IL DON GIOVANNI MISOGINO: SCHOPENHAUER E IL GENTIL SESSO

Sul finire del mese di ottobre dell’anno 1818, al riparo da sguardi indiscreti e godendo l’uno della compagnia dell’altra, due giovani passeggiavano mano nella mano per le vie di Venezia. Lei, autoctona e dalle forme provocanti, mentre lui, tedesco con il viso sbarbato e i capelli leggermente increspati. Questa è l’immagine che, per il tramite delle testimonianze documentarie e della ritrattistica dell’epoca, possiamo figurarci della coppia in questione. Il giovane tedesco, sulla trentina, era giunto in Italia per un viaggio ricreativo dopo aver terminato la sua ultima fatica, un libro a cui aveva lavorato negli ultimi quattro anni della sua vita e che, purtroppo, non stava godendo in patria dei favori del grande pubblico. L’opera in questione si intitolava Il mondo come volontà e rappresentazione e il suo autore ne avrebbe ricavato stima e onorificenze solo nella tarda vecchiaia, una volta affievolitosi l’entusiasmo generale per l’idealismo di stampo hegeliano che dominò incontrastato il principio del secolo XIX. Ma per il momento Arthur Schopenhauer doveva accontentarsi (si fa per dire) di spendere tempo di qualità con la sua accompagnatrice, la bella veneziana Teresa Fuga.
Dei suoi svaghi veneziani Schopenhauer non fornisce troppi dettagli, se non un’annotazione in latino nel suo taccuino in cui ammette la necessità, dopo undici anni di studi letterari ininterrotti, di ritemprare il proprio animo con una peregrinatione. L’incontro con l’avvenente italiana costituì tuttavia uno dei momenti più graditi dell’itinerario se, dopo essersi spostato a Roma e aver visitato Napoli, Cuma, Ercolano, Pompei e Peastum, il filosofo, stabilitosi momentaneamente a Firenze, decise di fare nuovamente scalo presso la Serenissima. Durante il soggiorno fiorentino, infatti, lo aveva raggiunto una lettera di Teresa. E poco importava che l’intestazione recitasse comicamente “All’Ornatis.mo Signor Arthur Scharrenhans”; Schopenhauer, che solitamente si infuriava non poco quando il suo nome veniva anche lievemente storpiato (il caso più comune era il raddoppiamento della P in Schoppenhauer), questa volta non se ne diede troppo pensiero e ritornò dalla sua donna.
Le avventure passionali di questo genere non sono, a onor del vero, così infrequenti nella vita del filosofo di Danzica. Tanto che, a partire proprio dal caso di Teresa Fuga, Anacleto Verrecchia ha saputo ricostruire, nel suo Schopenhauer e la vispa Teresa: l’Italia, le donne, le avventure, un ritratto mondano di Schopenhauer che forse il grande pubblico non immagina. E in realtà non si fatica a scoprirne le possibili cause. Chi abbia infatti un minimo di familiarità con il pensiero di Schopenhauer sa bene come l’amore e le donne non fossero argomenti propriamente edificanti all’interno del suo sistema filosofico.
In un capitolo dei suoi Supplementi al «Mondo», intitolato significativamente “Metafisica dell’amor sessuale”, Schopenhauer offre una disincantata e lapidaria definizione del sentimento amoroso e dei suoi motivi trainanti:
Poiché ogni innamoramento, per quanto etereo voglia anche apparire, è radicato soltanto nell’istinto sessuale, anzi è in tutto e per tutto soltanto un impulso sessuale determinato e specializzato in modo prossimo, ed individualizzato nel senso più rigoroso.
Sebbene, in base a queste poche righe, la tentazione di classificare il filosofo come mero materialista sia piuttosto attraente, non bisogna correre il rischio di tirare troppo presto le fila del discorso. È infatti lo stesso Schopenhauer a sconsigliare il suo lettore e a metterlo in guardia da una frettolosa interpretazione di questo tipo. Il titolo del capitolo, in fin dei conti, reca non a caso il termine “metafisica”, e individuare nella tensione sessuale tra organismi il motivo principale dell’innamoramento non basta ancora ad esaurire l’argomento, poiché ancora si deve rendere conto dell’origine e dei motivi di questo stesso impulso.
