IL FILOSOFO GIGOLÒ – SOPHIA È EROS

Estratto da Il filosofo gigolò, Ensemble Edizioni, 2019 di Daniele Piccioni.
[Arnaldo] non aveva alcuna intenzione di alimentare speranze infondate: per questo, scoprì fin da subito le sue carte. Informò Sophia della conseguenza a cui sarebbero andati incontro: le disse che, se non avessero trovato il modo di spiritualizzare il potente desiderio carnale che li legava, lui avrebbe troncato con lei ogni comunicazione alla vigilia della propria ordinazione sacerdotale. Glielo ripeté molte volte e, dal canto suo, puntualmente, Sophia lo rassicurava dicendogli di conoscere i rischi. Confortato da ciò, lui abbassò un po’ le difese, e dopo appena dodici incontri, scoprì molte sfumature di estasi fisica. Un menù erotico fisso, congelato ai preliminari: solo baci e carezze. Se li gustavano sciogliendoli lentamente, sdraiati su un fianco, l’uno di fronte all’altra, al centro della radura, su un morbido plaid. Sophia insisteva per avere anche il resto, ma Arnaldo si rifiutava. Resisteva alle tentazioni, agli assalti più audaci. Spostava la mano che lei, di tanto in tanto, avvicinava al suo inguine. La respingeva per proteggere se stesso e anche lei. In quei momenti, il proprio sesso gli pareva una belva in gabbia, ottusamente feroce, vogliosa di avventarsi sulla carne che lui, pur bramando, non osava toccare. Decise che era meglio restare vestiti, di toccarsi ovunque fuorché nell’intimo. Il primo giorno si baciarono e si tastarono in questo modo. Anche il secondo, ma soltanto nei primi venti minuti. Dopodiché lei ordinò: «Non alzarti». Andò a sedersi a gambe incrociate ai suoi piedi. Provò a sfilargli le scarpe.
«No, ti prego, no!».
«Cretino, non andrai mica all’inferno per un massaggino ai piedi!».
«Forse no, ma una scottatina me la daranno…». Approfittò della battuta per sfilare i piedi da quelle mani. Poi le intimò: «Non ti azzardare!» ma lei glieli agguantò nuovamente. Nel lungo tira e molla che seguì, finalmente lei ebbe la meglio e riuscì a sfilargli le scarpe da ginnastica.
«Ora basta! Lascia stare le calze!».
«Scemotto, non puoi mica tenerle. Come faccio a…». Lui non la fece parlare. Sì impuntò e lei mutò strategia.
Invece di sfilargli le calze gli massaggiò i piedi attraverso la stoffa e gli disse: «C’è un mito sacro alla religione ufficiale greco-romana: il mito di Ganimede. Suscitava in Platone grande disprezzo. Vuoi sapere perché?».
Il seminarista era talmente estasiato da quel massaggio che si limitò ad annuire.
«Questo mito attribuisce al re degli dèi, a Zeus, in maniera chiara e lampante, un’inclinazione omosessuale. Veniva insegnato nei templi, a tutti, fin da bambini, nella maniera più sacra. Faceva parte di una sequela di miti religiosi che descrivevano Zeus e gli altri dèi nell’atto di compiere azioni contrarie all’etica di Platone. Inganni, incesti, sesso fuori dal matrimonio, addirittura con animali… Tradivano, rubavano… Era l’intera religione a essere incompatibile con il filosofo. Per questo, Platone non si limitò a disprezzarla. Ma si attivò per distruggerla e rimpiazzarla con una forma radicalmente nuova di sacro. Un culto nuovo per…» fece una pausa, poi concluse: «…per fondare una civiltà tutta nuova, un nuovo tipo di mentalità… un uomo come te!».
Arnaldo, che si era concentrato ad ascoltarla, solo ora si accorse che, mentre parlava, lei gli aveva sfilato una calza. Era tentato di protestare. Anche perché ora la vedeva sfilargli l’altra con grande lentezza. Ma perché rinunciare al piacere di quel massaggio? Era il primo della sua vita e a ben vedere era meno peccaminoso di un bacio. La pregò quindi unicamente di questo: «Per favore» le chiese, «non dirmi più che Platone inventò il Cristianesimo. Tanto è inutile. Non ci credo».
«Va bene» promise sfilandogli l’altra calza. «Però anche tu allora, fammi un favore».
«Volentieri» e si affrettò a dire: «Se posso».
«Certo che puoi. Dammi la bottiglietta dell’olio. È nella borsa. Già che ci sei, prendi anche il quaderno. Leggi la prima pagina».
