METAFISICA COSMOLOGICA: IMMANENZA E RELAZIONE

Estratto da Cosmogenesi dell’esperienza. Il campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze, di Giulio Piatti, Mimesis, Milano-Udine 2021.
Ciò che si è tentato di mettere in luce, all’interno di questa indagine intorno al concetto di campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze, è invece esattamente l’opposto, ovvero l’esigenza, da parte di entrambi gli autori, di pensare la concretezza del mondo attraverso la costruzione di una cosmologia capace di dare consistenza alle relazioni tra i differenti enti che lo abitano. Per fare ciò, ovvero riabilitare un pensiero a tutti gli effetti cosmologico, tanto Bergson quanto Deleuze si sono trovati a fare i conti – si è visto – con il pensiero di Kant, che aveva d’altra parte posto, com’è noto, esplicito divieto alla cosmologia razionale, disciplina che si rivelebbe foriera di un’irrisolvibile serie di paralogismi e antinomie[1] Ciò che Bergson e Deleuze, seppur con modalità differenti, rimproverano al criticismo è – detto con brutale sintesi – la delimitazione della metafisica all’intendimento umano[2] causa della cruciale distinzione della conoscenza possibile dall’in sé noumenico. Con Kant la metafisica si trasforma in una scienza dei limiti, interna al tanto legittimo quanto ristretto campo d’azione del tribunale della ragione. La mossa trascendentale, in un percorso moderno che, a partire da alcune intuizioni cartesiane conduce, dopo la sistemazione organica operata da Kant e non senza inquietudini, sino alla fenomenologia, sembra così aver elevato a suprema istanza filosofica il correlazionismo (lo schema soggetto-oggetto), escludendo dalla dignità della considerazione filosofica tutto quanto non si attagli alla sua forma.
Come ha bene messo in luce Deleuze, una volta individuati gli evidenti limiti del pensiero kantiano, non si tratta tuttavia di attuare un’impossibile passo indietro, quanto di rinnovare quanto di buono si trova nel progetto trascendentale una volta privato del suo punto di avvio “correlazionista”: la posta in gioco è quella, come si è tentato di mostrare nel corso del lavoro, di concepire un empirismo trascendentale completamente desoggettivizzato[3] che renda conto della genesi dell’esperienza come movimento di attualizzazione di un campo impersonale irriducibile alla forma di una coscienza. Non stupisce che Deleuze veda all’origine di questo rinnovamento moderno del motivo trascendentale proprio il primo capitolo di Materia e memoria, all’interno del quale Bergson cerca di impostare una nuova teoria della percezione[4]: dove, se non in un corpo a corpo con la questione percettiva, è possibile disattivare una volta per tutte “il passo di danza correlazionale”[5] senza però sostituirvi, come accade per esempio a Badiou e Meillassoux, un’ontologia matematizzante della contingenza, priva di consistenza cosmologica?[6] Quando Bergson pone all’origine della percezione umana un insieme di immagini a-centrate e a-soggettive che si percepiscono tra loro, egli non sta soltanto scardinando la classica opposizione, nella comprensione del dato percettivo, tra un materialismo atomistico e un idealismo spiritualistico, ma, ben più profondamente, ci mostra come la percezione sia immediatamente un’apertura al cosmo, a un mondo che accompagna e precede l’essere umano.
Detto altrimenti, la percezione è un ponte verso la cosmologia, un’apertura a quel concetto di mondo che Kant aveva perentoriamente dichiarato inconoscibile. La portata radicale delle tesi bergsoniane sulla percezione, per lungo tempo passate inosservate, è quindi essenzialmente cosmologica: non si tratta soltanto, sul solco di Heidegger o Merleau-Ponty, di riportare l’uomo nel mondo, ma anche di comprendere come ogni ente sia innanzitutto un essere-mondo, una rete di relazioni resa visibile da ogni singola percezione. Il piano luminescente delle immagini in sé costituisce una percezione assoluta, cosmica, di cui il soggetto percipiente (e, contestualmente, l’oggetto percepito) fanno parte in ogni momento: non è dunque il soggetto, dotato di raggi noetici, a illuminare il reale, ma questi consiste piuttosto in un principio di oscurità che ritaglia e delimita, a partire da un piano cosmogenetico, il suo campo di percezione. Il sistema percettivo delle immagini diviene così il presupposto cosmologico attraverso cui Bergson allarga ai fenomeni fisici dell’universo, nel quarto capitolo di Materia e memoria, quella durée che aveva prima riservato ai soli stati interiori di un soggetto. La scoperta di una durata universale che, dalla materia sino all’uomo, scorre secondo differenti gradi di contrazione e distensione diviene poi il punto di innesco, come si è tentato di mostrare, per un ulteriore sviluppo cosmologico del pensiero bergsoniano: con L’evoluzione creatrice Bergson può allora oltrepassare esplicitamente il divieto kantiano, elaborando una vera e propria opera di cosmologia nella quale vengono analizzate le linee divergenti che hanno costituito la natura, tutte collegate all’attualizzazione di uno slancio vitale di natura energetica.
