nervi saldi? Sì, insomma, chi controlla meglio se stesso e i mezzi di cui dispone? Gli uomini o le donne?
Nel 2005 David Foster Wallace raccontò ai laureati del Kenyon College una storiella che riassumo in tre righe:
due giovani pesci chiacchierano amabilmente tra loro quando incontrano un pesce anziano che gli fa: “salve ragazzi! Com’è l’acqua oggi?”; i due si guardano increduli e dicono “l’acqua? Cos’è l’acqua?”.
In effetti possiamo dire lo stesso di noi occidentali, uomini e donne. Siamo immersi a tal punto in una plurimillenaria misoginia da non esserne consapevoli. Un cortocircuito che alimenta una infinità di fraintendimenti. Prendiamo il caso di chi, tra le donne, considera idealizzata la mia opinione sul femminile e mi dice: “Attento Daniele! C’è molta più competizione e combattività tra noi donne rispetto a quanta non ve ne sia tra voi uomini!”. Fino a qualche anno fa ribattevo sollevando dei dubbi, limitandomi cioè a riferire le impressioni di amiche e conoscenti originarie di paesi stranieri dove le disuguaglianze di genere sono minori. Erano espatriate in Italia da anni e oltre a dichiararsi stupite dalla notevole “competitività tra le donne italiane!”, precisavano che nei loro paesi di origine c’era la tendenza contraria; “tra noi donne” dicevano “c’è solidarietà”. Confrontando queste due prospettive era inevitabile che mi ponessi degli interrogativi. Ad esempio:
“Ad essere particolarmente competitive chi sono? Le donne in generale, in quanto donne? Oppure la competitività si manifesta e aumenta tra loro quando si formano e vivono in un ambiente verticistico e maschilista, cioè ostile a loro? Non è forse vero che in molti paesi patriarcali, incluso il nostro, di norma, una donna deve faticare di più visto che, spesso, quanto più alta è la posizione di potere cui ambisce, tanto più numerosi sono gli ostacoli che deve affrontare rispetto a quelli incontrati da un uomo a parità di merito?”
Per chi ritiene che in Occidente non sia più così da anni rifletta su questi dati: delle 500 aziende statunitensi più ricche solo il 6,2% ha una donna al vertice[4]. Eppure in quel paese (come anche nel nostro) è dagli anni ’80 che le donne con un master universitario rappresentano la maggioranza; oggi, addirittura, sono il 60,7% in più rispetto agli uomini e in Italia i numeri sono più sconcertanti. Basti citare l’indagine condotta da Sky da cui emerge che alla guida delle più grandi aziende italiane ci sono meno donne rispetto a quanti non siano, ad esempio, gli uomini di nome “Carlo”.[5]
Questa patriarcale propensione di promuovere e agevolare innanzitutto il sesso maschile è – ancora oggi – rintracciabile da noi quasi ovunque: ad esempio è persino nella malcelata irritazione diffusa tra gli uomini fidanzati o sposati con donne che li superano nella carriera e nel reddito. Di “rosiconi” siffatti, personalmente, ne ho conosciuti abbastanza qui in Occidente da considerare sistemica questa mentalità, nonché la principale ragione per cui il numero di noi uomini aumenta a mano a mano che saliamo nelle posizioni apicali. Ne consegue che in ambienti così misogini la maggiore combattività delle donne sia una scelta obbligata visto che, a parità di merito con l’altro sesso, hanno – in media – più ostacoli e dunque meno opportunità di successo. Dalla categoria sottostante nella quale sono ancora oggi – ahinoi – confinate emerge solo chi sgomita più di un uomo e si fa largo a discapito delle colleghe.