Poco dopo, Sophia gli cosparse i piedi di olio, e mentre lo massaggiava e gli sollevava – un po’ alla volta, furbescamente, centimetro dopo centimetro – l’orlo della tuta, Arnaldo si mise a leggere quelle scritte dalla strana grafia. Si trattava di un brano tratto dalla Repubblica di Platone, ai versi 378 D- 379 B. Il filosofo vi aveva inscenato un dialogo tra due personaggi: Socrate e Adimanto. Il seminarista si concentrò sulle parole di Socrate e scoprì che Platone fu il primo a sferrare – molto prima dei cristiani – un attacco frontale agli dèi e ai disvalori della religione pagana:
E le catene della dèa Era che il figlio le ha imposto, e la vicenda del dio Efesto precipitato dal padre per essere accorso in difesa della madre picchiata, e anche le guerre fra dèi inventate da Omero, ebbene, nulla di tutto ciò deve venir raccontato nel nostro Stato, né se fatto in senso allegorico, né se non lo sia. In effetti, i giovani non sono in grado di distinguere il significato allegorico da quello letterale, e d’altra parte l’opinione che si fa a quella età, risulta poi immodificabile e difficile da correggere. Per questa ragione, sarebbe della massima importanza che i primi racconti che si apprendono nell’infanzia siano finalizzati alla virtù, quanto meglio è possibile.
Arnaldo interruppe la lettura. Si era accorto che Sophia, lentamente, gli aveva sollevato la tuta fino al ginocchio. Ma lasciò correre e si concentrò nuovamente sul discorso che Platone aveva messo nella bocca di Socrate:
Caro Adimanto, almeno fino a oggi, né tu né io siamo poeti, ma fondatori di uno Stato; e chi fonda uno Stato non è tenuto a concepire dei racconti mitologici, ma ad averne chiare in mente le linee direttive che i poeti[1] dovranno seguire per costruire i loro miti. E anzi, a loro non sarebbe neppure permesso di comporre opere che non tengano conto dei nostri orientamenti.
Va bene […] ma tali direttive che riguardano la teologia quali potrebbero essere?.
Più o meno così: […] come dio si trova a essere, così andrebbe sempre rappresentato, sia che lo si faccia in versi epici, o lirici, o nel testo di una tragedia.
È necessario.
Dunque, siccome nella realtà dio è buono, così va raffigurato.
Arnaldo era meravigliato. Prima di questa lettura, ignorava che Platone avesse anticipato ancora una volta i cristiani attaccando con tanta veemenza la religione pagana. Non sapeva nemmeno che quel filosofo avesse desiderato fondare una fede radicalmente nuova: una religione incentrata sulla bontà di Dio; scritta e codificata su versi epici, o lirici, o nel testo di una tragedia. Automaticamente, volò con la mente alla suprema tragedia che è la passione di Cristo, e ci avrebbe rimuginato a lungo se non si fosse accorto di una slealtà di Sophia: la sua mano – infilata sotto la tuta – era arrivata ora molto più su. Lui era sul punto di immergersi e abbandonarsi all’impeto di quel piacere smodato, ma ripensò nuovamente alla fede. Trascorse qualche secondo in estatica esitazione, dopodiché protestò in modo secco: «Sophia!».
«Eh?» reagì lei ritirando la mano «Perdonami. Credimi, l’ho fatto senza pensarci». Più rapida che poté riabbassò l’orlo della tuta alle caviglie. Poi, volendo forse semplicemente distrarlo, gli domandò a bruciapelo: «Sapevi che il termine “Teologia” è un’invenzione di Platone?».
Il seminarista sfilò entrambi i piedi dalle mani della ragazza. «No!» ribatté con la voce strozzata in gola. Notò che la propria erezione era molto evidente data l’elasticità della tuta, e per nasconderla si sedette rapidamente in posizione fetale.
[1] Ai tempi di Platone i “poeti”, quali ad esempio Omero, Esiodo e Orfeo, erano considerati i padri fondatori della religione.
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IL FILOSOFO GIGOLÒ
L’autore Daniele Piccioni sa arrivare al cuore dei lettori, guardandoli diritti negli occhi come si fa con le persone a cui vuoi bene alle quali non puoi mentire, come quando ci suggerisce di guardare la nostra vita nella prospettiva “dell’ atemporalita”, intesa come unità immobile senza prima né dopo dove tutti gli eventi coesistono simultaneamente e formerebbero un UNO indivisibile