FATUM FACTUM?

L’articolo di seguito riporta la nuova pronta risposta del Magister Damnatus, stavolta a eddymanciox, il quale intimava di non tentare di negare il fato (qui).
A EDOARDO MANCINI
Caro eddymanciox,
comincio dal fondo della sua requisitoria. Intanto, grazie per gli auguri di buon compleanno, ma, se l’anno prossimo sarò ancora vivo, preferirei che mi facesse le condoglianze, non gli auguri; sa, in fatto di genetliaci io la penso come il mio amico Giacomo:
…in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
Scherzi a parte, lei, parlando del «discorso desistenzialista» dice che «non è detestabile, richiedendo ai suoi uditori la sola astensione dalla procreazione»; E dice poco? Con la fòia che c’è in giro! Ma cosa vuol dire? Che il desistenzialismo non è detestabile solo perché, in fondo, costa poco? Costa poco non procreare? L’apprezzabilità e il valore di un pensiero (filosofico) può essere determinata dalla fatica che costano le azioni che esso propone? In quest’ottica, potremmo dire che il cristianismo è apprezzabile perché chiede il sacrificio notevole di rinnegare se stessi, prendere la propria croce e seguire un crocifisso. Il desistenzialismo propone di non procreare, ma per certe persone (specie se sono femmine) il non dare la vita è assai più difficile che darsi (non vorrei dire: dare) la morte – e lei lo sa quanto e come me.
E tuttavia il nucleo del nostro discorso è in quel fātum, che non si sa bene se «sia» necessariamente (per Fato destinato) oppure «accada» accidentalmente (come fatalità della Sorte): questo nucleo fondante ma problematico – casualità fatalistica o causalità fatale? – è lo stesso che problematizza il pensiero desistenziale; solo da questa problematizzazione si potrà cercare di capire se la Desistenza solleva un vero problema oppure solo un falso problema.
Lei, Eddy (lasciamo stare il manciox) s’è intestardito su quel nomina sunt consequentia rerum che io ho citato all’inizio della nostra disputa; lei l’ha preso, e ne ha concluso: Canty (controrelatore di Eddy) fa di un caso personale una questione di stato. «Va be’ – penserà forse Eddy –, può darsi che Canty sia un po’ depresso, magari non gli piace vivere… poverino! Avrà tutte le sue ragioni, io le rispetto, per carità, ma lui non si rende conto che, proponendo la soluzione desistenziale a tutti, in qualche modo “globalizza” uno stato d’animo onticamente rispettabile ma ontologicamente improponibile». Canty non è l’ombelico del mondo, in definitiva. Al che Canty potrebbe dire: «Eddy pensa che io abbia fatto la pipì fuori del vasino, mi spiace». In realtà, qui è in gioco il cosmopolitismo del pensiero desistenziale: la domanda verte sul fatto se esso possa essere globalizzato al punto di poter andare oltre i pareri personali e soggettivi. Se l’ontalgia fosse un caso clinico di Canty (suona bene, no, “il caso clinico di Canty”?) con qualche antidepressivo il problema sarebbe risolto senza scomodare la filosofia o il desistenzialismo, ed amen. Ma, l’ontalgia, è un caso clinico di Canty? È solo un problema suo? Ci chiediamo cioè «se è appunto l’ambito ontico-esistenziale quello di cui vuole pre-occuparsi il desistenzialismo», come dice lei, Eddy.
In questi giorni mi sto ristudiando Essere e Tempo di Martin Heidegger, sollecitato da un’interpellanza “parlamentare” dell’Arena Philosophika sollevata da Davide Sisto e intitolata: «si può dire morte» (senza punto interrogativo); siccome la questione mi tocca, come Profeta della Desistenza, sono andato a rivedermi le pagine heideggeriane che trattano dell’essere-per-la-morte come essere-per-la-fine per scrivere alcuni articoli al riguardo. In quelle pagine credo di aver trovato uno spunto che potrebbe servirle, caro Eddy, per comprendere meglio il cosmopolitismo del mio ontico “provincialismo ontalgico”; in parole povere, Heidegger esorta a non banalizzare l’«angoscia» – die Angst –, banalizzazione che si avrebbe riducendola alla patologia di una semplice presenza: «Attraverso la situazione emotiva tipica della quotidianità e mediante quell’atteggiamento di superiorià ‘ansiosamente’ [ängstlich] preoccupato anche se apparentemente privo di angoscia di fronte al ‘fatto’ certo della morte, la quotidianità tradisce una certezza ‘più alta’ di quella puramente empirica». Un conto è la morte come decesso di questa o quella persona. Un altro conto è la Morte come fine di tutti vissuta sulla propria pelle. Lei, Eddy, mi sembra banalizzare il «Male di Essere» (ontalgia o ontosalgia) rubricandolo frettolosamente come ‘caso patologico’ personale, così come si fa inautenticamente con la Morte quando, e contrario, la si derubrica come ‘caso di morte’ degno al massimo di un necrologio, o di un’autopsia: un caso deplorevole, sì, che però non lascia affatto supporre una certezza più alta del fatto stesso di cronaca (nera).