Questa maggiore competitività è, lo ripeto, indotta dalla misoginia del sistema e non solo viene confusa con la stessa natura femminile, ma si propaga ben oltre l’ambito lavorativo: si trasferisce cioè per osmosi, alle figlie, alle amiche, alle conoscenti, ecc.. I circoli viziosi che ne derivano aumentano la probabilità di renderle inconsapevolmente misogine e patriarcali, cioè con una tendenziale reciproca disistima, la quale, per ironia della sorte, le induce a stimare unicamente noi uomini, avvantaggiandoci ulteriormente. A supporto delle tante ragioni per cui, alla luce di quanto detto fin qui, dovremmo ripetere in coro “aihnoi”, riporto la conclusione a cui sono giunte numerose ricerche sulle varie forme di governance: le donne al vertice delle gerarchie aziendali sono meno propense a commettere frodi, riducono l’esposizione al rischio di un’impresa, dirigono – tendenzialmente – con uno stile più oculato, partecipativo, democratico, trasparente e attento ai lavoratori, i quali, di rimando, aumentano la produttività per il semplice fatto di sentirsi più soddisfatti.[6]
A fuorviarci ulteriormente ci si mette anche la presenza di una manciata di donne famose nei posti di comando apicale. In buona parte è dovuta alle “quote rosa” ed è enfatizzata da una esposizione mediatica che può illuderci, farci credere che la misoginia sistemica sia un ricordo del passato. Eppure se le donne diventassero, come auspico, massa critica – se superassero cioè numericamente gli uomini nelle stanze del potere – prenderebbero, un po’ alla volta, coscienza della loro vera e più segreta natura. Con quali conseguenze? Tanto per cominciare inizierebbero a indirizzare con forza crescente il focus della politica verso tematiche assai diverse da quelle ricorrenti nei patriarcati.
Se appartenessi a un partito desideroso di contrastare tale eventualità, getterei fumo negli occhi ai cittadini; favorirei l’ascesa di uno o più simboli femminili dalla mentalità ultra-patriarcale, come lo era ad esempio Margaret Tatcher, la quale, in una intervista, disse «Odio il femminismo, è veleno». L’ideale sarebbe quello di dare enfasi grazie a loro non solo ai difetti del femminismo, ma soprattutto allo slogan che mettere al mondo i figli sia l’unico orizzonte di vita per una donna. Eppure, al di là dell’ingannevole fumo, si stende una molteplicità di orizzonti ignoti alla maggioranza. Tra questi la possibilità per le donne di essere madri non solo dei figli ma anche della patria, della nazione e della società in generale. Il matriarcato radicale, infatti, oltre ad essere la forma sociale più egualitaria e pacifica della terra, ha caratteristiche tali che, una volta scoperte, sorprende la maggior parte di noi nati e cresciuti nella civiltà opposta. Non solo! Il matriarcato può rappresentare una sorta di specchio che, per contrasto, riflette per la prima volta a noi stessi la più segreta natura della nostra anima occidentale.
Ne parlo in Di dominio pubico (edizioni Ensemble), un romanzo nato dal desiderio di stimolare il lettore a voler essere come il pesce che, finalmente, ha coscienza dell’acqua. Di sicuro tra coloro che lo hanno letto ricorre la descrizione che sia un romanzo innovativo-e-ironico sui matriarcati radicali, dove, insieme ai protagonisti – Gaiopea, Ypsilon e Hypersio – compiamo un viaggio iniziatico alla scoperta delle radici più segrete e vitali del femminino e del mascolino. Gli psicologi affermano che entrambi questi punti di vista coabitano (in misura variabile) in tutti gli esseri umani, persino nell’uomo più macho e nella donna più femminile. Meno noto è il fatto che a determinare in noi l’orientamento politico e il nostro stare nel mondo, siano proprio questi due punti di vista in generale e in particolare le modalità e i gradi in cui ciascuno di essi viene espresso o represso, armonizzato o indotto al conflitto con la sua controparte complementare. Ecco perché nel romanzo ci immergiamo quasi subito tra gli usi e i costumi dei Mosuo, una popolazione che da immemorabile tempo armonizza tra loro valorizzandoli appieno il mascolino e il femminino.
