LA LETTURA SEVERINIANA DI ESCHILO E LEOPARDI: L’INIZIO E LA FINE DELLA CIVILTÀ DELLA TECNICA
Introduzione
Il presente lavoro ha come obiettivo principale quello di mostrare in che modo la poesia e, in particolare, due poeti, assumano un ruolo determinante all’interno del pensiero di Emanuele Severino. Severino elabora, a partire da un complesso e rigoroso lavoro in sede teoretica, una ricostruzione della civiltà occidentale. All’inizio e alla ‘fine’ di tale ricostruzione, come avremo modo di vedere, le figure preminenti sono quelle di due poeti: Eschilo e Leopardi. Oltre a considerare e qualificare la portata filosofica della poesia di questi due autori e al di là della comprensione dei motivi teorici per cui la loro opera possa avere un ruolo così determinante per gli snodi del procedere storico e intellettuale dell’Occidente stesso, la domanda su cui si concentrerà la nostra attenzione è la seguente: per quale motivo, all’interno del pensiero di uno dei più rigorosi e ‘sistematici’ filosofi teoretici degli ultimi due secoli, trovano un ruolo così importante e imprescindibile due poeti?
Come vedremo, Eschilo e Leopardi anticipano un’epoca: non si può forse dire che la poesia, rispetto alla filosofia, detiene una funzione anticipatrice? Se sì, a quali condizioni? A queste domande e a questi spunti, con un intento tutt’altro che definitorio e pertanto aperto ad un successivo dibattito e confronto, si tenterà di rispondere.
Presenteremo ed esamineremo dapprima i luoghi di Eschilo e di Leopardi che sono frequentati da Severino. In seguito, mostreremo la lettura severiniana, cercando di evidenziare le ragioni teoriche che spingono Severino ad interessarsi a questi poeti, anche in riferimento ad alcuni dei tratti fondamentali della sua teoresi. Infine, sarà appunto proposta la risposta agli spunti di cui sopra, tentando di evidenziare una possibile modalità per intendere i rapporti tra filosofia e poesia – o tra filosofia e letteratura, in generale.
Eschilo, Inno a Zeus
L’Agamennone è la prima delle tre tragedie che compongono l’Orestea di Eschilo. In quest’opera, il tragediografo descrive le vicende connesse alla partenza del capo degli Achei da Micene. In seguito al verdetto dell’oracolo, egli si vede costretto a sacrificare la figlia Ifigenia affinché gli dei calmino i venti e le onde e gli permettano di salpare alla volta di Troia con il suo esercito. In questo contesto drammatico, si alza un inno a Zeus, di particolare interesse. L’inno recita così: Zeus, chiunque egli sia, a lui mi rivolgo con questo nome, se gli è caro esser chiamato così. Se il dolore, che getta nella follia, deve esser cacciato dall’animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un sapere che sta e non si lascia smentire, non posso pensare che a Zeus. (vv. 160-166)[1].
Nel testo eschileo, il dio Zeus non sta ad indicare soltanto la divinità olimpica, ma qualcosa di immensamente più grande. Zeus è un sapere che sta, è ciò che scaccia via ogni dolore e ogni follia. Zeus, che nelle Supplici viene definito dallo stesso Eschilo το παν μεχαρ, “il rimedio totale”, sembra superare gli attributi che tradizionalmente vengono attribuiti agli dei. Il sapere che risana dal dolore è rappresentato, per antonomasia, dall’onniscienza delle Moire, alle cui deliberazioni sono soggetti tanto gli dei quanto gli uomini.
