DIALOGO CON SILVIA RITA IANNONE
L’arte ha la capacità di trarre. È la grande attrattrice che attrae e intrattiene; è l’esigenza insopprimibile che coglie l’artista, lo trascina, se ne impossessa: l’ispirazione. E l’artista è un creatore, un artigiano, che opera ad arte e che crea opere d’arte, siano esse materiche o immateriali, siano esse architetture e sculture, poesia e musica.
Questo diaologo nasce dal confronto di Simone Vaccaro con Silvia Rita Iannone, giovane artista che ha deciso di seguire quell’esigenza insopprimibile con le sue canzoni e i suoi testi.
Simone: Iniziamo… dall’inizio! Quali sono i generi musicali che maggiormente ti hanno influenzata?
Silvia Rita: Credo che i generi che influenzano maggiormente la mia concezione di musica siano il soul/blues, il cantautorato italiano per sua purezza e semplicità e, infine, il pop.
Infatti, se dovessi fare un podio di tre artisti che non riesco a smettere di ascoltare metterei al primo posto Nina Simone, perché è un’artista unica che ammiro tantissimo e che ascolterei in loop, al secondo posto il grande Lucio Battisti per le sue immense poesie e, al terzo posto, Levante, icona pop che stimo tantissimo per ciò che comunica.
Simone: È vero, la musica ha una grandissima forza comunicativa, una capacità unica di mediazione e trasmissione di messaggi; tu sei laureata in mediazione linguistica e interculturale e, in effetti, la musica la si considera un linguaggio: in quanto cantautrice, ti consideri una traduttrice che traghetta il senso profondo delle cose in una forma altra?
Silvia Rita: Sì, il processo di scrittura e composizione dei miei brani inediti è un processo lento, ampio e molto profondo ed è quindi paragonabile ad una sorta di traduzione, di trasposizione in musica di tutto quello che accumulo dentro di me per un certo periodo di tempo e che poi lascio andare. I miei testi sono molto personali, nascono proprio dalla parte più intima di me: è come se provassi pian piano a far parlare il mio cuore, riversando su carta flussi di coscienza e parole disordinate e tramutando, poi, tutto in musica.
Simone: Esigenza, quella della comunicazione, che sempre più si fa impellente, quasi un impegno esistenziale nelle società odierne, sempre più contratte in sé stesse. E allora, in questi tempi strani, nei quali le parole dette sono quasi sempre mediate da dispositivi tecnologici, quale valore assegnare alla parola scritta, elaborata e forse per questo, maggiormente sofferta?
Silvia Rita: La parola scritta ha un valore grandissimo; credo che racchiuda dentro di sé i processi di meditazione, riflessione ed elaborazione, fondamentali quando si vuole comunicare qualcosa di ben preciso. La parola scritta è pensata ed è frutto di un’evoluzione e prende forma anche a seguito di un’attenta analisi del suo aspetto estetico. Ad esempio, una parola viene scelta a danno di un’altra perché è esteticamente più bella o più brutta per un determinato contesto specifico. Per questo motivo, credo che, soprattutto oggi, la parola scritta abbia un valore immenso.
Simone: E alle parole messe in musica?
Silvia Rita: Il valore delle parole messe in musica è ancora più grande e sacro, direi. Le parole messe in musica riflettono l’anima dell’artista che ha scelto di usarle per raccontare o trasmettere qualsiasi storia, emozione o sensazione. L’artista, il cantautore che s’incurva sulla scrivania della sua stanza, prende un foglio bianco e si predispone alla scrittura di un pezzo ha un’infinità di parole tra cui scegliere per poter dire qualcosa, eppure, ne predilige solo alcune, quelle che gli suonano meglio, quelle che si adattano maggiormente al suo mondo, quelle che riescono a descrivere nella maniera più pura dei concetti autentici.
Simone: Notevole il concetto di scelta delle parole e la sua conseguente resa estetica, quasi come se rispecchiasse quel lento lavorio di elaborazione di una traduzione o la scelta del legno più acconcio per un determinato intaglio. A tal proposito, nel tuo ultimo singolo Lacùra la follia è una dea, spirito che spariglia ed energia positiva; da chi hai tratto ispirazione e cosa significa, oggi, essere “folli”?
Silvia Rita: Il mio ultimo singolo Lacùra ha cominciato a prender forma circa un anno fa: ero a Granada, in Erasmus, e durante una fiera del libro mi sono imbattuta in un libro di poesie di una giovane scrittrice messicana. Una di quelle poesie mi aveva lasciata senza parole, perché sembrava racchiudere perfettamente un tema, un’idea che custodivo inconsciamente dentro di me e che non avevo ancora avuto modo di sviluppare: la follia, analizzata attraverso un punto di vista non convenzionale: da una prosepttiva positiva. È questo il motivo per cui questo mio inedito inneggia alla follia e la vede come una dea, come energia, forza e impulso vitale. Un breve componimento scritto originariamente in lingua spagnola, quindi, mi ha dato un forte impulso creativo e mi ha portata a pensare alla follia (in spagnolo locura) come a una cura, come la cura, lacùra.
E probabilmente oggi essere folli significa proprio lasciarsi andare e vivere con pienezza il lento fluire degli avvenimenti.
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Simone: Quindi la “follia” sarebbe l’eccentricità da ogni presunto centro detentore della verità, la distanza da ogni parola «politicamente forte» (Ricoeur) che ricopre con il suo peso ogni spazio; in questo senso allora si identificherebbe come cura: come piccolo atto di resistenza all’omologazione. Difatti, sul tuo profilo Instagram hai scritto “provo a far parlare il cuore scrivendo canzoni“: cosa senti di comunicare al pubblico e a te stessa quando componi e quando canti?
Silvia Rita: Quando compongo e quando canto le mie canzoni credo (e spero) di trasmettere sincerità, perché, davvero, è come se aprissi uno spiraglio di luce e lasciassi entrare pian piano chiunque mi ascolti nel mio piccolo mondo interiore. Oltre alla sincerità, credo (e spero ancora una volta) che si percepisca la forte adorazione e il rispetto per la musica, che mi serve soprattutto a riprendere fiato, a respirare profondamente, a ricaricare le pile.
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Puoi ascoltare i suoi singoli Dove l’aria c’è; Non lo so dire; Son caduta anch’io e Lacùra
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