Il risultato è un’armonia interiore così ben riuscita e risolta in ciascuno da proiettarsi all’esterno, anche in ambito relazionale, nella forma di una ottimale complementarità tra i due sessi. È per questo che L’O.N.U. ha definito i Mosuo “Società di Pace”. Non potrebbe essere altrimenti, visto che non conoscono violenze domestiche, né sopraffazioni, né atti predatori, pedofili, persecutori, omicidi, ecc.. Un numero considerevole di evidenze di natura biologica[7], psicosociale[8] e storica[9] avvalorano la tesi secondo cui l’essere umano ha caratteristiche tali che nel caso in cui desiderasse davvero realizzare un mondo egualitario-pacifico-ed-accogliente non avrebbe altra scelta se non quella di matriarcalizzare la società in cui vive e si forma, cosa che già tentò di realizzare Platone con la “Repubblica”.[10]
Un matriarcato radicale infatti è la faccia a noi ignota della medaglia; una società nel cui perno c’è proprio quello che in troppi qui ritengono irrealizzabile; la poesia e la magia dell’amore senza possesso, la condivisione, il bilanciamento dei ruoli tra uomini e donne, il dialogo e la cura del prossimo.
Favorire il trionfo della mentalità matriarcale è l’unica via da percorrere, specialmente oggi alle soglie della rivoluzione più grande di tutte, l’I.A Revolution. Basti solo pensare agli algoritmi che ci profilano, manipolano e dominano in vario modo, magari anche solo per orientarci politicamente. E visto che l’ARTE DI RENDERE IRRESISTIBILE UN PRODOTTO SCADENTE ha ormai raggiunto vette incredibili (e visto che è utilizzata ampiamente anche dalla politica, su tutti i Media) è necessario, anzi urgentissimo, superare pacificamente il paradigma patriarcale incentrato sul potere-possesso-suprematismo.
Nel dormiveglia focalizzavo sempre più l’attenzione su una voce di donna. Parlava delle scimmie più simili a noi esseri umani; i pacifici bonobo e i violenti scimpanzé. “Alla guida dei bonobo”, diceva, “ci sono tutte le femmine adulte; mentre al comando degli scimpanzé ci sono i maschi più aggressivi”. Ma fu solo quando iniziò a esporre le ragioni per cui anche in ambito umano i matriarcati sono pacifici e i patriarcati violenti che aprii gli occhi e capii (tratto da Di dominio pubico)
Concludo esortandovi a spalancare gli occhi. La mentalità occidentale si trova, per la seconda volta, ad un bivio: da un lato c’è la sua maturazione verso un pacifico matriarcato, dall’altro il suo brusco ritorno al suprematismo misogino. I segnali intorno a noi sono gli stessi già emersi nella Roma imperiale. Aprite gli occhi e le orecchie, con Di dominio pubico dico questo: “per fare la scelta giusta, stavolta, è necessario conoscerla!”.
[1] I sintomi della menopausa sono correlati anche ai cambiamenti nei ruoli sociali, vedere ad esempio: Greendale, G. A., Lee, N. P., and Arriola, E. R. (1999). The menopause. Lancet 353, 571–580. La menopausa è considerata infatti anche un disturbo psicosomatico, vedere: Facchinetti, F., Demyttenaere, K., Fioroni, L., Neri, I., and Genazzani, A. R. (1992). Psychosomatic disorders related to gynecology. Psychother. Psychosomat. 58, 137–154. doi: 10.1159/000288622.
[2] Menopause-Related Symptoms and Influencing Factors in Mosuo, Yi, and Han Middle-Aged Women in China, di Jinyi Wang, Yezhe Lin, Limin Gao, Xingjun Li, Chunhua He, Maosheng Ran and Xudong Zhao, Front Psychol, 2022; 13: 763596. Per formasi un’idea di come sia un matriarcato radicale consiglio la visione su YouTube di Cina – Mosuo e matriarcato: quando la donna è il “sesso forte”, Stargate vita da sinologi di Alessandra Sala, sinologa, antropologa e teologa: http://youtu.be/1z7RQWJFuTU.
[3] Dati statistici riportati da Ginevra Bersani Franceschetti e Lucile Peytavin ne Il costo della virilità, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2023, pp. XI – XVI.