Dietro alla possente attrattiva del godimento fisico e sessuale si cela infatti la protagonista assoluta del sistema speculativo schopenhaueriano, ovverosia la titanica volontà di vivere. Quella che a prima vista potrebbe essere descritta come una semplice legge di attrazione dei corpi (e, si potrebbe dire, delle anime), altro non è, in seconda istanza, che un’oggettivazione di qualcosa di ben più maestoso, un semplice vassallo di quella tremenda potenza metafisica che il pensatore di Danzica aveva additato, in barba ai perentori divieti di kantiana memoria, come la cosa in sé che muove le fila di tutti i fenomeni del nostro mondo, ivi compresi quelli di natura amorosa e amicale.
Gli appetiti risvegliati in questo modo dalla volontà si spiegano con la necessità di salvaguardare la salute della specie e di plasmare, seconde le parole di Schopenhauer, la “composizione della prossima generazione”. Quel dolce sentimento amoroso cantato dai poeti e celebrato dai letterati di ogni tempo non sarebbe, perciò, che un’astuzia della natura unicamente votata alla conservazione e alla perpetrazione di sempre nuove leve, in un infinito circolo di esistenze individuali che lasciano il proprio posto a nuovi generati immediatamente predisposti a fare altrettanto e a seguire, inconsciamente, i dettami dell’insaziabile volontà di vivere.
Nel contesto di questa visione metafisica, la donna non avrà altro scopo se non quello generativo, e tutte le sue mirabili qualità, dalla grazia alla bellezza, lavoreranno precisamente in questa direzione, non essendo altro che orpelli congeniati al solo fine di ingannare e irretire la sua controparte maschile. Spietate, a tal proposito, sono le considerazioni di Schopenhauer all’interno di un capitolo dei Parerga e Paralipomena specificamente dedicato al tema delle donne:
Già la vista della figura femminile insegna che la donna non è destinata a grandi lavori né spirituali, né fisici. Essa sconta la colpa della vita non agendo, ma soffrendo coi dolori del parto, con la cura per il bambino, con la sottomissione all’uomo, del quale dev’essere una compagna paziente e serena.
E poco più oltre (e in verità per la quasi interezza del capitolo in questione) il filosofo rincara notevolmente la dose:
Il sesso femminile, di statura bassa, di spalle strette, di fianchi larghi e di gambe corte, poteva essere stato chiamato il bel sesso soltanto dall’intelletto maschile obnubilato dall’istinto sessuale: in quell’istinto, cioè, risiede tutta la bellezza femminile. Con molta più ragione, si potrebbe chiamare il sesso femminile il sesso non estetico.
Vien forse da domandarsi se Schopenhauer giudicasse “non estetica” anche la sua Teresa in quei giorni di italico ristoro. La discrasia tra la propria dottrina e la propria condotta, tuttavia, non era da Schopenhauer sottaciuta, tanto che in altri luoghi delle sue opere il filosofo di Danzica ammetterà candidamente di non essere, pur conoscendo la via che porta alla santità, un santo egli stesso.
Ciò che ancora può essere notato, per fare ulteriore luce sull’acredine misogina di Schopenhauer, sono alcuni rilievi di carattere biografico e sociale. Se si volesse tentare una ricostruzione psicologica di questo atteggiamento nei confronti dell’altro sesso, un punto di partenza non trascurabile sarebbe costituito dal conflittuale rapporto che il giovane Arthur ebbe con la madre, Johanna Henriette Trosiener. Di vent’anni più giovane del marito, animata da velleità letterarie e grande amante degli ambienti salottieri, Johanna preferiva di gran lunga civettare con scrittori e poeti che non occuparsi del figlioletto. Ma non tutto il male, da questo punto di vista, venne per nuocere, poiché fu proprio uno dei letterati della corte materna, lo scrittore Carl Ludwig Fernow, a convincere madame Schopenhauer a lasciare al figlio la libertà di seguire le proprie inclinazioni umanistiche e filosofiche, messe in pericolo in quel momento dalla promessa, precedentemente fatta al padre, di seguire le sue orme intraprendendo la carriera mercantile. Questa pur significativa concessione non bastò, tuttavia, a placare le ire di Arthur quando anni dopo Johanna disonorò la memoria del marito, passato nel frattempo a miglior vita, dilettandosi con un amante di quattordici anni più giovane di lei raccolto dal vivaio di letterati di cui sempre si circondava.