Nel 1943, dopo la Prolusione Che cos’è metafisica? (1929) Heidegger redasse un Poscritto a ‘Che cos’è metafisica’? in cui, facendo i conti con le critiche mossegli, scrisse che la Prolusione del 1929 (Che cos’è metafisica?) «eleva un singolo stato d’animo, e per di più depresso, l’angoscia, a unico stato d’animo fondamentale. Ma poiché l’angoscia è lo stato psichico degli ‘ansiosi’ e dei vili, questo pensiero ripudia l’atteggiamento sereno del coraggio. Una ‘filosofia dell’angoscia’ paralizza la volontà d’azione».
Nel 1949 lo stesso Heidegger vergò una Introduzione a: ‘Che cos’è metafisica’? nella quale mise in guardia i lettori da quella che io poc’anzi chiamavo banalizzazione del male; parlando del rischio di un pensiero ontologico che rischia di obliare l’essere, sommerso com’è dalla totalità degli enti, Heidegger chiede: «Ma ne sarebbe capace un pensiero, fintanto che l’angoscia che gli è così destinata altro non fosse per lui che uno stato d’animo depresso? Ma che cosa ha a che fare il destino d’essere di questa angoscia con la psicologia e la psicoanalisi?».
La domanda metafisica, ed anche la domanda sulla metafisica (che cos’è, la metafisica), richiedono un oltrepassamento capace di appurare «se è appunto l’ambito ontico-esistenziale quello di cui vuole pre-occuparsi il desistenzialismo», come dice lei, Eddy. Voglio ingrandire con la mia lente desistenziale quel «pre-» da lei prefissato per lanciarmi evidentemente un messaggio: vuol dirmi, credo, che la desistenza si preoccupa di esistenza solo e soltanto dacché l’esistenza già la occupa, giusto? E perdipiù la occupa individualmente, come caso sporadico di Ontalgia, non collettivamente. È così? E che quindi «Ontalgia è il nome che Cantino dà a tutto ciò che nella sua mente appare», parola di Eddy.
Una rondine non fa primavera, sembra dire Eddy: «…il desistenzialismo, allora eviti il discorso metafisico. Evitare il discorso metafisico significa conoscere come fatalità ciò che appare; addentrarsi nel discorso metafisico significa scommettere che la fatalità che appare accade o che piuttosto è». Evitare il discorso metafisico: conoscere come fatalità ciò che appare. «Fatalità» in Vocabolario Treccani:
fatalità s. f. [dal lat. tardo fatalĭtas –atis]. – 1. L’essere fatale: f. di un avvenimento; la f. dei grandi eventi storici. 2. Più spesso, fato avverso, destino contrario: è la f. che ci perseguita; per estens., soprattutto in frasi esclamative o incidentali, sfortuna, disdetta, contrattempo e sim.: è una f.!; per non so quale f.; con senso più concr., avvenimento funesto, di gravi conseguenze: il crollo del ponte è stato una tragica fatalità.
«Fatale» significa voluto dal «Fato» e «Fato» significa «detto», dal verbo (for), fāris, fātus sum, fāri, (1 dep. tr. e intr.), verbo giustamente ‘deponente’, cioè avente desinenze passive (o medie) ma significato attivo (o medio): la passività insita nel Fato consiste (per chi ci crede) nel fatto che ogni «Fatto» che accade è fatto dal «Fato» (basta aggiungere una «t» e il Fato è… Fatto, basta togliere una «t» e il Fatto è… Fato; come la desistenza: basta non farsi una fica e la desistenza è fatta); sostantivato in fātum, i, (n.) il Fato conserva la perentorietà incontestabile della predizione vaticinante: è un Fatto (accaduto) ciò che fu Detto (accadere).
Factum quod est:
Fatum quod fatus est.
Un Fatto che è (accaduto) è il Fato che l’ha (pre)detto. Un fatto che è (accaduto), è ciò che il fato aveva detto (che sarebbe accaduto). Da queste radici più o meno ontologiche ne derivano altre più o meno ontiche:
- fas: ciò che essendo stato detto è lecito che accada.
- nefas: ciò che non essendo stato detto non è lecito che accada.
«Nefasto» è letteralmente ciò che non doveva accadere, e quindi è «infausto», funesto al punto che infaustum, i (n.) è il “sinistro” per antonomasia. Avrà ormai notato, Eddy, che io sento sempre la necessità di raschiare il fondo del barile etimologico delle parole, anche al costo di riandare nostalgicamente al vecchio buon latino passato, che ha tanto da insegnarci, comunque.
