LA TELEVISIONE: GUARDATELA PURE, MA NON ACCENDETELA
Il titolo è una vecchia battuta di Alessandro Bergonzoni, di per sé sufficiente a descrivere l’infelice parabola della televisione italiana nell’anno del suo settantesimo compleanno. Nel 2024, infatti, il piccolo schermo festeggia cifra tonda, proprio come mamma radio, che arriva al glorioso traguardo dei cento anni.
Scrive Marcello Veneziani sul quotidiano La Verità:
Il battesimo ufficiale della radio fu il 6 ottobre 1924, in epoca fascista, l’emittente fu l’unione radiofonica italiana che poi assunse il nome famoso dell’Eiar […]. Il 3 gennaio del 1954, andarono in onda i segnali e gli annunci ufficiali della Rai-tv ma le prime trasmissioni televisive risalgono in realtà al 1939, dopo un decennio di esperimenti. La tv nacque in seno all’Eiar, sotto il regime fascista»[1]. E continua: «Ristabilita la verità storica, di solito omessa per ridicoli motivi di omertà storica e ottusa partigianeria, poniamoci la domanda per eccellenza: qual è il bilancio complessivo che si può fare della televisione, ovvero qual è il segno dell’influenza che ha esercitato sugli italiani, come singoli e come popolo, e sulle istituzioni?[2].
Una domanda rilevante, poiché trabocca dal perimetro del divertissement relativo al giudizio storico di costume per rotocalchi e arriva a problematizzare una questione, nel contempo, culturale, politica e financo antropologica. Sì, perché radio e televisione, oltre a mutare geneticamente linguaggio e comunicazione, hanno davvero contaminato l’antropologia dell’essere umano, stravolgendone le categorie cognitive primarie e imprigionando lo Spirito dentro celle immanenti e materialistiche. La televisione, in particolare, ha ridefinito le modalità cognitive del pensiero attraverso l’effetto congiunto di immagini e simultaneità, due entità che il web ha infine combinatamente radicalizzato.
Infatti, se le immagini anticipano e precludono il reale poiché neutralizzano la possibilità di pensare altrimenti rispetto alla rappresentazione incontrovertibile, la simultaneità ha disarticolato le kantiane categorie a priori di spazio e tempo, entrambe radicate nella distanza, in ciò che non c’è. Tale assenza nondimeno è cifra di humanitas, poiché il soggetto è sempre relazionato con una alterità irriducibile che determina il senso del limite e della misura. Ergo, elidendo tale distanza, appiattendo spazio e tempo entro il perimetro dello schermo, la televisione ha ridisegnato un mondo illusorio di eterno presente e apparentemente illimitato, privo di misura. Il soggetto umano, ipnotizzato da un simile sortilegio postogli davanti agli occhi incantati, ha piano piano dimenticato il reale e si è lasciato progressivamente inghiottire dalle luci sfavillanti di lustrini e montepremi, dimenticando il pensiero antico e spirituale e diventando, in ultima analisi, spettatore della vita.
Sostiene correttamente Veneziani come la storia della televisione, almeno in Italia, possa essere suddivisa in due momenti, coincidenti con le due metà del secolo XX:
nella prima parte la radio-televisione è stata soprattutto un mezzo di promozione popolare e di elevazione di massa, nella seconda parte è stata soprattutto un mezzo di peggioramento e involgarimento dei gusti della massa e dei modelli di vita[3].