Ad acuire, poi, la scarsa stima di Schopenhauer per le donne contribuiva certamente il contesto sociale dell’epoca. Nelle testimonianze poco sopra citate si fa menzione della presunta incapacità delle donne di eccellere in arti e mestieri, eccettuate le attività legate all’educazione e alla cura della prole. Nelle parole di Schopenhauer e degli uomini suoi contemporanei, questa manchevolezza femminile sembra essere legata direttamente alla complessione e alla struttura della donna, ritenuta biologicamente inadatta (anche dal punto di vista intellettuale) allo svolgimento di numerose mansioni. L’errore logico sotteso a questo ragionamento è per noi evidente. Le donne, in una società repressiva e segregante come quella ottocentesca, non possono eccellere nelle attività suddette poiché, semplicemente, non viene loro concessa la possibilità di sperimentarle. La presunta causa della loro incapacità, in realtà, non è che l’effetto di una condotta degli affari pubblici e privati fortemente patriarcale e maschilista. Una realtà a cui Schopenhauer appartiene pienamente e in cui, almeno per quel che concerne la sua misoginia, si integra felicemente.
Il destino aveva però in serbo un’ultima sorpresa per colui che, dopo una vita di crude elucubrazioni metafisiche sull’amore e le donne, si ritrovava incanutito ma finalmente celebre grazie al tardivo successo della sua opera filosofica. Nel 1859, un anno prima della sua morte, Schopenhauer venne visitato da una graziosa scultrice di nome Elisabeth Ney, intenzionata a realizzare un busto del pensatore e che a tale scopo si sarebbe da lui trattenuta per quasi un mese. Questo periodo di convivenza con la giovane donna, per quanto breve, desta in Schopenhauer una piacevolissima impressione, e il clima conviviale nel quale si consuma il loro rapporto viene così ricordato in un colloquio con Robert von Hornstein:
Sai chi c’era, oggi, da me? Una bella, giovane donna, una scultrice di talento, una parente del maresciallo Ney. È venuta qui e vi rimane a lungo, solo per fare il mio busto. Lavora tutto il giorno da me. Quando ritorna dal pranzo, prendiamo insieme il caffè, ci sediamo l’una vicino all’altro sul sofà e mi sembra di essere sposato.
Von Hornstein racconta che, mentre descrive il quadretto, l’anziano filosofo si frega le mani. Furono forse questi ultimi gradevoli contatti con l’altro sesso a ingentilire e mitigare l’aspro giudizio che Schopenhauer aveva precedentemente scagliato sulle donne. Pur senza ritrattare completamente i termini della questione, egli avrà modo di correggere lievemente il tiro, accordando alla dimensione femminile alcune notevoli caratteristiche:
Sulle donne non ho ancora detto la mia ultima parola: credo che la donna, se riesce a staccarsi dalla massa o meglio a elevarsi sopra di essa, cresca ininterrottamente e più dell’uomo, per il quale l’età segna un confine, mentre la donna si sviluppa sempre di più.
Lungi dal poter parlare di una vera e propria conversione, si potrebbe invece utilizzare il termine “inversione”. La tendenza a considerare le donne come prive di abilità e possibilità di emancipazione lascia infatti il posto a un giudizio che, pur condito dalla consueta dose di cinismo e severità, riconosce alla donna un inaspettato primato sull’uomo:
Più guardo gli uomini, meno mi piacciono. Se soltanto potessi dire la stessa cosa delle donne, tutto sarebbe a posto.
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DIETRO IL FILOSOFO: L’UOMO E LE IDEE
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