[4] Dati statistici elaborati da S&P 500 list 2020 e da Statista.com “number of master’s degrees by gender since 1950”
[5] https//tg24.sky.it7economia/approfondimenti/i-ceo-donna-delle-grandi-aziende-sono-tante-quanti-si-chiamano-carlo “Le donne a capo di grandi aziende italiane sono tante quante i Ceo di nome Carlo” di Lorenza Borga, 22 ott 2020
[6] Chi desidera approfondire il discorso può iniziare dal seguente esame sistemico di 532 articoli accademici eseguito da Ciappei, C., Liberatore, G. e Manetti, G. (2023): “Una revisione sistematica della letteratura degli studi sulle donne al vertice delle gerarchie aziendali: critica, gap analysis e direzioni future della ricerca”, Sustainability, Accounting, Menagement and Policy Diario, vol.14 n.7, pp. 202 – 231 https://doi.org/10.1108/SAMPJ-10-2022-0557 Tornando ai dati Istat (2020) sulla popolazione carceraria italiana gli uomini imputati per furto sono il 76,1%, per evasione fiscale il 92%.
[7] Qui vale la pena di soffermarsi un momento sull’unica peculiarità fisiologica che può essere addotta a supporto della differenza tra uomini e donne nei ruoli di leadership. Nello specifico si tratta dell’ormone che negli esseri umani induce a comportamenti finalizzati a raggiungere e conservare un superiore status sociale: il testosterone, la cui produzione negli uomini in genere è 50 volte maggiore rispetto alle donne e che, detto in sintesi, ha questo duplice effetto: unito alla soddisfazione stimola e incrementa comportamenti generosi verso chi viene percepito come alleato, oppure, all’opposto, se unito alla frustrazione, aumenta la probabilità di reagire verbalmente e fisicamente in maniera aggressiva. Dunque l’origine del maschilismo e della sua violenza incendiaria sta proprio nell’assenza di una cultura che favorisce l’armonia e l’autocontrollo nell’uomo: senza di essa non sarà in grado di dominare l’ormonale spinta al suprematismo e la frustrazione, specialmente la frustrazione originata dalle più tipiche vulnerabilità maschili. [vedere la nota successiva]. Testosterone causes both prosocial and antisocial status-enhancing behaviours in human males, di Jean-Claude Dreher, Simon Dunne, Agnieszka Pazderska, Thomas Frodl, John J. Nolan e John P. O’Doherty, PNAS 2016; 113(41).
Per iniziare a farsi un’idea intorno al ruolo che il testosterone può avere sul comportamento di un uomo imbevuto di idee androcratiche vedere: Francis T. McAndrews The interacting roles of testosterone and challenges to status in human male aggression, Aggression and Violent Behavior, A Review Journal, Volume 14, Issue 5, September – October 2009, pp. 330 – 335; Dabbs, J.M., Jr., Carr, T.S., Frady, R.L. e Riad, J.K., “Testosterone, crime and misbehavior among 692 male prison inmates”, in Personality and Individual Differences, 1995, 18, pp. 627-633. Dabbs, J.M., Jr., Jurkivic, G. e Frady, R.L., “Salivary testosterone and cortisol among late adolescent male offenders” in Journal of Abnormal Child Psychology, 1991, 19, pp. 469 – 478. Le ultime due ricerche sono citate a p. 355 della bibliografia di In principio era il sesso. Dello stesso saggio si rimanda anche alle pp. 290 – 291 dove leggiamo che “i livelli di testosterone sono correlati alla probabilità di un ragazzo (o di una ragazza) di mettersi nei guai”.
