CORAZZATE SPAZIALI E SOCIALISTI UTOPISTI: IL MITO DELL’ARCADIA

Arcadia è un termine decisamente evocativo. Ai più non potrà che richiamare alla mente, oltre all’omonima regione peloponnesiaca, la celeberrima utopia bucolica cantata dai poeti antichi, Virgilio su tutti, e assurta a simbolo dell’armoniosa pace tra uomo e natura.
Vi è però un’altra non meno suggestiva occorrenza di questo nome, questa volta in riferimento alla cultura pop e, in particolare, al panorama fumettistico giapponese della fine degli anni 70. Arcadia è infatti chiamata la nave spaziale del pirata Capitan Harlock, corsaro galattico nato nel 1977 grazie all’estro creativo di Leiji Matsumoto, e che si impose all’attenzione del pubblico nostrano soprattutto grazie alla pregevole serie animata di 26 episodi trasmessi in Italia nel 1979.
A tutta prima si potrebbe avere l’impressione di trovarsi di fronte a un banale caso di omonimia. In fin dei conti, cosa potrebbero mai aver da spartirsi la quieta e tranquilla oasi virgiliana e la corazzata da guerra del pirata nipponico? In realtà ben più di quanto non si sospetterebbe, probabilmente per volontà stessa di Matsumoto medesimo, che cerca scientemente di presentare la nave di Harlock come una piccola utopia futuristica sui generis. Certo non si tratterà, vista anche l’ambientazione fantascientifica e la natura dei protagonisti, di un’utopia immediatamente sovrapponibile a quella degli antichi cantori, ma l’obiettivo di offrire al proprio pubblico un modello differente di comunità ideale viene da Matsumoto pienamente centrato. Per capire cosa intendiamo varrà la pena soffermarsi in maniera più attenta sull’interna costituzione dell’Arcadia harlockiana.
La ciurma spaziale vede tra le sua fila una quarantina di uomini (tutti volontariamente unitisi sotto la bandiera di Harlock) tra marinai, personale medico, tecnici e ingegneri, addetti alle cucine e ufficiali di plancia. Spiccano, tra questi, alcuni dei più interessanti comprimari del protagonista, tra cui il vicecomandante Yattaran.
Personaggio dalle fattezze tozze e caricaturali, il vicecomandante è il più brillante ingegnere su cui la nave possa contare. Ed è proprio analizzando alcuni suoi bislacchi comportamenti che si può cominciare a sondare l’atmosfera particolarissima dell’Arcadia. In una delle prime tavole, che qui riproponiamo parzialmente, avviene un curioso scambio di battute tra l’ingegnere capo e il capitano.
Quando all’orizzonte si profila la minaccia di una corazzata nemica, Harlock chiede che venga prontamente richiamato Yattaran in qualità di vicecomandante. Alle sollecitazioni che gli vengono rivolte, quest’ultimo, impegnato nella costruzione di un piccolo modellino giocattolo, obietta di essere occupato. E se ciò può sembrare oltremodo bizzarro, ancor di più lo è la risposta laconica di Harlock di fronte al diniego del suo ufficiale: “pazienza”.
Scene di questo tipo non sono affatto infrequenti all’interno della saga fumettistica del pirata spaziale (composta in originale da soli 5 tankobon e priva, per manifesta volontà dell’autore, di una conclusione); non di rado le tavole presentano i membri della ciurma alle prese coi loro passatempi, o magari intenti a oziare distesi lungo i ponti dell’enorme Arcadia. Salvo poi, in caso di pericolo imminente, agire prontamente e di concerto raggiungendo le rispettive postazioni per innescare le stupefacenti difese del veliero d’acciaio.
Ciò che emerge da queste osservazioni è un tipo di governo, quello della piccola “comunità Arcadia”, che adotta uno stile di comando non basato sull’autorità e sul rango gerarchico, ma che anzi si propone di lasciare al singolo il compito di mettere ordine tra le proprie priorità. I marinai di Harlock sanno perfettamente quando e come agire per scongiurare una catastrofe coordinando a un tempo le proprie azioni e le loro singole volontà (come sopra accennato, ogni membro appartiene alla ciurma per propria scelta e, conseguentemente, è sempre in base a un saldo principio di autodeterminazione che gli uomini decidono quanto impegno profondere per una più salutare economia dell’Arcadia); ma spesso anche il tempo da dedicare a sé stessi non viene accantonato in base a uno stereotipato principio di cieca obbedienza, ed anzi si assiste spesso a scambi di battute come quello che vede coinvolti Yattaran e il suo capitano, il quale accetta senza battere ciglio un rifiuto che, in ogni altro contesto, verrebbe certamente tacciato di indisciplina e severamente castigato.
Consapevole o meno che ne sia, Matsumoto ha restituito ai propri lettori un’immagine che, opportunamente modulata, mette in scena un’utopia sociale non troppo differente da quelle tanto decantate da alcuni celebri socialisti occidentali del XIX secolo.
Costituita da un nucleo limitato di individui che sanno autoregolare le proprie azioni, priva di un vero e proprio comando centralizzato e in grado di mantenere da sé il giusto equilibrio tra vita e lavoro, la corazzata di Harlock si presenta come una piccola nowhere land che solca i mari siderali dello spazio profondo. La celebre definizione che Pierre-Joseph Proudhon diede della (secondo lui) miglior forma di governo, l’anarchia, sembra dunque attagliarsi egregiamente anche alle paratie e alle plance della nave del nostro pirata: l’Arcadia, insomma, non sarebbe altro che “l’ordine senza il potere”.
E se la miseria della filosofia di Proudhon e soci venne prontamente stigmatizzata da Marx e riportata bruscamente coi piedi per terra, risulta impossibile impedire al carismatico Capitan Harlock di affascinarci tuttora con la forza immaginifica della sua nave, simbolo programmatico di una libertà sociale che, per quanto lontana e difficile a realizzarsi, trova sempre il modo di prendere forma all’interno delle nostre coscienze. Magari nelle sembianze di pigri ma solerti marinai e in quelle di bambineschi ingegneri modellisti.
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@ILLUS. & PHOTOS by JOHNNY PARADISE SWAGGER, 2020