L’ABERRANTE PSICOLOGIA DELLE FOLLE
La folla, abbiamo detto nello studiare le sue caratteristiche fondamentali, è guidata pressoché esclusivamente dall’inconscio. I suoi atti sono molto più influenzati dal midollo spinale che dal cervello. In questo si avvicina agli esseri primitivi
Queste parole furono scritte nel 1895, da Gustave Le Bon, in un’opera tanto iconica quanto attuale: Psicologia delle folle.
La lungimiranza di simili affermazioni, che diagnosticano perfettamente il potenziale distruttivo e ferino delle masse, preconizza il triste destino delle società occidentali all’alba del Novecento. Prima ancora di un’analisi filosofica o sociologica, infatti, l’analisi di Le Bon è la radiografia lucida e intransigente di una nuova entità, la folla appunto, che dalla fine del secolo XVIII cominciò a configurarsi come nuovo attore sociale, condizionando certamente le evoluzioni del pensiero e della cultura, ma penetrando soprattutto, direttamente e indirettamente, nelle meccaniche del potere.
Una trattazione esaustiva intorno a simili questioni richiederebbe una premessa di natura storica, prima ancora di procedere ai singoli argomenti di discussione. I contenuti dell’opera sono molti, ma limitiamoci qui a enuclearne uno, fra i più dirimenti: il confronto tra lògos e pàthos. Attingendo dagli spunti di Le Bon, è possibile asserire come il secondo, non già il lògos, rappresenti il principio cinetico delle folle. Intrinsecamente votate al livellamento, poiché le moltitudini abbisognano di accordi e gli accordi richiedono compromessi che annacquano, per dirla con Stirner, l’unicità individuale; suggestionabili dagli effetti speciali o dalle voci più tonitruanti, poiché nelle moltitudini è possibile udire solamente la voce più stentorea, non già quella più sommessa ancorché più saggia; animate dalla premura di convergere verso qualche risultato e di orientare lo sguardo in una medesima direzione, quasi fissando un’unica e ipotetica uscita di scurezza; ebbene la massa, qualunque massa, non può che fuggire il lògos.
Quest’ultimo è infatti il pensiero, il concetto, la ragione dialogica che abbisogna, per sua stessa natura, di tempo, ascolto, parole giuste, financo solitudine. Il lògos è selettivo, parla a chi ha orecchie per intendere e agli uomini di buona volontà; il pàthos no, è inclusivo, perché per esprimersi deve crollare i confini, neutralizzare le specificità, deve confondere, deve farsi a un tempo universale e particolare. Esso è menzognero poiché blandisce e emoziona, scoperchia le inclinazioni più triviali e intolleranti ma, nel contempo, illude di giustificarle.
Dietro le presunte e cangianti forme delle necessità, consapevole di agitare le tentazioni più ferine, il pàthos è in grado di manipolare anche le intelligenze più insospettabili e apparentemente più forgiate e determinate, le quali finiscono per dimostrarsi niente più che svolazzanti banderuole bianche al vento. Basta toccare le corde giuste, individuare i punti deboli, e il gioco è il fatto; il pàthos si infiltra fino a asfissiare l’anima e l’etica, il pensiero e la saggezza, trascinando l’uomo al rango animale senza nemmeno che le vittime arrivino a accorgersene.
Perché sentirsi esclusi da una simile minaccia è la conferma di esserne un’imbarazzante vittima. Ma per tornare a prendere coscienza di tale rovinoso rischio è necessario fuoriuscire dalle logiche del pàthos e fare finalmente ritorno al lògos, a quella dimora severa ma amorevole e sempre pronta a accogliere che consente il discernimento. Ritornare per ricominciare, insomma. Fuggire gli inganni seducenti della folla e fidarsi soltanto della pudica fermezza della verità.
Del resto è la folla, dunque il pàthos, che ha condannato a morte Gesù, il lògos che si è fatto carne per venire a abitare in mezzo a noi a mostrarci la strada della salvezza.
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