Nella sua propria infanzia, dunque, la televisione avrebbe contribuito a forgiare un’identità nazionale comune, nonché a elevare la massa a condizioni diverse. In effetti è così, basti pensare all’eloquente esempio di Non è mai troppo tardi del maestro Alberto Manzi, celebre trasmissione che ha concretamente apportato un impulso decisivo all’alfabetizzazione del Paese. È altrettanto vero, tuttavia, che la massa, ormai a pieno titolo considerabile come un attore sociale, ha cominciato a dimenticare il mondo di prima, quello di sempre, sollecitata da modelli e archetipi nuovi. Intenzionata a dimenticare gli orrori della guerra, l’Italia cominciò a trovare una meritata leggerezza nei quiz, in Carosello, nel Festival di Sanremo, mentre tormentoni e slogan di vario genere cominciarono a diventare così popolari da assurgere infine a stilemi, a grandi classici, a cifre identitarie. Certo, erano tempi diversi, uomini e donne avevano ancora chiaro in mente cosa significasse lavorare duro e ossequiare le feste comandate e la televisione, a propria volta nelle mani di uomini che avevano visto la guerra e la morte, diventò un accessorio un po’ voluttuario e un po’ necessario, ma tutto sommato innocuo, poiché nessuno, in fondo, avrebbe potuto confondere davvero la vita reale con quella al di là dello schermo.
Poi gli anni passarono, gli uomini che avevano fatto la guerra cominciarono a invecchiare, a essere sostituiti da altri uomini. Immagini e simultaneità avevano intanto attecchito e come metastasi avevano cominciato a dilagare in tutto il corpo sociale, ammalandolo. Oltre lo schermo, uomini e donne eleganti lasciarono il posto a eccentrici modelli di consumo, il lessico istruito a espressioni gergali stereotipate, il buon gusto a triviali esempi di ipocrisia. Le trasmissioni cominciano a traboccare di voluttà, di ateismo, di nichilismo e il corpo sociale, già abituato overtonianamente, cominciò a non reagire più, a intiepidirsi davanti alle brutture, finendo in qualche modo per lasciarsi andare. Senza anticorpi di contrasto, la televisione finì per diventare in poco tempo strumento di inganno e di propaganda. Uno strumento affilato e libero di affondare per mancanza di resistenza, preludio a nuovi media ancora più invasivi sopraggiunti a concludere il lavoro.
Il resto è cronaca dei nostri giorni. Un esempio su tutti: annus domini 2022, a poco tempo dallo scoppio del conflitto Russia-Ucraina. Il Tg2, emittente pubblica finanziata con i soldi dei cittadini (!), trasmette immagini dai campi di battaglia, una pioggia di missili da lasciare senza fiato. Il pubblico inorridisce, i social amplificano il rumore mediatico, i quotidiani redigono liste di proscrizione con i nomi di chiunque rivelasse tracce di dissenso rispetto a una narrativa ritenuta ufficiale e incontrovertibile. Quelle immagini, diffuse da un’emittente pubblica (!), avevano tuttavia un piccolo, trascurabile, insignificante particolare: erano false. Erano immagini tratte da un videogioco, War Thunder. Insomma, non resta che dirla con il Gasperino di Alberto Sordi ne Il Marchese del Grillo: «Se tu me freghi qui, me freghi su tutto!».
Così accade, continua a accadere, in ogni palinsesto. La televisione italiana ha finito per diventare l’ufficio stampa del potere, tanto in ambito giornalistico quanto in ambito ludico di intrattenimento. Un’agenzia mirata a estendere e consolidare narrative eterodirette, a sgretolare la verità sotto l’effetto di immagini posticce, a obnubilare ciò che resta del pensiero critico con obliqui giochi di ombre. Più che un compleanno, allora, la televisione italiana merita una veglia funebre. Oppure qualcosa di opposto e di diverso, come una cerimonia in pompa magna dove tutti gli ingannati del Belpaese possano finalmente prendere coscienza dell’impostura perpetrata e perdonare infine le sordide malefatte di coloro che, per insipienza o connivenza o entrambe, hanno votato la propria vita a ingannare le moltitudini. In questo modo sarà possibile ricostruire, ricominciando da un atto di carità. In questo modo la televisione potrebbe diventare strumento di servizio libero e onesto. Non prima, però, di avere rimpiazzato integralmente, senza se e senza ma, sedicenti intellettuali e saltimbanco, cronisti e intrattenitori: quella pletora, insomma, responsabile di quasi mezzo secolo di inganni, vettori dell’abominio della desolazione a reti unificate.
[1] La Verità, 3 gennaio 2024, p. 19.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.