[8] I patriarcati tendono al suprematismo proprio a causa delle più tipiche vulnerabilità maschili. Queste ultime – a ben vedere – sono risolte alla radice, cioè rese innocue o poco frustranti, solo dalle culture matriarcali più pure come quella dei Mosuo. Viceversa, nei patriarcati – specie se radicali – tali congenite insicurezze vengono solo nascoste da un infondato e illusorio senso di superiorità. In che modo? Svilendo il femminino in generale e in particolare agendo contro le donne manipolandole, ostacolandole e sfruttandole. Mi spiego meglio:
Premesso che la fermezza può tendenzialmente sedurre e avvincere tutti, per l’uomo di una cultura machista è solo una maschera di paura: la paura di non essere il vero padre, di essere meno potente e resistente degli altri maschi, di sfigurare al confronto, ecc.. in altre parole è un bluff. Esteriormente questi uomini-macho sembrano forti e virili come la gran parte degli uomini Mosuo, ma sotto la superficie, la debolezza interiore in realtà è tale da impedirgli di sopportare la benché minima critica al loro status privilegiato. Sì, insomma, (non avendo mai armonizzato il femminino che è in loro) non hanno la forza di mettersi in discussione e la sola idea che possa farlo una donna li riempie di orrore. Ecco perché gli uomini patriarcali si sono ingegnati ad escogitare un’infinità di pratiche repressive. A causa di queste paure tipicamente maschili, miliardi di donne sono state quindi private dell’educazione, sfruttate, segregate in casa e dentro gabbie linguistiche atte a bloccarne in primo luogo la sessualità. Sono pratiche tanto efficaci quanto l’infibulazione e lo dimostrano i casi di vaginite e di asessualità femminile diffusi nelle società maschiliste più radicali. Persino oggi, in alcuni paesi patriarcali, se l’uomo non tiene sotto chiave la “moglie”, lui rischia di diventare un “cornuto”, lei una “zoccola” e i loro figli “bastardi” o “figli di puttana”. Tutto questo allo scopo di legittimare la cultura del possesso e la–donna–nel–solo–ruolo–di–moglie (la propria moglie) e–di–madre (la propria madre o la madre dei propri figli).
Sarebbe qui troppo lungo spiegare perché unicamente da noi, nelle società patriarcali, la possessività assuma un ruolo così centrale, né perché siamo stati in particolare proprio noi occidentali ad ammantarla di un romanticismo così poetico e persuasivo da nascondere a tutti (in primis a noi stessi), la vera natura del possesso. Qui mi limito a riferire ciò che lessi anni fa nella vetrinetta di una libreria di Verona: “Ci sono persone che vogliono una storia come quella di Romeo e Giulietta senza sapere che è durata tre giorni e ci sono stati sei morti: bisogna leggere! Quando entrate, ricordatevi del gradino”. Una battuta, certo, ma nei patriarcati sottintende una triste e rabbiosa realtà assente del tutto nella civiltà opposta:
infatti, proprio perché i matriarcati radicali ruotano intorno al principio che dall’amore e dal sesso vada estromesso il possesso, non indugiano mai nella violenza e nella morbosità. E a dire il vero nemmeno nella prostituzione tanto che per esempio nella lingua dei Mosuo non vi sono parole come “prostituta”, “zoccola”, “mignotta”, “puttana”, e derivati. Da un lato perché la libertà delle donne (anziché essere giudicata peccaminosa), viene difesa con orgoglio da tutti; dall’altro perché gli uomini Mosuo (essendo più equilibrati) sono in grado di dominarsi, di guadagnarsi la stima delle donne, confinando gli impulsi suprematisti – laddove richiesti – esclusivamente nel gioco e nell’eros. In quest’ultimo ambito infatti l’astinenza è complessivamente ridotta al minimo, così come pure la frustrazione.
[9] Oltre al romanzo che ho pubblicato con Ensemble, consiglio:
LE SOCIETÀ MATRIARCALI, studi sulle culture indigene del mondo, di Heide Goettner-Abendroth, Edizioni Venexia, Roma 2013;
“In Principio Era il Sesso, come ci accoppiamo, ci lasciamo e viviamo l’amore oggi” di Christopher Ryan e Calcida Jethà (Editrice Odoya, Bologna, 2015) pp. 137 – 138;
Il regno delle donne, Ricardo Coler (Edizioni Nottetempo, 2021 Milano).