Severino legge Eschilo
Proprio su questa “eccedenza di significato” rispetto al tradizionale modo di intendere la divinità – peraltro già evidente dal testo – si concentra la lettura severiniana dell’Inno a Zeus. All’inizio del capitolo dedicato a Eschilo, nel volume sulla storia della filosofia antica, Severino scrive: «Al suo inizio, la filosofia si esprime nelle forme linguistiche più diverse. […] Non ci si deve quindi lasciar distrarre, come invece è quasi sempre accaduto, dalla circostanza che il pensiero filosofico di Eschilo ((grassetto mio)) senta il bisogno di esprimersi nel teatro»[2]. La filosofia non è quindi vincolata ad una specifica modalità espressiva, ma si muove tra la prosa, la poesia, il dialogo, il teatro (solo per restare al mondo greco). In che cosa consiste, però, il pensiero filosofico di Eschilo, la portata filosofica della sua poesia teatrale? Si diceva che occorre portare l’attenzione sul nuovo significato che, in Eschilo, è assunto da Zeus. Il ‘sommo rimedio’ (seguendo la definizione che del dio è data nelle Supplici), il sapere che salva dalla follia del dolore, il sapere che ad un tempo costituisce la forza della verità e ne è a sua volta costituito, tutto questo è Zeus.
In sintesi, «la grandezza del pensiero filosofico di Eschilo riguarda appunto il rapporto tra verità e dolore»[3]. Prima dell’avvento della filosofia, il tragediografo – il poeta – si avvede della necessità che ci sia una salvezza dal dolore della vita e che tale salvezza coincida con il sapere. La poesia di Eschilo, in questo senso, segna l’inizio della storia dell’Occidente, civiltà persuasa che le cose del mondo siano costantemente immerse nel divenire, nella trasformazione, nel ciclo della nascita e della morte. Occorre una spiegazione a questo scenario incomprensibile e terribile: da θαυμα, dal terrore e dall’angoscia, occorre uscire. Se ne può uscire solo a patto che ci sia una dimensione che sta, che non si lascia smuovere dal flusso incessante delle cose. La verità, il sapere, l’επι-στημη, è la sola certezza, è ciò che non muta né potrebbe in alcun modo mutare: è l’immutabile, il sapere incontrovertibile. La filosofia non farà altro che dare contenuto, solidità formale e pregnanza logica a tale spazio, già evocato dal pensiero poetico di Eschilo.
Giacomo Leopardi, la poesia e il senso del nulla
L’eccelsa poesia di Giacomo Leopardi è tale da non poter essere analizzata o sintetizzata in poche righe. Parrebbe perciò impossibile individuare un nucleo concettuale univoco che ne esprima l’intima essenza e natura. Basti per ora il richiamo ad alcuni luoghi del suo poetare che sembrano accomunati da un medesimo spirito.
Nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, queste ultime intonano un coro – similmente a quello che si levava per Zeus nell’Agamennone di Eschilo. I morti cantano: «In te, morte, si posa nostra ignuda natura; lieta no, ma sicura dell’antico dolor»[4]; e ancora, poco più avanti: «Che fu quel punto acerbo, che di vita ebbe nome? Cosa arcana e stupenda ((grassetto mio)) oggi è la vita al pensier nostro, e tale qual de’ vivi al pensiero l’ignota morte appar»[5].
La vera natura delle mummie, “ignuda” dalla menzogna, è in fin dei conti la morte. Ma questa non è soltanto propria di chi non vive più. Infatti, essa appare allo stesso modo anche al pensiero dei vivi. La vita altro non è che qualcosa di misterioso e fugace, stupendo e arcano, è un “punto acerbo” che ha interrotto il fluire della distruzione. Ma è proprio tale fluire ad essere la vera natura dell’umano. Essa è la sola dimensione sicura, è “l’antico dolor”, la certezza intramontabile che è sempre stata dinanzi allo sguardo di chi l’ha voluta scorgere.
Il Cantico del gallo silvestre ritorna sul tema della mortalità, con ancor maggior chiarezza. Leopardi dice di riportare in volgare e in prosa l’antica trascrizione di un canto talmudico, che la leggenda dice esser stato pronunziato da un gallo, sul far del mattino. Dice il gallo, rivolto agli uomini: «Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella»[6]; e ancora, poco dopo: «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice»[7].
