EPISTEME E POTERE TRA PLATONE E HEGEL (Parte I)

Introduzione
L’intento di questo lavoro è quello di considerare la riflessione politica di Platone e di Hegel, con un particolare riferimento al tema del rapporto tra sapere e potere. Si prenderanno in considerazione la Repubblica e Le Leggi di Platone da un lato e le Lezioni sulla storia della filosofia e i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel dall’altro. Si tenteranno di mostrare i tratti comuni e le differenze che intercorrono tra le posizioni dei due autori in riferimento al tema in questione.
Tentiamo ora di evidenziare i punti dirimenti intorno a cui si articolerà questo lavoro. Andrà dapprima preso in considerazione l’inscindibile nesso tra la riflessione politica e quella metafisica. Sia in Platone che in Hegel, infatti, seppur con gradazioni differenti, si può parlare di filosofia sistematica; nei sistemi prospettati dai due filosofi, l’impianto metafisico ha delle implicazioni stringenti sul piano politico e sul piano morale. Inoltre, si tratterà appunto di comprendere in che modo la conoscenza della struttura metafisica su cui ruota anche l’organizzazione politica della πόλις e dello Stato abbia un ruolo determinante nel caratterizzare la figura del governante – o, più in generale, il profilo di chi agisce conformemente al principio su cui si regge l’ordine politico. Infine, si tratterà di analizzare le modalità con cui i due autori descrivono i ‘governati’, ossia coloro che, non soddisfacendo i requisiti richiesti per poter governare, si ritrovano a soggiacere alla struttura normativa dell’organizzazione politica in cui vivono.
In primo luogo, sarà presa in esame la posizione platonica. In una seconda fase, sarà opportuno analizzare le modalità di ricezione del pensiero politico platonico da parte di Hegel, per poi considerare, in ultimo, più da vicino le posizioni del filosofo tedesco, in merito al tema in questione.
Επιστήμη e potere in Platone
All’interno dell’edificio del pensiero platonico, la riflessione politica ricopre indubbiamente un ruolo centrale. Senza spingerci ad affermare che l’intera filosofia platonica si articola in vista dell’elaborazione di una dottrina del buon governo della πόλις, è tuttavia pacifico ritenere che vi sia una sostanziale continuità tra i vari ambiti della riflessione platonica: campo metafisico – cosmologia, dottrina delle idee, ruolo dell’idea del bene –, gnoseologico – distinzione tra επιστήμη e δόξα, dialettica come scienza propria del filosofo – e politico – filosofi-governanti, ordinamento razionale del corpo sociale, valore delle leggi (si fa qui riferimento all’omonimo dialogo, l’ultimo di Platone).
Anzitutto, la dottrina delle idee. Gli archetipi, le cause formali delle cose del mondo, sono tra loro in relazione, come mostrato nel Sofista[1]. In virtù dei generi sommi, le idee si possono dire interconnesse, ‘in movimento’, seppur questo movimento sia totalmente differente rispetto a quello da cui è affetto l’ambito del sensibile. I rapporti intraeidetici sono però, anzitutto, rapporti gerarchici. Al vertice della struttura dell’intelligibile vi è l’idea del bene. Essa ha un ruolo di primo piano, in quanto garantisce la stessa armonia della totalità delle idee. Il bene, in Platone, ha come principale caratteristica quella di infondere ordine e ‘bontà’ a tutto il resto dell’intelligibile – e, in forma mediata, al sensibile. Il filosofo ha come compito principale quello di conoscere, per mezzo della dialettica, la mappatura della totalità ideale, al cui vertice sta, appunto, l’idea del bene.
