KARL JASPERS: LA FEDE FILOSOFICA TRA GALILEO E GIORDANO BRUNO – PARTE II
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Essa è il motore che dà l’avvio alla riflessione, quella scintilla che accende lo spirito e lo infiamma; la filosofia, sorta o dalla meraviglia (Platone, Aristotele, lo stesso Jaspers) o dalla disperazione (Nishitani) o, financo, dalla depressione (Lacan), deve essere sorretta da una forza intima, oltre ogni fallimento possibile. Questa fede non può essere dedotta da dimostrazione alcuna, non se ne possono fornire preambula, ovvero forme razionali che possano anticiparla, né è possibile mostrarla sulla base del semplice dato sensibile; non è irrazionale, benché inassimilabile alla ragione né completamente razionale, altrimenti decadrebbe a mero intellettualismo, formalismo sterile. Non può essere elevata a bandiera, a vessillo di guerra; non viene trascesa nel dogmatismo e resta immune da ogni pretesa di assolutezza e esclusività. È aperta al dubbio, vive del dubbio; la scepsi ne è radice, fondamento e la lotta, amorosa (liebender Kampf), ne è attuazione concreta. Non ha paura della negazione della fede, ma in essa trova una sua possibilità; è ingenua, se si vuole, ma possiede una forza tale da rendere l’uomo uomo, in un perpetuo processo; per Jaspers,
è reale solo quella fede che è in grado di considerare la negazione della fede come una sua possibilità. Allo stesso modo una negazione della fede, che non ha però alcuna fede da combattere, riaffonda nell’opacità della coscienza, dove dominano le aproblematiche ovvietà dell’esserci e dove non c’è più tensione tra fede e negazione della fede. L’una e l’altra costituiscono infatti i poli dell’esser-se-stesso. Dove cessa questo contrasto cessa anche il filosofare e ciò può accadere sia con la fede, sia con la negazione della fede (Jaspers, Filosofia vol. I, Orientazione filosofica nel mondo, 1931).
La sua verità si riverbera nell’esistenza stessa di colui che la professa; anzi, l’esistenza stessa è strutturata da questa professione; come ha messo in evidenza Roberto Garaventa, la fede è l’«aver trovato in libertà una “verità” che è in grado di sostanziare e indirizzare la sua vita» (cfr.,«La verità è ciò che ci unisce». Attualità del pensiero di Karl Jaspers, 2017). Tuttavia, l’isolato trovare-il-vero non è ancora sufficiente perché si è solo raggiunto un vero, una verità, riflesso, rifratto, di quell’unica Verità pressoché irraggiungibile; e nella sua scomposizione in molteplici accessi, l’esistenza si trova instradata, su di un sentiero, auf dem Wege der Wahrheit (in cammino verso la verità): la fede, nella sua incondizionatezza, apre lo spazio alla filosofia che ne diventa così linguaggio; ancor di più, la filosofia stessa dialettiza la fede rendendo possibile ciò da cui è resa a sua volta possibile.
Compito della filosofia, pertanto, è la chiarificazione di quella fede grazie alla quale l’esistenza trova il proprio fondamento; la filosofia è un’attività di trasformazione dell’individuo, un’autotrasformazione il cui essenziale non-sapere si deve riverberare nella vita del singolo: valore esistentivo (existentiell) della filosofia. E questo processo non può ricadere tra le maglie di un irrazionalismo miope, di un fanatico credo quia absurdum, di un’accondiscendente fiducia acritica nei confronti dell’autorità; non è un fare illogico né dimentico della tragicità dell’esistenza, del suo ineliminabile non-poter-essere-così eppure non-poter-essere-che-così.
Ed è proprio qui che si cela l’impossibilità del concetto di fede filosofica: una filosofia autentica che per potersi esplicare non può non essere fede, la quale, di rimando, non può essere definita tale senza la riflessione filosofica; una filosofia e una fede inseparabili, coappartenentesi, coimplicantesi, reciprocamente trascendentali: Mani che disegnano.
In effetti, niente meglio che un’immagine, estetizzazione del concettuale (o concettualizzazione dell’estetico?), per chiarificare questo enigmatico costrutto. Litografia di M. C. Escher, 1948 (ironia della sorte, anno di pubblicazione del saggio Philosophische Glaube – La fede filosofica), il quale così la descrive: «[u]n foglio di carta è fissato a un supporto con quattro puntine da disegno. La mano destra è occupata a disegnare la manica di una camicia. Al momento non ha ancora terminato il suo lavoro ma, un po’ più in là a destra, ha disegnato una mano sinistra già così dettagliatamente che questa si distacca dalla superficie e, a sua volta, come una parte viva del corpo, disegna la manica dalla quale appare la mano destra» (cfr, M. C. Escher, Stampe e disegni, 20162, corsivi nostri).
Da notare un particolare, assai fecondo per la filosofia: l’atto che viene compiuto dalle due mani è, nella sua unicità, duplice; da una lato, esso è eterodiretto nel tratteggio dell’altra mano, mentre dall’altro è autoriflesso nella contrazione del gesto creativo (creo chi mi creerà, a mia volta creato da chi creerò). È come se la mano destra non stesse disegnando, pertanto, altro che se stessa! Esattamente come la sinistra! Le mani (la mano) che si disegnano (che si disegna) ben rappresenta la fede filosofica: unità essenziale, univocità profonda e fondale, spazio inclusivo per il differire. In fondo è come se si fosse al cospetto di una serie molteplice e ripetitiva del e nel gesto ricorsivo (la stessa posizione delle mani e delle penne sembrerebbe richiamare alla circolarità virtuosa del gesto stesso), una «corrispondenza differenziale» (cfr., J. Gil, L’impercettibile divenire dell’immanenza. Sulla filosofia di Deleuze, 2015) che rende le due mani altro-dalla-destra (la sinistra) e altro-dalla-sinistra (la destra). Fosse anche la medesima mano, è/sono due mani diverse.
La fede filosofica, pertanto, è propriamente quest’attività, questo reciproco delinearsi, questa emergenza che retroattivamente opera su ciò da cui ha tratto scaturigine; è la mano destra che tratteggia la sinistra la quale, a sua volta, tratteggia la destra nell’atto di tratteggiare la sinistra. È ricorsività, circolarità virtuosa. Obiettivo del filosofo, che in quanto tale si trova coinvolto in questo spazio-limite, cercare, per quanto possibile, di rendere ragione di ciò. Deve rendere ragione di ciò che lo fa sussistere nel suo essere-filosofo, consapevole che il suo filosofare altro non è che epifenomeno della fede filosofica stessa. Ecco perché Jaspers ha cercato, a partire da Della Verità (1947), di formulare una philosophische Logik (logica filosofica) che fosse in grado di elucidare «l’autentico movimento della ragione».
M. C. Escher, Mani che disegnano, litografia, 28,5 × 24 cm, 1948.
@ILLUS. by FRANCENSTEIN, 2024