La vita è ciò che imprigiona, ciò che impedisce il sopraggiungere della quiete, che è la morte. La morte è il solo senso verace dell’esistenza. Ciò che esiste è, infatti, intrinsecamente nulla. Dal nulla viene e nel nulla è destinato a ritornare, oltrepassata la parentesi della vita. La sola certezza è il perire. È, questo, il solo orizzonte di verità da cui tutte le cose provengono e in cui trovano la propria autentica natura.
In ultimo, prendiamo in considerazione La ginestra. La poesia è incentrata sull’omonimo fiore, che sboccia sulle pendici del Vesuvio. Leopardi si rivolge al fiore: «quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola»[8]. Il profumo del fiore inebria il deserto, cioè la natura arsa dalla lava del Vesuvio, brulla e senza vita. L’aria viene rinfrescata dalla ginestra, che si ostina a crescere e a sbocciare, nonostante tutto, intorno a lei, sia votato alla distruzione e all’annientamento. Proprio quel fiore sta a rappresentare l’anelito umano all’eternità, il richiamo alla vita, quella fuggevole parentesi che interrompe l’incessante e ineluttabile mortalità del tutto. La ginestra è l’anelito dell’ «uom [che] d’eternità s’arroga il vanto»[9]. Tuttavia, la ginestra non è che un breve spiraglio di vita: «E tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco, che ritornando al loco già noto, stenderà l’avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente»[10]. L’anelito della ginestra si scontra con l’irrevocabilità della potenza crudele della natura annientante. Resta, per un istante, la bellezza di quel profumo, la grandezza di quella speranza. Tuttavia, passato quell’istante, non c’è spazio che per la morte.
Severino legge Leopardi
Come anticipato, Emanuele Severino dedica due libri all’opera di Giacomo Leopardi: Il nulla e la poesia e Cosa arcana e stupenda. Ai fini di questo lavoro, prenderemo in considerazione il primo volume. In entrambe le opere, ad ogni modo, si dà conto del nucleo filosofico fondamentale che anima la poetica leopardiana. Si tenterà, qui di seguito, di indicare i tratti fondamentali della lettura severiniana di Leopardi.
Va anzitutto detto che, nella ricostruzione che Severino fa della storia del pensiero occidentale – strettamente connessa con la storia occidentale tout-court –, Leopardi occupa un ruolo fondamentale. Egli si situa alla fine di un’epoca e, al contempo, segna l’inizio di una nuova fase. Il lavoro che viene svolto da autori come Leopardi, Nietzsche e Dostoevskij consiste nella distruzione di ogni immutabile, sia esso metafisico, epistemico, morale, religioso e teologico. In questo senso, si chiude la stagione inaugurata dalla filosofia greca, e anticipata da Eschilo, che vedeva nelle strutture immutabili la sola possibile salvezza al dolore e alla morte. Il clima filosofico a cui Leopardi afferisce, definito da Severino come il ‘sottosuolo filosofico del nostro tempo’, esprime l’impossibilità essenziale che, data l’evidenza assoluta dell’Occidente, possano esservi strutture immutabili non soggette al divenire e alla morte. L’evidenza originaria dell’Occidente è appunto il carattere diveniente del reale.