Conoscendo l’idea del bene e i suoi effetti sulle altre cause archetipiche, il filosofo conosce anche le altre virtù. In particolare, quella centrale per il buon governo della πόλις: la giustizia. Stante questa conoscenza e stante l’intrinseca onnipervasività dell’idea del bene – che riflette il suo effetto su tutto l’intelligibile –, ne consegue che il filosofo sa come imitare l’armonia e la bontà dell’ordine intelligibile anche nel sensibile. La conoscenza del filosofo, avvicinandosi e quasi coincidendo con quella propria del divino, è a pieno titolo scientifica, epi-stemica, e si distingue radicalmente dall’opinione – vera o falsa che sia – propria di chi non ha un contatto diretto con la realtà iperuranica. In qualche modo, dal momento che le idee sono il modello delle cose, si tratta di stabilire o di rievocare nel modellato lo stesso ordine che connota il modello. Questo è il compito del miglior governante, che è filosofo. Ecco la connessione, tratteggiata a grandi linee, tra idea del bene, l’ordine intelligibile, la realtà sensibile e il compito del politico.
L’arte del buon governo, stante quanto sopra affermato, consiste essenzialmente nell’imitare un ordine superiore per riproporlo nel sensibile. Il politico è tenuto ad occuparsi della città, in un certo senso, per un duplice ordine di ragioni: anzitutto, egli si sente riconoscente nei confronti della propria città e sa pertanto di dover contribuire al bene della πόλις[2]; inoltre, conoscendo il bene e la sua onnipervasività, non può che tentare di riprodurre ciò che ha conosciuto (è chiaro che le due motivazioni sono connesse: si sa di dover contribuire all’ordine della città perché si conosce l’ordine intelligibile). Certo è che la ‘materia’ su cui ci si trova ad operare, in ambito politico, è recalcitrante e respingente. Anzitutto, si deve avere a che fare con non-filosofi, quindi con persone che non riconoscono l’ordine di idee-valore che regolano il conoscere e l’agire del governante ideale. La massa, dice Platone, non può essere filosofa. All’interno della massa, è opinione comune che il filosofo non solo sia inutile, ma persino dannoso. Come si potrebbero dunque persuadere questi individui, con argomentazioni razionali, della necessità che sia il filosofo a governare? Così come la χώρα, il principio spazio-materiale, si configurava come totalmente altro dalle forme intelligibili che il Demiurgo era tenuto a imprimervi (materia recalcitrante), così la folla sembra del tutto incompatibile alla ricezione di qualsiasi ragione filosofica[3]. Eppure, pare che sia proprio dovere del filosofo quello di dar forma al corpo sociale, cosicché la πόλις sia in-formata dai valori intelligibili e razionali, allo stesso modo in cui il cosmo è immagine della totalità delle idee.
La descrizione platonica della massa è senz’altro illuminante al fine di comprendere il passaggio sopra evidenziato, nonché la continuazione della nostra disamina. Nella critica mossa da Platone ai sofisti, il filosofo li descrive come
Chi, addetto all’allevamento di un grande e vigoroso animale, ne apprendesse gli impulsi e i desideri, il modo in cui bisogna avvicinarlo e toccarlo, i momenti e le cause di ferocia e di mitezza, i suoni che è solito emettere nelle varie circostanze, e ancora quali suoni da altri pronunciati lo calmino e lo irritino; e una volta appreso tutto questo per l’esperienza di una lunga consuetudine, lo chiamasse sapere e, facendone una tecnica sistematica, lo trasformasse in materia di insegnamento[4].
Il domatore è il sofista, ma la bestia è la massa. La massa è stimolata dal sofista, che elabora una pseudo-scienza in merito alle modalità più efficaci attraverso cui possa controllarne l’agire. Egli fa di tale scienza oggetto di insegnamento e di lucro. La massa va conosciuta e va domata, ma a questo fine essa va assecondata nei suoi più infimi e irrazionali impulsi. L’obiettivo polemico di Platone, pertanto, non è soltanto il sofista. Questi è di certo un falso sapiente che ignora l’esistenza del vero e del razionale (il piano dell’επιστήμη)[5]. Per questo, non può che ambire a porsi come guida di quegli individui talmente insensibili e sordi alle ragioni del filosofo da essere totalmente corruttibili dai sofisti. L’individuo, nella massa, «si lascerà trasportare dove porta la corrente […], dirà […] che sono belle e brutte le stesse cose che pensa la folla»[6].
