MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ (quarta lezione) IV,1
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LIBERTÀ NON È DIALETTICA
Il tema della quarta lezione di Ontologia della libertà era la Libertà umana; ora, nella terza lezione, Luigi Pareyson s’occupa del Male e della Sofferenza, come promesso dal sottotitolo del libro che stiamo esaminando.
Da uomo di fede qual è, Luigi Pareyson ha speranza. «E la speranza vuol dire la fiducia che il male finirà», dice. In questi giorni di aprile, aprile 2020, ai balconi di qualche casa si vedono appesi striscioni con arcobaleni e scritte speranzose: andrà tutto bene. Proprio oggi, 5 aprile, il vostro Profeta, o Desistenti, ha scritto:
«Andrà tutto bene»
dicono i benpensanti
durante una pandemia.
«Va tutto bene»
dicono i benpensanti
dopo una pandemia.
«Meno male, è andata bene!»
Il perbenismo del male minore
può dichiarare il ritorno alla normalità…
…il male è normale,
basta che sia minore
di quello che uccide troppa gente
troppo in fretta.
«Est modus in malis»
– dice la gente a modo –
«Est modus in mortibus».
Il perbenismo è l’atteggiamento più frequente, specie di fronte alle catastrofi del Male e dei Malanni: il perbenista non ce la fa, a credere che tutto possa andare male; egli è un debole, se la fa sotto, trema… il suo timore diventa tremore, ed è allora che comincia ad accusare i sintomi di un delirium tremens che lo porta a concepire una Ideologia esistenziale ben più perniciosa di quella esistenzialista: l’Ideologia delirante che deve sempre vedere una luce in fondo al tunnel, se no brancola nel buio.
Il perbenista è un benpensante, pensa bene della propria esistenza e dell’Esistenza in sé; egli crede di pensare bene solo perché la maggioranza la pensa così: pensa bene, pensa positivo, e non si chiede se sia poi veramente un bene, pensarla così. Il perbenista benpensante è un fautore del ‘male minore’: egli crede che il giusto mezzo possa salvare persino il Male dalla sua negatività; con Orazio (Satire I, 1, vv. 106-107) il perbenista benpensante è d’accordo: la persona “a modo” è quella che conosce la giusta misura: est modus in rebus, sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum («v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto».)
Così, nel suo delirante delirio ideologico, il perbenista-benpensante-a-modo confeziona una morale del Bene bastarda quanto illegittima: il Male non è poi grave, se si colloca nella normalità del giusto mezzo; vi sono determinati confini al di là e al di qua dei quali il Male può essere veramente Male, ma, nel mezzo, esso è virtuoso, per così dire, persino buono: in medio stat virtus. In situazioni straordinarie, in situazioni di emergenza – come possono essere quelle di un’Epidemia, di una Pandemia et similia – il Male fa notizia perché fa male al punto da essere ritenuto tale; ma, quando la situazione rientra nella normalità, quando cioè il Male resta a quel livello endèmico che lo rende circoscrivibile, allora esso è normale. Il male è normale.
Per il pensiero desistenziale il Male non è mai normale. Il Male non è normale. Non ci si deve abituare al Male, non ci si deve assuefare. Il Profeta crede che sia tutta una questione di assuefazione, di abitudine: il Male fa parte del gioco, se si vive lo si deve mettere in conto; ed è così che avviene la banalizzazione del Male; il Male viene banalizzato e il livello d’allerta scende. Nel 1963 (1964 in Italia) uscì quel bel saggio di Hannah Arendt intitolato La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme (Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil); il 31 maggio 1962 fu impiccato Adolf Eichmann, il gerarca nazista considerato come uno dei maggiori responsabili operativi dell’Olocausto e la Arendt, inviata del settimanale New Yorker, ne descrisse il processo, avvenuto a Gerusalemme. Adolf Eichmann fu un vero e proprio funzionario di Morte, un efficiente burocrate del Male, un uomo che fece della funzionalità lo scopo primario della sua funzione: attuare con efficacia la ‘Soluzione Finale’. Eichmann fu il tipico “impiegato” che obbedisce senza pensare: un elemento di una macchina organizzativa che non deve pensare, non deve chiedersi cosa sta facendo.