Tale consapevolezza è presente a Eschilo, quando parla del dolore che getta nella follia, è presente a Platone e alla metafisica greca in generale, quando emerge la necessità che il mondo ideale e archetipico dia un senso e una pregnanza ontologica alle cose del mondo, ed è massimamente presente a Giacomo Leopardi. Nello Zibaldone, egli afferma, con una chiarezza quasi sconcertante, che «tutto è nulla»[11]; nel già citato passo, tratto dal Cantico del gallo silvestre, il gallo dice esplicitamente che l’unico fine delle cose che sono è il morire[12]. Stante questa incrollabile e autoevidente certezza – almeno, questa è la persuasione in cui l’Occidente è immerso – ogni immutabile, che resista e che faccia violenza all’immane forza del negativo, è destinato a perire. Anzi, il suo stesso porsi è impossibile. La connessione tra l’orizzonte concettuale aperto da Eschilo e quello presente nella poesia di Giacomo Leopardi è ben espresso da Severino in queste righe:
È singolare che il pensiero di Eschilo e di Leopardi, che sostanzialmente e generalmente sono considerati come “poeti”, abbiano un peso così determinante nella storia del pensiero filosofico. Eschilo, per la prima volta, pensa in modo esplicito che la verità dell’epistème è il rimedio contro il dolore del divenire: insieme a pochi altri, egli apre il sentiero lungo il quale la civiltà occidentale e, oramai, tutta la Terra, camminano. Leopardi apre e anticipa l’ultimo tratto di questo sentiero, portandosi nella massima lontananza rispetto a Eschilo e all’intera tradizione filosofico-culturale dell’Occidente, ma, insieme, realizzando l’estrema fedeltà al senso del divenire che il pensiero greco (e Eschilo tra i primi), ha portato alla luce una volta per tutte. [13]
In questo senso, pertanto, si comprende la portata del pensiero filosofico di Leopardi. Egli, fedele al fondamento, ne trae le più coerenti e disastrose conseguenze: non vi è salvezza, non vi è rimedio.
In ultimo, occorre considerare ancora una questione, ossia il ruolo della «opera di genio»[14]. A questo proposito, la lettura severiniana si rivolge, in particolare, a La ginestra. In che cosa consiste l’opera di genio? Essa è, essenzialmente, quello spiraglio di vita che viene diffuso dalla ginestra. L’opera di genio è la stessa poesia che esprime il senso del nulla. In altre parole, l’opera di genio è l’affermazione di quell’ineluttabile realtà che condanna la stessa ginestra (la stessa opera di genio) ad essere travolta. Con le parole di Severino: «Poiché la ragione, vedendo la nullità di tutte le cose, annienta la vita, nel genio la forza della visione della verità è insieme la forza con cui la vita e l’esistenza vengono annientate da tale visione. Il genio vive della forza con cui si distrugge»[15]. La poesia è dunque ragione, ma non nel senso restrittivo del logico argomentare, bensì in quanto dà ragione, testimonianza e spazio alla consapevolezza che le cose sono nulla, come lo stesso Leopardi dice nello Zibaldone[16].
Ecco come la poesia di Leopardi si situa alla fine dell’epoca inaugurata da Eschilo: il sapere non può – e non deve – essere altro che la semplice e geniale testimonianza della nullità, essendo anch’esso una delle molteplici cose votate all’annientamento. Leopardi mostra la fine dell’età degli immutabili, esprime il sapere che sa di non poter stare, di non poter essere più επι-στημη (epi-stème). Ma, stanti così le cose, Leopardi è anche all’inizio di una nuova epoca, l’età della tecnica. Nella speculazione severiniana, quest’ultima coincide con l’orizzonte storico-concettuale inaugurato e reso possibile proprio dal sottosuolo filosofico, a cui Leopardi, Nietzsche, Dostoevskij e altri afferiscono. Morti gli dèi, crollati gli immutabili, persa ogni struttura che possa permanere e fungere dunque da rimedio al dolore (o, il che è lo stesso, da limite al libero scorrere del reale), il campo è libero per la volontà e per la potenza umane. Pur essendo queste ultime, per loro intrinseca natura, finite, possono tuttavia tendere all’infinito, possono anelare all’illimitata realizzabilità di ogni progetto, dal momento che non c’è e non può esservi alcuna resistenza in grado di reggere al flusso del divenire.