Stante la natura della massa, emerge tuttavia la necessità che essa venga educata dal filosofo. L’elevazione della massa è però impossibile, in quanto tale, dal momento che essa non darà mai ascolto alla ragione. È invece possibile agire su ogni singolo individuo, sin dalla giovane età, attraverso l’educazione. L’educazione filosofica è tale da portare ogni natura, anche quelle non filosofiche, ad agire correttamente e secondo ragione. Essa è un antidoto contro l’annullamento dell’individuo nella massa e la manipolazione da parte del sofista. È chiaro che soltanto le nature filosofiche, ricevendo un’adeguata educazione filosofica, potranno essere filosofi. Platone stesso riconosce che i filosofi saranno di numero esiguo. Ciò tuttavia non significa che chi non è filosofo – chi, quindi, non possa dirsi partecipe dell’επιστήμη – non sia comunque in qualche modo compatibile e funzionale all’ordine della πόλις perfetta. Non tutti possono essere filosofi, ma chi non lo è può comunque sviluppare una conoscenza corretta, seppur di carattere doxastico.
L’opinione corretta è la dimensione gnoseologica a cui Platone approda nel Sofista, dialogo della vecchiaia. La distinzione tra falso e vero non vede contrapposte, tout-court, scienza e opinione, ma anche vera e falsa opinione: anche al livello della conoscenza sensibile vi può essere una modalità corretta e una sbagliata di conoscere. Tale differenza è determinata dall’intervento della filosofia nella vita degli individui, attraverso la formazione. Ne viene che l’obiettivo polemico di Platone, oltre al sofista, non è chiunque non sia filosofo, bensì chi, privo di educazione, non sappia discernere tra vero e falso, tra opinione verosimile e opinione fallace.
Cionondimeno, rimane innegabile che Platone consideri strutturalmente impossibile che un governo giusto sia retto da non-filosofi[7]. La razionalità filosofica, per le motivazioni mostrate in apertura, ha la possibilità e il dovere di porsi a capo della πόλις. Un governo del popolo, inteso come massa informe, priva di conoscenza o influsso filosofico (abitante l’ambito gnoseologico dell’opinione fallace), non può che generare una forma di governo irrazionale e dannosa. Dallo stesso passo citato in precedenza[8] emerge come il comportamento della massa sia l’origine della demagogia, intesa come il predominio di un individuo che si im-pone sugli altri, per una più spiccata capacità di interpretare gli irrazionali impulsi di quel ‘grande e vigoroso animale’. È chiaro che la demagogia è il prodromo della tirannide. Per questo, l’atteggiamento di Platone non può che essere radicalmente e strutturalmente antidemocratico, essendo la democrazia, appunto, governo del popolo, inteso nella maniera indicata.
Concludendo per quanto concerne Platone, occorre ancora analizzare due aspetti. Anzitutto, sembra opportuno evidenziare che nel pensiero politico platonico sia riscontrabile un realismo di fondo, che sembrerebbe stonare con l’idea che generalmente si ha del Platone politico: utopista, che ha tentato di mettere in pratica, a Siracusa, la propria città ideale e che, avendo per tre volte fallito in quest’intento, si è dedicato alla contemplazione. In realtà, la consapevolezza che la massa non può essere filosofa, che occorre educarla e – se necessario – depurare il corpo civile[9], è più che presente nei testi del filosofo ateniese. Inoltre, è da segnalare il passaggio dallo scenario prospettato nella Repubblica a quello intorno a cui si articola l’ultimo dialogo platonico, Le Leggi. Qui, ai filosofi si sostituisce appunto un corpus legislativo. Si può ritenere che questo mutamento di posizione sia in parte dovuto ad una ancor maggiore consapevolezza della problematicità della natura umana. La pessimistica antropologia a partire da cui Platone lavora può essere applicata, in ultima istanza, anche ai filosofi, intesi anzitutto come uomini che si occupano di filosofia. Per questo, un elemento fisso e stabile come un insieme di leggi può garantire meglio l’ordine razionale e filosofico della πόλις, rispetto ad un governo dei filosofi – difficilmente istituibile, peraltro. Ci si pronuncerà poi nelle conclusioni riguardo alla possibilità di definire il pensiero politico platonico come utopia o ideologia, avendo come riferimento la disamina di alcuni aspetti del pensiero politico hegeliano.
