I GIAPPONESI SONO FUORI DI TESTA – EXTRACT

Estratto di Kenta Suzuki, I giapponesi sono fuori di testa. Segreti, costumi e follie di un meraviglioso popolo, Mondadori Electa, Milano 2023.
Cavalleria giappo
Tra le tante domande che mi arrivano sui miei profili social ce n’è una che ricorre molto di frequente e la cosa non mi stupisce: ma perché i giapponesi sono così educati? La risposta non è semplice, perché mi porterebbe a semplificare in poche righe i processi millenari che sono alla base della cultura del mio Paese, ma mi può senza dubbio venire in aiuto il Bushidō, letteralmente “Via del samurai”, il guerriero antico giapponese.
Questo codice cavalleresco è una vera e propria dottrina di vita per i samurai. Risale al VII secolo, ma è stato Nitobe Inazō a rendere popolare il termine bushidō nel suo libro, pubblicato nel 1899, che raccontava l’anima del Giappone.
Statista, agronomo e educatore di fama internazionale, Nitobe Inazō riteneva che “senza una comprensione del feudalesimo e del Bushidō, le idee morali dell’attuale Giappone restano un libro sigillato”. Sviluppatasi tra il XVII e il XVIII secolo anche grazie alle agli insegnamenti del monaco-guerriero Yamamoto Tsunetomo trasctitti dal suo allievo Tashiro Tsuramoto – pubblicati nel libro Hagakure –, questa dottrina si è diffusa grazie al sostegno del confucianesimo nel periodo Edo (1603-1867), trasformandosi in una vera e propria etica nazionale durante il rinnovamento Meiji.
Purtroppo, nel XX secolo, questa etica fu spesso stata associata al nazionalismo fanatico e all’imperialismo sfociato nelle malefatte perpetrate dal Giappone durante la Seconda guerra mondiale, ma a dispetto dei suoi fraintendimenti resta uno stile di vita profondamente etico che si può suddividere in sette principi morali.
- 義 gi (rettitudine), ovvero mettere la giustizia al primo posto come esseri umani. Scegliere di crescere per il bene del mondo e degli altri.
- 勇 yū (coraggio e perseveranza), che nasce da una mente calma e composta.
- 仁 jin (benevolenza / spirito di misericordia / generosità / compassione). È il requisito più alto di un sovrano e ciò che spingeva i samurai a mettere la propria forza al servizio dei più deboli.
- 礼 rei (rispetto e cortesia). È il fondamento della dignità umana. Alla base della cortesia c’è la benevolenza, che è espressione della considerazione per gli altri attraverso le proprie azioni. Il samurai non ha motivo di comportarsi con crudeltà e non deve dare prova della propria forza a tutti i costi. Verrà rispettato non solo per come combatte, ma anche per come si comporta nelle relazioni umane e per come gestisce i conflitti al di fuori della battaglia.
- 誠 makoto (onestà e sincerità), perché per un samurai parlare e agire deve essere la medesima cosa. Come dice il proverbio giapponese “Bushi ni nigon wa nai 武士に二言はない” “il samurai non mente mai”, le parole pronunciate dai guerrieri erano prese molto sul serio. Alcuni aneddoti raccontavano che “la bugia di un samurai veniva espiata con la sua vita”, perché la sua sincerità era considerata d’importanza primaria.
- 名誉 meiyo (onore). Significa conoscere la vergogna e raggiungere la fama attraverso una vita nobile.
- 忠義 chūgi (dovere e lealtà), perché il samurai è pronto a sacrificare la propria vita verso ciò di cui è responsabile, si tratti di azioni compiute o di persone a cui è legato.
Come potete capire, oggi è difficile attenersi a ognuna di queste prescrizioni, ma molti giappo le usano come fonte di ispirazione per cercare di migliorarsi. Non sempre consapevolmente, l’anima del bushidō ha permeato la cultura giapponese, soprattutto scolastica, diventando una sorta di manuale di buona condotta da cui trarre spunto per vivere al meglio all’interno di una società complessa.
Roba da yakuza
Sono sicuro che questa storia dei tatuaggi la sapete!
Se in Occidente, oggi come oggi, i tatuaggi non sono più legati a nessun immaginario negativo – un tempo erano appannaggio di marinai e galeotti –, in Giappone è ancora vivo lo scetticismo verso chi decide di fare del proprio corpo una tela d’artista. Le persone tatuate vengono in molti casi percepite come fuorilegge e spesso, se non accettano di coprirli – o non possono farlo –, rischiano di essere bandite da strutture pubbliche come palestre, piscine o sorgenti termali. Inoltre, chi ha tatuaggi visibili potrebbe fare moltissima fatica nella ricerca di un lavoro.
Il tatuaggio in Giappone ha radici antichissime, tanto che era molto popolare nel periodo Jōmon (dal 10.000 al 300 a.C.), e in quello Yayoi (dal 400-300 al 250-300 a.C.), ovvero in epoche che vanno dall’età della pietra a quella del ferro. Nelle Cronache dei Tre regni, il grande libro di storia cinese che include descrizioni del Giappone antico, si legge che tutti gli uomini del regno Yamataikoku, dove regnava la regina-sacerdotessa Himiko, avevano tatuaggi non solo sul corpo ma anche sul viso. Se si osservano con attenzione i dogū, le statuette di argilla del periodo ritrovate dagli archeologi, questa abitudine appare molto diffusa.