Morti gli immutabili, in altre parole, l’azione è libera e onnipotente. Subentra qui la nozione di volontà di potenza, ampiamente elaborata da Nietzsche: questa si dà solo e soltanto a patto che ogni struttura inamovibile sia irrevocabilmente rimossa e travolta da ciò su cui intende im-porsi. La volontà di potenza, al fine di potersi inverare, cercherà uno strumento efficace, il più efficace possibile. Ovviamente, nell’età che noi stessi viviamo oggigiorno, tale strumento non può che essere l’apparato tecno-scientifico. Con questa nozione si intende il complesso di strumentazioni e di saperi che dirigono il procedere della tecnica contemporanea, la quale si fonda su leggi scientifiche di carattere ipotetico-probabilistico. Sulla scorta dell’apparato, la volontà di potenza si esplica efficacemente, rasentando – o almeno, questo è il suo obiettivo – qualcosa di estremamente simile all’onnipotenza.
Senza entrare nel merito e nello specifico delle modalità con cui Severino pensa la questione della tecnica, basti qui segnalare che il progetto tecno-scientifico si dà solo e soltanto a patto che il campo sia sgombrato da ogni struttura inamovibile. Ma – e qui si torna a Leopardi – la stessa tecnica, in quanto espressione della volontà di potenza, è affine all’opera di genio. Essa vive, dunque, della stessa forza indiscutibile che ne decreta la condanna. Il progetto tecno-scientifico e il paradiso di onnipotenza a cui questo porta sono, in fin dei conti, fondati su delle ipotesi (il sapere ipotetico-probabilistico della scienza) che non possono stare in piedi in modo assoluto. Se così fosse, sarebbero infatti strutture immutabili che limiterebbero il libero divenire del reale. Ma siccome questo è impossibile, giacché negherebbe quella dolorosa ma necessaria verità che muove lo stesso pensiero leopardiano, ne viene che la tecnica è fondata su basi assai instabili, necessariamente instabili, inevitabilmente instabili.
Sì che, come la ginestra è destinata ad esser travolta dall’immane forza dell’annientamento, così il progetto tecno-scientifico e il paradiso della tecnica sono destinati a crollare. Essi verranno portati via dalla forza che si proponevano di regolare e di governare, stante l’assenza di limiti inamovibili.
Ecco il motivo per cui Leopardi, nella lettura che Severino ne dà, non solo apre al senso della civiltà della tecnica, ma ne segna anche la fine. Leopardi conclude un’epoca, ne anticipa un’altra e, insieme, traccia anche la fine di quest’ultima. Ecco l’immensità della portata filosofica di cui la poesia di Leopardi è intrisa e in cui, in ultima analisi, consiste.
Conclusioni
Si tenterà ora di rispondere, per brevi cenni, alle domande poste all’inizio. È chiaro che quanto detto qui si apre ad un’ampia discussione e che non vi è, pertanto, alcun intento definitorio.
È possibile anzitutto dire che la filosofia si dà anche in forme scritte diverse dal trattato. La poesia è una di queste forme espressive alternative, insieme agli aforismi, al dialogo e a molte altre. Quindi, ad un livello preliminare, risulta chiaro che la filosofia può esprimersi anche in poesia.
La posta in gioco, tuttavia, è più alta. Visto il ruolo che Eschilo e Leopardi, due poeti, hanno avuto all’interno della ricostruzione severiniana della cultura occidentale, è forse possibile dire che il ruolo della poesia è quello di anticipare il procedere del filosofare? Occorre riflettere. Se, come si è detto, la filosofia si dà in diverse forme, e una di queste forme è la poesia, allora non possiamo dire che la poesia anticipi la filosofia. Filosofia è anche quel plesso di contenuti che vengono espressi in forma poetica. Si dovrebbe concludere che è la filosofia ad anticipare se stessa, il che non ha alcun senso. Riconoscere la filosofia nella poesia (e nella letteratura, tout-court) significa comprendere che le scissioni tra filosofare e poetare sono errate.