Hegel legge Platone
All’interno delle Lezioni sulla storia della filosofia, Hegel dedica ampio spazio alla filosofia platonica. Pur non comparendo una sezione esplicitamente dedicata alla trattazione del pensiero politico di Platone, basta leggere con attenzione queste pagine hegeliane per comprendere che la ragione di ciò è la sostanziale connessione e continuità che il filosofo tedesco avverte tra riflessione metafisica, etica e politica, all’interno della filosofia del pensatore ateniese.
In generale emerge, da quanto Hegel scrive, che la visione di Platone contrasta con quella del senso comune. Facendo anche riferimento a quanto evidenziato nel precedente paragrafo, non risulta difficile comprendere le motivazioni di questa – almeno apparente – incompatibilità: il filosofo si fa portatore di un sapere che, di necessità, stride con il senso comune. Non a caso, come dice lo stesso Platone, la massa sarebbe naturalmente portata non solo a non dare ascolto al filosofo, ma persino ad aggredirlo fisicamente[10]. Al contempo, come già evidenziato, è la natura stessa della filosofia platonica ad implicarne la spendibilità pratica. Il bene è diffusivo, l’influsso dell’intelligibile è già da sempre presente nel sensibile. Si tratta, per il filosofo-politico, di in-formare la città secondo il modello dei valori iperuranici. «Di solito la filosofia resta chiusa nel pensiero dell’individuo, mentre qui s’eleva alla costituzione, al governo, alla realtà»[11]. Hegel sostiene, in fin dei conti, che la filosofia platonica debba, per dovere e per necessità, tradursi in un fine collettivo[12].
Altro elemento che Hegel reputa cruciale è la potenziale perfezione del modello di città platonico. Tale perfezione si dà anche in virtù della specularità tra struttura dell’anima – microcosmo – e articolazione della πόλις – macrocosmo. Hegel ritiene che tale coincidenza – ancorché non totalmente stabile dal punto di vista teorico, relativamente all’oscillazione della posizione di Platone sulla dottrina dell’anima – sia l’evidenza manifesta della perfezione dell’ordine razionale dello Stato, prospettato dal pensiero platonico.
In siffatta città, stante la somiglianza con la strutturazione psichica, vigeranno i medesimi rapporti di forza che regolano le parti dell’anima. Così come la componente razionale è necessariamente alla guida di quella timotica e di quella concupiscibile, così i filosofi – portatori della razionalità iperuranica – dovranno necessariamente esercitare un determinato potere sulle altre fasce della società, i guerrieri e i contadini-artigiani. Tale potere è di diversa natura, a seconda che sia esercitato su una o sull’altra classe, ma il denominatore comune è l’esigenza di attualizzare la tendenza – connaturata all’Idea – di espandere la propria causalità formale e finale sulle regioni dell’essere che le sono lontane.
Ecco per quale motivo la razionalità intelligibile, rappresentata dai filosofi, deve esplicarsi – attraverso il governo – nella città. Tale esplicazione, la realizzazione dell’Idea, è la libertà. Hegel pone infatti l’accento sul fatto che, nella filosofia politica platonica, si può parlare di libertà solo in termini di libera esplicazione della razionalità iperuranica, e giammai in riferimento alle singole istanze individuali. Il tentativo di mostrare la necessaria connessione tra dimensione particolare e universale – stanti alcune fondamentali distinzioni all’interno del termine “particolare” – è un passaggio proprio del pensiero politico hegeliano, che si discosta in questo da quello platonico. A Platone manca, infatti, l’orizzonte di pensiero aperto dalla filosofia del Cristianesimo, in rapporto all’importanza e alla sacralità dell’individuo. Si tratta del principio cristiano della libertà oggettiva, che mostra appunto il valore assoluto dell’individuo[13].
