LA SCRITTURA: COME SOPRAVVIVERE?
Una domanda: perché scriviamo? Perché scriviamo post-it, liste della spesa, diari segreti, riflessioni, annotazioni datate, SMS, iscrizioni rupestri, e-mail, articoli, libri, tavolette di cera, enciclopedie, papiri, pergamene, racconti? Come abbiamo imparato a farlo?
Quest’ultima è una domanda a cui scienza, storia e antropologia possono tranquillamente rispondere, senza l’aiuto della filosofia. Ma il punto è: per quale motivo prendiamo carta e penna – o un computer, uno smartphone – e iniziamo a scrivere? Qual è il significato filosofico più profondo che si nasconde dietro quest’attitudine plurimillenaria?
Per capirci qualcosa, conviene prenderla molto alla lontana. Si sostiene che la scrittura segni l’inizio della storia umana; in effetti, per comprendere l’espressione scritta bisogna anzitutto capire l’uomo. Ad un certo punto, l’essere umano si interroga sulla propria vita e vede che ogni cosa con cui si trova ad avere a che fare rende manifesta la provvisorietà dell’esistenza: i fiori appassiscono, le stagioni mutano, gli uomini invecchiano e muoiono, lasciando un vuoto.
La filosofia nasce, in coda al mito, come tentativo di fornire, a quella manifestazione, un “perché” autentico, più autentico di quello del mito. Il suo fine è quello di spiegare perché le cose nascono e muoiono, perché succedono, perché esistono e finiscono per lasciare quel vuoto, che caratterizza anche l’esistenza di chi si pone queste domande. In qualche modo, quindi, la filosofia, insieme al mito, è un antidoto a quell’eterno mistero: trovare una spiegazione rende prevedibile l’inatteso, rende dominabile l’indomito.
Questa contrapposizione titanica nei confronti dell’inevitabile è una delle preminenti espressioni della “dialettica della sopravvivenza”: vedere la morte, viverla come esperienza ineludibile, vagliare le strade per rifuggirla.
Se si dà conto della morte, in qualche modo le si sopravvive. E come? Qui entra in gioco la scrittura; spesso si parla della primissima riflessione filosofica astraendola dalle sue effettive modalità di espressione, ma così facendo ci situiamo inevitabilmente al di fuori della comprensione del ruolo della scrittura nello sviluppo dell’ossatura concettuale del nostro mondo. Come “si fa” filosofia in Grecia?
Un primo esempio: Eraclito, l’Oscuro. Come gli altri presocratici, il filosofo di Efeso scrive in prosa – altri, tra cui Parmenide, preferirono i versi. Ma l’elemento più interessante per la nostra riflessione, che spiega il perché del riferimento ad Eraclito, è che questo pensatore, ancora legato allo sfondo arcaico della sacralità pre-filosofica, una volta scritto il suo libro, lo deposita all’interno del tempio di Artemide, nella sua città: il contenuto di quella filosofia è più divino che umano, si distacca dalla caducità per tendere all’incorruttibilità dell’eterno. Il libro ha come oggetto preminente quell’anelito alla sopravvivenza, che si dissocia dal mondo della morte incalzante per porsi tra gli astri accesi senza tempo, indifferenti alla precarietà della vita. La parola scritta è la condizione d’esistenza di questo salto, il gesto di Eraclito è la rappresentazione materiale di questa potenzialità della scrittura: testimonianza sempre attuale della verità, che permane, al di là di ogni mutamento.
Il secondo esempio: Socrate, il rifiuto della scrittura. Per quale motivo? Secondo Socrate e secondo Platone – soltanto in linea di principio, in base alle motivazioni e alle condizioni descritte nel mito di Theuth – la scrittura farebbe perdere proprio quell’attualità della testimonianza del vero che la rende “antidoto della morte”. La scrittura significa storia, significa l’atto ormai compiuto dello scorrere del tempo, non può caricarsi sulle spalle il senso della sopravvivenza, che si ritrova piuttosto in un continuo esercizio di ricerca.
Tuttavia, se Platone e Senofonte non avessero scritto quanto Socrate (forse) pensava, non ne staremmo parlando oggi, dopo 2300 anni. La verità – il vero antidoto della morte – si perpetua con la parola scritta, difficilmente in forma orale. In questo senso, la storia ha dato ragione all’Oscuro, con buona pace del Sileno.