Quel che invece occorre fare è distinguere tra forme espressive. In questo senso, possiamo affermare che il filosofare come poetare può esprimere in forma immediata i medesimi contenuti filosofici che il filosofare come logico argomentare non può che mostrare mediatamente e dianoeticamente. Tale immediatezza, prescindendo dallo svolgimento concettuale, può precedere cronologicamente la filosofia classicamente intesa. L’altro vantaggio che il filosofare poetante ha rispetto a quello argomentativo è la capacità di farsi portatore, attraverso un linguaggio simbolico e allusivo, del senso fondamentale di un clima, soggiacente tanto alla poesia quanto alla filosofia in genere. Ad esempio, una poesia permette di comprendere efficacemente il clima del sottosuolo filosofico a cui Leopardi, Nietzsche e Dostoevskij, tra gli altri, afferiscono. Lo stesso contenuto è esplicitabile dal pensiero, il cui procedere argomentativo è rigoroso e mediato dal concetto, ma l’immediatezza emotiva attraverso cui il poetare mostra quell’orizzonte di senso è impossibile da eguagliare in forma mediata.
Va chiarito che questi spunti per una teorizzazione del rapporto tra filosofia e poesia non sono presenti nelle pagine di Severino. Lì, ci si limita a mostrare il contenuto filosofico presente nel poetare, ma l’intento potrebbe voler essere quello di conferire dignità filosofica alla poesia, mostrando che in essa vi è la filosofia. Il senso delle annotazioni che si è tentato di proporre ha invece un obiettivo leggermente diverso: non si tratta di dire che la poesia è valida poiché in essa vi è filosofia. Non si tratta di rendere giustizia al poeta mostrando che egli, in fondo, è anche e soprattutto filosofo. Si tratta invece di vedere come la filosofia sia anche espressa poeticamente e come un poeta sia, di per sé, un tipo specifico di filosofo. Occorre che le mura del filosofare si aprano alle altre forme espressive, ma in senso concreto: più che rinvenire la filosofia nella poesia, mostrare che tanto la poesia quanto il logico argomentare sono filosofia.
Si ribadisce che questi sono soltanto spunti per proporre una modalità alternativa di intendere il nesso filosofia-poesia. Tuttavia, non si intende nemmeno affermare che, per Severino, la poesia abbia valore solo in quanto in essa si possano trovare ed evidenziare contenuti filosofici, e che la dignità della poesia dipenda dalla presenza del filosofico in essa. L’intento è soltanto quello di interpretare un punto in cui la posizione severiniana non è definita in modo univoco. Si tratta di portare a conclusione le riflessioni sulla portata filosofica di Eschilo e Leopardi, verso una direzione forse ignota e inesplorata anche da parte dello stesso Severino. Che sia forse questa una delle vie per riaprire i cancelli della Καλλιπολις, affinché anche i poeti possano trovarvi spazio, e i filosofi possano vedere in essi dei compagni di cammino e non degli avversari? In fondo, verrebbe da dire, “filosofi” e poeti cercano in modi diversi esattamente lo stesso, ovvero il senso nascosto della verità, che è compito del filosofare, in ogni sua forma, disvelare. Tutti insieme, essi realizzano il senso autentico della filosofia.
[1] Eschilo, Orestea, Agamennone, in E. Severino, Interpretazione e traduzione dell’Orestea di Eschilo, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 22-23.
[2] E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, la filosofia antica e medievale, Milano, Rizzoli, 2004, p. 77.
[3] Ibidem.
[4] G. Leopardi, Operette morali, Milano, BUR, 1951, p. 130.
[5] Ivi, p. 131.
[6] Ivi, p. 179.
[7] Ivi, p. 180.
[8] G. Leopardi, La ginestra, vv. 34-37, in E. Severino, Il nulla e la poesia, alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, BUR, 2004, p. 237.
[9]La ginestra, v. 296, in op. cit., p. 239.
[10] La ginestra, vv. 297-306, in op. cit., ibidem.
[11] G. Leopardi, Zibaldone, 76, in E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, la filosofia contemporanea, Milano, BUR, 2004, p. 46.
[12] Cfr. nota 7.
[13] Ivi, p. 45.
[14] E. Severino, Il nulla e la poesia, alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, op. cit., p. 336.
[15] Ivi, p. 338.
[16] Cfr. nota 11.