Nelle isole Amami, che sono parte del grande arcipelago delle Ryūkyū, all’estremità meridionale del Giappone, le donne erano solite farsi dipingere un irezumi – ovvero una forma di tatuaggio tradizionale praticata con una specie di grosso spunzone metallico – che di solito andava dalla punta delle dita fino al gomito. Questo tipo di tatuaggio aveva vari significati. Innanzitutto serviva come protezione dal male, ma era anche un rituale di passaggio all’età adulta e un simbolo riconosciuto di bellezza. Inoltre, mostrava a tutti che la donna era sposata ed era stata così benedetta al termine della cerimonia. L’irezumi, che poteva arrivare a coprire tutto il corpo, era una pratica diffusa in tutto il Giappone, tanto essere citata nel Kojiki (711-12) e nel Nihon shoki (720), i più antichi testi della letteratura giapponese per venuti a noi.
Durante il periodo Edo, tuttavia, i kyōkaku 侠客 – giustizieri armati che si guadagnavano da vi-
vere combattendo e giocando d’azzardo con la scusa di proteggere i più deboli dai malviventi e persino dalle autorità, veri e propri antenati dei mafiosi della Yakuza – cominciarono a tatuarsi sulle spalle sutra buddiste come il Namu Amida Butsu 南無阿弥陀仏, rendendo la pratica dell’irezumi malvista.
Anche le yūjo 遊女 – le prostitute – decisero di portare avanti questo antico rituale, contribuendo ancora una volta alla sua cattiva fama agli occhi dei benpensanti. Cominciarono a comparire resoconti scritti che raccontavano di prostitute e mafiosi che, per dichiararsi amore eterno, si tagliavano il mignolo o incidevano il nome dell’altro sui propri corpi. Tra le prostitute di Osaka, di Kyoto e, più in generale, della regione di Kamigata (l’attuale Kansai) diventò popolare un tipo di tatuaggio noto come kishōbori 起請彫り, a indicare la devozione verso l’amato, spesso seguito dal kanji inochi 命 (vita).
Durante quegli stessi anni cominciò a diffondersi anche la cosiddetta “punizione del tatuaggio” – irezumi kei in giapponese –, ovvero un marchio d’infamia che veniva impresso su piccoli criminali o prostitute cosicché la loro colpa fosse immediatamente chiara a tutti, anche dopo essere stati espulsi dalla regione di provenienza. Inutile aggiungere che questo ennesimo utilizzo distorto del tatuaggio contribuì ulteriormente alla sua demonizzazione. Pensate però che l’irezumi kei era una svolta progressista! Eh sì, perché fino a quel momento chi combinava qualcosa di male era punito con il taglio del naso o di un orecchio.
Segni come cerchi, ideogrammi o croci potevano essere incisi addirittura sulla fronte dei malcapitati trasgressori, che se la cavavano un po’ meglio quando gli stessi simboli o delle strisce orizzontali venivano marchiati sulle braccia appena sopra il gomito. La scelta della parte del corpo dipendeva dal luogo in cui si commetteva il crimine, e ogni città o prefettura aveva regole proprie. A Hiroshima tatuavano un cane, a Chikuzen (oggi parte della prefettura di Fukuoka) una linea per ogni crimine commesso, a Hizen (oggi divisa tra le prefetture di Saga e Nagasaki) una croce, che significava “cattivo”.
Il tatuaggio era realizzato con una tecnica manuale molto dolorosa e lenta, in tutto simile a quella degli antenati, chiamata tebori, che, ancora oggi, è la preferita dai cultori della materia, perché permette ombreggiature che non è possibile realizzare con gli strumenti moderni.
La cultura del tatuaggio raggiunse il suo apice nel tardo periodo Edo, quando cominciarono a comparire disegni che coprivano tutto il corpo molto simili a quelli che oggi vanno di gran moda in Occidente (soprattutto tra i calciatori!). Tuttavia, a volte un grande tatuaggio era solo un modo “furbo” per coprire un irezumi kei: lo shogunato provò a limitare il fenomeno senza mai riuscirci, perché i samurai erano tra i più appassionati cultori della pratica.
Nel 1872 la punizione del tatuaggio venne abolita, ma nell’immaginario giappo i disegni sul corpo rimanevano sempre legati al concetto di criminalità, e i malavitosi ne approfittarono usandoli per seminare il terrore tra la popolazione per bene. In seguito i tatuaggi furono banditi, e solo nel 1948, con l’occupazione statunitense del Giappone, la legge venne rimossa; tuttavia, questo non contribuì a eliminare il clima di sospetto attorno ai tatuati.
Il legame tra delinquenza e tatuaggi portò l’organizzazione criminale per eccellenza, la Yakuza, a considerare questa pratica un segno distintivo e d’onore – dal punto di vista criminale – e da sempre il metodo scelto per realizzarli fu proprio il tebori, perché implicava una dimostrazione di forza, autocontrollo e pazienza notevoli.
La brutta fama dei tatuaggi, malgrado la sua esplosione in Occidente, non è mai scomparsa, tanto che ancora nel 2017 si temeva che il governo avesse intenzione di reintrodurre il bando sui tatuaggi in modo subdolo, ovvero imponendo a chi li realizzava di possedere una licenza medica.
Oggi è possibile tatuarsi immagini tradizionali giapponesi in tantissimi negozi più o meno rinomati, ma è facile che, se sfoggiate un grosso tatuaggio, la gente vi guardi storto o che vi allontanino da spiagge, piscine e impianti termali. Non arrabbiatevi: accettarlo in silenzio e con pazienza – anche se vi sembra un punto di vista del tutto insensato – è un buon modo di dimostrare comprensione per gli usi e i costumi del Paese che vi sta ospitando.
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L’immagine in centro al testo è una simpatica rielaborazione dell’emakimono He-gassen, conservato presso la Biblioteca dell’Università di Waseda.
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