Soltanto una serie di contingenze, legate alle alterne fortune del bergsonismo nel corso del Novecento, ha impedito una vera e propria ricezione della cosmologia bergsoniana: già a partire dagli anni Venti cominciano infatti ad affermarsi una serie di correnti filosofiche che, in nome di un ritorno alla costitutiva finitezza dell’esperienza umana, finisce inevitabilmente per circoscrivere le sue indagini all’interiorità del soggetto. Eppure, le radicali tesi del primo capitolo di Materia e memoria non scompaiono affatto dal radar filosofico, ma continuano a riaffiorare ovunque si senta l’esigenza di ritrovare la consistenza del cosmo, superando gli angusti limiti imposti dallo schema correlazionale: pur senza un diretto riferimento a Bergson, l’ipotesi sartriana di un campo trascendentale senza soggetto, in grado di costituire la genesi del rapporto intenzionale della coscienza con il mondo, sembra far emergere, come si è mostrato, un’inquietudine della fenomenologia condivisa anche da Merleau-Ponty, il quale, proprio a partire dalla questione della percezione – e in un progressivo e sempre più intenso confronto con Bergson –, intende elaborare una vera e propria “teoria del mondo”[7] La fenomenologia francese sembra così ritrovare un impulso cosmologico, volto a ridiscutere i suoi presupposti soggettivistici e a riqualificare la nozione di intenzionalità in senso più profondo attraverso il riferimento a un campo impersonale. Ancor più dei loro colleghi fenomenologi, anche Ruyer e Simondon sembrano ritrovare – in toni diversi – un’ispirazione cosmologica: sebbene entrambi non facciano mancare le loro critiche nei confronti del bergsonismo, si è visto come tanto nel “campo preindividuale” simondoniano quanto nella “superficie assoluta” teorizzata da Ruyer vi sia una specificazione e un allargamento di quel sistema cosmologico di immagini teorizzato per la prima volta in Materia e memoria.
È con Deleuze che questa comune filiazione “cosmologica” di una parte della filosofia francese novecentesca diviene esplicita: collegando le riflessioni di Sartre, Merleau-Ponty, Hyppolite, Canguilhem, Ruyer e Simondon a Bergson, Deleuze riapre i giochi della filosofia contemporanea, mostrando la specificità di una compagine filosofica votata al rilancio di un pensiero metafisico-cosmologico. Bergson diventa così, per Deleuze, il primo intercessore moderno di quella pura immanenza stabilita per la prima volta e in modo definitivo da Spinoza: il sistema delle immagini teorizzato in Materia e memoria corrisponde non soltanto a un’originale modalità di ripensare il meccanismo percettivo, quanto anche a un vero e proprio piano di immanenza che distribuisce le differenze entro un orizzonte univoco.
Per Deleuze, un pensiero cosmologico non può che essere un pensiero dell’univocità: l’essere si dice in un solo modo di tutti i suoi enti, i quali non andranno dunque più classificati secondo soglie gerarchiche di partecipazione all’essenza poiché, condividendo tutti la stessa voce, questi si distribuiranno secondo gradienti di intensità e potenza. La cosmologia univoca tratteggiata da Deleuze diviene così, al tempo stesso, un pensiero della relazione[8] e del riposizionamento degli enti all’interno del cosmo: il piano di immanenza è anche un piano di consistenza, un’etologia filosofica (cfr. D-SFP, p. 153) che non esclude dal suo orizzonte alcuna sua differenza individuante. Ciò non significa che Deleuze voglia liquidare una volta per tutte le pretese della soggettività umana: più che una mortifera fine dell’uomo, ciò che egli riconosce, precorrendo i tempi, è la fine di un mondo umano, nel quale homo sapiens occupi il ruolo di centro attrattore[9] Tanto in Mille Piani quanto, del resto, già nell’Evoluzione creatrice, sono presenti le tracce di un nuovo (post)umanesimo cosmologico[10] capace da una parte di rendere porose le soglie che dividono uomini, animali e cose e, dall’altra, di dar conto delle molteplici relazioni (o segni[11]) che costituiscono il mondo. Il pensiero metafisico di Bergson e Deleuze ha così una caratura immediatamente interdisciplinare, volta a riconoscere le relazioni inorganiche, organiche, sociali, tecniche, estetiche, antropologiche[12] e scientifiche prodotte dall’attualizzazione di un univoco piano di immanenza.