Lei mi invita, adùnque, ad evitare il discorso metafisico, cioè mi esorta a «conoscere come fatalità ciò che appare». Vede, Eddy, io mi rifiuto di credere che un accadimento sia una fatalità irrevocabile ed ineludibile, e mi rifiuto senza stare tanto a disquisire se questa fatalità «è» dacché si poteva dire che sarebbe accaduta, oppure «è» perché di essa si può dire che sta accadendo. Senno di poi… La “metafisica” del pensiero desistenziale (sempre che di Metafisica si possa parlare) non si fonda su un aldilà estraneo all’umano al punto di essergli trascendente; sulla trascendenza ho scritto, e lei lo sa bene, degli articoli che possano aggiornarne lo status. Lo stesso Heidegger, quando nel 1929 pronunciò quel famoso discorso inaugurale con il quale successe ad Husserl all’Università di Friburgo, si propose proprio di far capire agli uditori che cos’è la metafisica; lui ne aggiornò il concetto “riducendo” l’Essere a una trascendenza per così dire trascendentale, alla Kant, cioè come quella condizione senza la quale non potremmo nemmeno né pensare né dire l’Esserci; condizione non certo kantianamente gnoseologica, dacché l’Essere in sé non è conoscibile esattamente come non lo è un concetto puro dell’intelletto, ma almeno ontologica, questo sì; nel senso che l’Esserci, poi che (non: poiché) si mostra, dimostra l’Essere stesso che è.
Eddy fa le pulci a Canty: «Il filosofare stesso è un aspetto dell’Ontalgia». Ma Canty prende ancora la sua lente d’ingrandimento e cerca di vedere bene in faccia questa pulce: il filosofare stesso è un aspetto dell’Ontalgia. La pulce mi dice che Dexistens non esisterebbe senza Existens – parla con un fil di voce, questa pulce, perché è minuscola, ma il mio microscòpio la sniderà: il microscopio desistenziale è fatto proprio per ingrandire i microbi che s’annidano e si celano come minuscole pulci dietro ai ‘massimi sistemi’, tentando di farli cadere (o accadere?). Oracolo del Profeta: Dexistens farà le pulci al massimo sistema esistenziale della filosofia: l’«ontomania». Phĭlŏsŏphor, ergo sum. Curioso, in latino il verbo «filosofare» è deponente nella stessa “fatale” maniera del suo corrispettivo for: phĭlŏsŏphor, āris, ātus sum, āri, (1 dep. intr.).
Eddy vuol dirmi che la mela non cade mai lontano dall’albero: l’ontologia è filosoficamente un aspetto stesso della fatologia; non c’è dubbio:
Philosophāri fāri:
Echo fātur (ecco fatto?)
Philosophor, ergo for. In questo senso Eddy non ha torto: si può disdire solo un dire; può essere disdetto solo ciò che è già stato detto. Però, Eddy, mi dica: «Può essere impensato solo ciò che è già stato pensato?». Impensato è ciò a cui non si è pensato, oppure ciò che non è pensabile, e che perciò giunge inaspettato ed imprevisto, come un Fatto del Fato? E, se il Fato è per l’appunto il «Detto-Fatto» a priori, chi potrà mai disdire il suo essere «Fatto-Detto» a posteriori? Eddy, mi lasci giocare un po’ con le parole! Mi lasci fare letteratura mentre cerco di fare filosofia! Anche Platone s’è messo a fare dei dialoghi. E poi, se il Poeta si diverte, perché non può divertirsi il Filosofo?
Come può la mela della desistenza cadere lontano dall’albero dell’esistenza? Allusione biblica fin troppo evidente. Ma guardi, caro Eddy, che quell’albero siamo tutti noi: i mali sono tanti, come le mele, ma cadono dalla stessa malapianta. Chi l’ha piantata, quella pianta? Se il primo a piantarla è o non è stato Dio, questo ha poca importanza, perché noi possiamo sradicarla una volta per tutte, affinché da essa non cada più niente, non ac-cada più nulla: siamo noi, che continuando a piantarla non la piantiamo di piantarla, la malapianta della vita. Quanto di-verte, questo gioco di parole! Che goduria, questa assonanza! Mi sembra proprio che la Verità sia prossima, che l’Esserci non sia caduto lontano dall’Essere.
Progetto Dexistens nel Network di Arena Philosophika, per vedere la home di Dexistens clicca qui.
@ILLUS. by JOHNNY PARADISE SWAGGER feat. PATRICIA MCBEAL, 2020
Un ossesso chiama l’altro
LINK>>>
https://arenaphilosophika.it/mantra-desistenziale-e-mantra-ontologico/