[10] Eva Cantarella (a p. 84 di Secondo Natura, la bisessualità nel mondo antico, Edizioni Bur, 2006 Milano) menziona la testimonianza di Epitteto (in Arr., Epict., fr. 15) secondo la quale nell’impero romano c’erano donne che brandivano nelle loro proteste i dialoghi di Platone per reclamare una completa emancipazione femminile. È una delle ragioni per cui nelle appendici di Di dominio pubico (Ensemble) mi sono concentrato quasi esclusivamente sulla filosofia di Platone. In effetti nella Repubblica egli ragionava sul modo migliore di amministrare la civiltà da lui ritenuta ideale e scriveva testualmente: “le cariche dello Stato sono comuni agli uomini e alle donne;” e “le donne hanno gli stessi diritti e doveri degli uomini” (rispettivamente Repubblica V 460B e VII 540A-E). Si può dire che la portata rivoluzionaria del suo progetto politico tocca il vertice proprio in quel libro. Anche perché abbina l’uguaglianza assoluta dei sessi ad altri costumi non meno rivoluzionari. Questi ultimi, a ben vedere, si avvicinano più alle comuni Hippie – o alle tradizioni ginecocratiche come quella dei Mosuo – che non ai costumi più diffusi nelle androcrazie, inclusa la nostra. Detto in sintesi Platone nella Repubblica afferma:
le donne e gli uomini dovranno avere la stessa opportunità di arrivare ai vertici del potere, dovranno essere sciolti da vincoli monogamici e la cura dei figli nati dalla loro promiscuità sessuale dovrà essere comune, come del resto anche i beni visto che oltre alla monogamia dovrà sparire anche la proprietà privata (Platone, Repubblica V 457D. Un osservatore misogino e monogamico che si trovasse a lungo tra i Mosuo parlerebbe anche lui, come fece Platone, di “donne in comune”. Dico questo perché il filosofo si trova spesso obbligato a esprimersi con un linguaggio comprensibile ai contemporanei. Il suo messaggio era infatti già di per sé rivoluzionario oltre misura e, in questo caso è bene ricordare che tra le “donne in comune” di cui parla ci sono anche i vertici dello Stato, a partire dalle donne magistrato di cui parla ai versi 460B e 540A-E). Dopodiché, come giustamente segnala Giovanni Reale, Platone attuò un cambio di rotta: nel dialogo successivo, il Timeo, ritornò su posizioni tradizionali e della sua epoca visto che – parlando della creazione degli esseri umani da parte di Dio – assegnò alla natura femminile una purezza inferiore rispetto a quella maschile (Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone…, decima ediz. (1991), p. 704).
Come la storia insegna, qualunque interpretazione religiosa che abbia messo la donna a un livello inferiore ha puntualmente aperto la strada a un’infinità di soprusi. Non posso dire per certo che Platone ne sia stato al corrente. Posso solo prendere atto che, nelle Leggi – cioè nell’ultimo dei suoi dialoghi – ripropose con forza unicamente il modello monogamico eterosessuale e, al contempo, trattò il tema dell’emancipazione della donna con meno enfasi. Il picco più alto lo raggiunse ai versi 805B-D scrivendo: «nel campo della educazione e in qualunque altro campo è assolutamente necessario che i due sessi siano equiparati il più possibile». È un’idea ancora rivoluzionaria per quei tempi, certo, ma è ben diversa dall’uguaglianza di cui si è profuso parlandone in senso assoluto nella Repubblica. Cosa significa «che i due sessi siano equiparati il più possibile»? Nell’ottica del Timeo se una natura è inferiore lo sarà anche la sua potenzialità e quindi, secondo tale prospettiva, le donne non arriveranno mai ad eguagliare gli uomini. Potranno solo avvicinarsi (idea che accomuna tutte le interpretazioni religiose di stampo androcratico).
In conclusione… c’è un’infinità di cose essenziali che, a partire dalla scuola, non ci hanno mai rivelato, in particolare sulle più nascoste radici dell’anima occidentale e sulle sue possibili regressioni od evoluzioni. Quanti di voi hanno avuto occasione di sapere ad esempio che [I] Socrate e Platone, per primi, costruirono le premesse per matriarcalizzare la nostra civiltà? O che [II] sia Cristo, sia il cristianesimo delle origini, aderirono appieno alla filosofia matriarcale? O che [III] i primi che anticiparono il cristianesimo siano stati proprio Platone e Socrate? A chi interessa formarsi una idea generale solo su quest’ultimo punto rimando a:
https://arenaphilosophika.it/platone-vaticino-cristo/
Per tutti e tre gli interrogativi, rimando a Di dominio pubico (Ensemble Edizioni).
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