Perché occuparsi di Eichmann a proposito del Male? Perché Eichmann poté fare quello che fece unicamente in forza di una qual certa insensibilità, una insensibilità raggiunta forse mediante un accurato processo di anestetizzazione capace di attutire, attenuare eventuali pericolosi rimorsi della coscienza; oppure una insensibilità congenita, magari rinforzata da una indifferenza magistralmente costruita, una noncuranza capace di silenziare qualunque scrupolo di coscienza… Ma qui non importa tanto indagare l’animo di Eichmann, quanto piuttosto riflettere su come il Male, sempre tutt’altro che banale, in qualsiasi quantità o qualità esso si presenti, abbia invece potuto, e possa, diventare un fine che giustifica i mezzi, qualcosa a cui ci si può anche abituare, assuefare, se lo si frequenta spesso, qualcosa che, a forza di conoscerlo, non lo si evita più.
Scandagliando l’etimologia dell’aggettivo «banale» emerge una derivazione dal francese banal prima nel senso di «appartenente al signore» e poi in quello di «comune a tutto il villaggio», donde il significato moderno; insomma, a Hitler, Signore del Nazismo, appartenne il diritto di vita e di morte sugli umani a lui non graditi e questo diritto s’estese a tutto il “villaggio globale”, dalla Germania al mondo intero. La banalità del male è un’estensione indebita, certo, ma la storia ha dimostrato che essa è potuta accadere: Eichmann fu uno dei tanti esecutori di questo diritto indebito, illecito, e lo fu perché il Male che mise al bando il Bene divenne un bando ufficiale del regime nazista, un bando così autorevole da rendere impersonale l’azione che il regime stesso ordinava; facendo il Male al servizio del Signore della Guerra, Hitler, l’esecuzione del Male divenne routine, trantran che a forza di essere ripetuto perse il suo stesso significato. A ben vedere, questa banalità deriva da un’alienazione molto simile a quella di cui tanto s’occupò Karl Marx: l’azione umana viene alienata dall’uomo stesso che la compie; in questo caso, il male compiuto viene alienato nel senso che diventa proprietà del Signore che l’ha ordinato; l’esecutore materiale del reato si sente in qualche modo sollevato dalla responsabilità del male compiuto, come se in ultima analisi la colpa del male compiuto potesse ricadere tutta sul mandante. Non si spiega diversamente, come possa il Male essere banalizzato al punto da poter essere sopportato e persino fatto senza più costituire un problema.
Il Male, anche a piccole dosi, è veleno. Non c’è un Male che possa essere più grande se è “maggiore” e più piccolo se è “minore”: il Male è Male, sempre. Detto ciò, si capirà facilmente dove è andato a parare il vostro Profeta, o desistenti: l’endemicità del Male di Vivere non è un male minore solo perché rientrata nei margini di sicurezza dell’endemia dopo che l’emergenza del male maggiore della Pandemia è terminata. Guai ad abituarsi al Male! Guai a diventare dei funzionari della specie, esecutori insensibili della Volontà di Riprodursi dettata dall’Istinto di Conservazione! Noi umani siamo dei funzionari della specie; questa espressione piace tanto ad Umberto Galimberti ed ha una sua efficacia, effettivamente: come specie, anche quella umana sacrifica ogni singolo Io quando si tratta di servire il Dio della Vita, il Dio che impone la riproduzione come Comandamento insindacabile, irrevocabile, nel Nome della santissima Sopravvivenza. Un ordine non si discute, e l’ordine che la Natura dà quando è ora di riprodursi giunge agli umani con la stessa perentorietà con la quale arriva anche agli animali: quest’ordine non si discute, non si deve discutere, perché viene dall’alto, molto dall’alto. Così, a forza di sentirlo, questo ordine, impellente, pressante, imperioso come nessun altro, lentamente ci abituiamo ad eseguirlo, ci diventa abituale eseguirlo, non metterlo in discussione, non criticarlo: è la stessa dinamica perversa che portò un Eichmann a fare quello che fece. Il Male di Vivere (l’ontalgia) assume i contorni di una normalità necessaria, un male necessario affinché il Sistema, la Macchina, possa continuare ad esistere. La meccanicità del gesto riproduttivo diventa alienante, e La questione della tecnica (Die frage nach der Technik) di Martin Heidegger si rivela ancora molto attuale.
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@ILLUS. by JOHNNY PARADISE SWAGGER, 2020
MEONTOLOGIA DELLA LIBERTÀ – SLIM EDITION
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