Verso la fine delle pagine dedicate al pensiero politico platonico, Hegel si esprime sull’opportunità di definire la Καλλίπολις come un progetto utopico. In quanto avente una natura ideale, il progetto della città perfetta è oltremodo reale. Sarebbe pleonastico tornare sul celebre adagio hegeliano, presente nei Lineamenti di filosofia del diritto, riguardante l’interconnessione tra la sfera razionale e quella reale. Basti dire, per comprendere questo aspetto, che è proprio dall’idea che Καλλίπολις trae la propria realtà. Pertanto, essa è tutt’altro che un’irrealizzabile utopia: si tratta piuttosto della realizzazione di quella piena coincidenza tra razionalità e realtà che Hegel ricerca e mostra, tanto sul piano metafisico quanto in quello politico[14]. Tuttavia, la concretezza di tale coincidenza ricade al di fuori dell’orizzonte concettuale platonico, per le motivazioni in parte già mostrate.
Note
[1] Il Sofista è un dialogo della vecchiaia, probabilmente coevo al Politico e a Le Leggi. Nel presente lavoro, si interpreteranno alcuni passi della Repubblica alla luce dell’ontologia trattata e tematizzata nel Sofista. Tale operazione non vuole presupporre che ci sia una effettiva vicinanza cronologico-tematica tra i due dialoghi, ma soltanto mostrare che determinate questioni teoriche della Repubblica assumono un significato più chiaro e definito se lette alla luce dello sfondo ontologico che Platone delinea nel Sofista – ancorché quest’ultima opera sia cronologicamente contigua ai dialoghi della “seconda fase” del pensiero politico platonico. In tali dialoghi, da un lato Platone rivaluta il ruolo dei filosofi al potere, facendo loro assumere il ruolo – ridimensionato – di interpreti delle leggi; dall’altro, egli rivaluta parzialmente la democrazia, tant’è che essa – nel Politico – è considerata una delle forme politiche legittime.
[2] In un certo senso, il filosofo è in debito con la propria città. Questo emerge chiaramente da alcune risposte che Socrate dà a Glaucone e Adimanto.
[3] Cfr. Repubblica, 487 b-c. Adimanto dice a Socrate: «A questi tuoi argomenti nessuno sarebbe capace di obiettare. Tuttavia, quelli che ogni volta ascoltano ciò che adesso stai dicendo, provano una sensazione di questo genere: essi pensano che, a causa della loro inesperienza nell’interrogare e nel rispondere, la discussione li fa deviare di un poco a ogni tua domanda, sicché quando è giunta alla fine e le piccole deviazioni si sono accumulate, grande appare l’errore e contraddittorio alle premesse iniziali […]. Pur non avendo a parole di che contrapporre a ciascuna delle tue domande, tuttavia è un dato di fatto vedere che quanti si sono dedicati alla filosofia […] per la maggior parte sono diventati uomini assai eccentrici, per non dire del tutto malvagi, mentre gli altri, che appaiono i più valenti, ugualmente questo danno hanno subìto dal modo di vita che tu lodi, di diventare inutili alle città». Trad. it. di Mario Vegetti.
[4] Repubblica, 493 a-b.
[5] Ignora tale ambito poiché, se lo conoscesse, non potrebbe che agire conformemente ad esso (intellettualismo etico).
[6] Repubblica, 492 b-c.
[7] O comunque, da individui che ignorino la filosofia. Platone aprirà, infatti, alla possibilità di un governo di tiranni “illuminati”, che siano sensibili al consiglio dei filosofi.
[8] Cfr. nota 4.
[9] Cfr. ivi, 501 a. «”Prendendo” io dissi “città e costumi degli uomini quasi fossero una tavola, prima di tutto la ripuliranno”». Traduzione italiana di Mario Vegetti.
[10] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bortoli, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 247. Hegel riporta il passo dalla Repubblica, senza indicarne il riferimento.
[11] Ibidem.
[12] Cfr. ivi, p. 240.
[13] Cfr. ivi, p. 284.
[14] Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Milano, Bompiani, 2017, pp. 59-60. Queste pagine della Vorrede ai Lineamenti di filosofia del diritto esprimono, con una maggiore profondità teoretica, quanto Hegel esprime già nelle Lezioni.
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