Se, dunque, è vero che Socrate e Platone segnano l’ultima vittoria – mutilata – dell’oralità sulla scrittura, è altrettanto vero che quest’ultima entra ben presto a far parte del repertorio indiscutibile dell’Occidente. Il suo carattere intrinseco è la risposta alla caducità dell’uomo: la scrittura è un rimedio alla morte, sì che colui che scrive diventa, in qualche misura, immortale.
Il pensatore che più di tutti si è reso esplicitamente conto di questo grande ed essenziale “sottinteso” della nostra cultura è Jacques Derrida (1930-2004). Il filosofo francese aveva ben presenti le riflessioni di Heidegger sulla morte, che viene ad essere, in ultima analisi, l’essenza della vita dell’uomo. In Derrida, questo fulcro di mortalità è insito in ogni sfera del vivere umano, e l’esistenza è quasi un tentativo di fuggire da se stessi, di prepararsi al proprio destino tentando di evadergli.
La scrittura – che la cultura della seconda metà del XX secolo dava per spacciata, come destinata ad essere sommersa dal tempo – diventerà la chiave di lettura del mondo futuro, questa la previsione di Derrida. E si è avverata… basti pensare all’ingente quantità di materiale scritto che produciamo ogni giorno con i dispositivi elettronici. Sarà scomparso – o in via di estinzione – il libro cartaceo, ma non la scrittura. E questo perché, come aveva ben compreso Derrida, scrivere è un primordiale e vincente gesto per trascendere la mortalità, per superare noi stessi, per sempre.
La riflessione sul senso della parola scritta è così il filo conduttore che ci porta dai presocratici e da Platone fino all’età della televisione e dei big-data. L’attualità è continuamente permeata dai connotati irrinunciabili della nostra umanità, tra cui l’anelito all’immortalità, che si manifesta sotto le vesti – antichissime e modernissime – della scrittura.
Ma facciamo ancora un passo avanti. Maurizio Ferraris propone di correlare la scrittura alla realtà sociale, secondo l’equazione “Oggetto (Sociale) = Atto Iscritto”. La parola scritta, quindi, è l’elemento in grado di trasformare un pezzo di carta in un contratto d’acquisto di una casa, una sedia in un trono, un tavolo in una cattedra, un fiume in un confine nazionale, altri pezzi di carta in banconote… L’accordo interpersonale sul senso che le cose assumono non potrebbe sussistere senza scrittura, proprio perché la realtà sociale è, in primissima istanza, l’insieme di entità che hanno origine da un consenso scritto. La scrittura determina l’esistenza della società come entità intersoggettiva che preesiste agli individui e sopravvive loro.
Ecco dunque il legame tra la concezione arcaica della scrittura, il suo significato intrinseco evidenziato da Derrida e la sua applicabilità allo studio della realtà sociale: la parola scritta determina la società perché la mette in salvo dalla caducità dei singoli, in quanto ipostatizza significati e legami che, senza iscrizioni, morirebbero con chi li intende e pensa. La società trascende l’uomo, così come la scrittura oltrepassa la transitorietà dell’esistenza.
Alla fine, potremmo dire che ogni qualvolta scriviamo ci sentiamo più vivi, o quantomeno meno morti, e questo perché pensiamo di lasciare nel mondo “esterno” una traccia della nostra interiorità, destinata di per sé ad andarsene del tutto, se non lascia tracce.
Questa necessità del “lasciar tracce” è un’esigenza coessenziale alla ricerca della verità: senza l’una, non potrebbe esserci l’altra. Combattiamo, con carta e penna – o con smartphone e Wi-fi – un nemico che è più vicino di quanto pensiamo. Quel nemico è la nostra destinazione finale, la cessazione della presenza e della possibilità di far risuonare la nostra voce: scrivere vuol proprio dire farla sentire al di là di noi, finché c’è tempo, usque in aeternum.
BIBLIOGRAFIA
– “Storia della filosofia antica”, G. Cambiano; Laterza (Bari-Roma), 2004
– “Fedro”, Platone; a cura di P. Pucci e B. Centrone; Laterza (Bari-Roma), 1998
– “Documentalità: perché è necessario lasciar tracce”, Maurizio Ferraris; Laterza (Bari-Roma), 2009
@ILLUS. by PATRICIA MCBEAL, 2020
Disputa sul Nulla
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@GRAFICS by JOHNNY PARADISE SWAGGER, 2020
Cantino ha lasciato un commento contestando in senso lato la sopravvivenza:
LIN>>> https://arenaphilosophika.it/cantino-contro-la-scrittura/