[1] Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Riga 17872; tr. it. di P. Chiodi (a cura di), Critica della ragion pura, UTET, Torino 2013, p. 373 (B 461-A 433): “Il mundus intellegibilis altro non è che il concetto universale di un mondo in generale, nel quale si è fatta astrazione di tutte le condizioni dell’intuizione di esso e rispetto a cui, quindi, non si rende possibile alcuna proposizione sintetica, né affermativa né negativa”. Kant riabilita tuttavia, com’è noto, le idee cosmologiche in senso regolativo (cfr. ivi, p. 424, B 536-A 508).
[2] Cfr. P. Montebello, Métaphysiques cosmomorphes, cit. p. 20.
[3] 5 Cfr. R. Ronchi, Il canone minore, cit., p. 56.
[4] Non è un caso che in Differenza e ripetizione Deleuze si confronti con le “Anticipazioni della percezione” della Critica della ragion pura (cfr. D-DR, p. 299).
[5] Q. Meillassoux, op. cit., p. 14.
[6] 8 Cfr. P. Montebello, Métaphysiques cosmomorphes, cit. pp. 31-49.
[7] 9 Cfr. M. Merleau-Ponty, L’unione dell’anima e del corpo, cit., p. 115.
[8] 10 Per lo stretto rapporto di interconnessione tra la nozione di univocità e quella di relazione nel pensiero bergsoniano, cfr. P. Montebello, L’autre métaphysique, cit., pp. 194-261. Per un’analisi generale di tale concetto, cfr. Id., Métaphysiques cosmomorphes, cit., pp. 87-98.
[9] Cfr. ivi, pp. 49-65.
[10] In questo senso si potrebbero forse avvicinare le riflessioni di Deleuze e Bergson ai dibattiti sorti recentemente intorno al postumano (cfr. C. Wolfe, What is Posthumanism, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009; cfr. anche G. Leghissa, Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, Mimesis, Milano- Udine 2015). Più complessa pare invece l’assimilazione dell’umanismo cosmologico bergsoniano e deleuziano alle ipotesi avanzate dai sostenitori del cosiddetto anthropocenic turn, secondo cui siamo entrati, con la rivoluzione industriale, in una nuova era geologica nella quale l’attività umana è diventata la principale causa delle trasformazioni del pianeta Terra (per una panoramica, cfr. S. Baranzoni, A. Lucci, P. Vignola, L’Antropocene: fine, medium o sintomo dell’uomo?, in “Lo Sguardo”, n. 22, 2017, pp. 5-9). Secondo Pierre Montebello, l’ipotesi dell’antropocene ricade nello stesso umanesimo che vorrebbe denunciare, trasformando l’uomo in una sorta di Prometeo rovesciato (P. Montebello, Métaphysiques cosmomorphes, cit., p. 15). La caratura apocalittica di tali teorie, tale per cui l’antropocene arriva in fondo a coincidere con un “tanatocene” (cfr. C. Bonneuil, J.B. Fressoz, L’événement anthropocène, Seuil, Paris 2013) sembra insomma agli antipodi rispetto alle riflessioni qui presentate.
[11] In questo senso, secondo Deleuze, i segni di cui è disseminata la Recherche proustiana non costituiscono dei semplici simboli, quanto “la materia di questo o quel mondo” (D-MP, p. 6).
[12] Un’interessante applicazione della cosmologia deleuziana a questioni antropologiche, legate allo sudio del pensiero amerindiano, è stata recentemente proposta da Eduardo Viveiros de Castro (cfr. Id., E. Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibles, PUF, Paris 2009; tr. it. di M. Galzinga e L. Liberale, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, ombre corte, Verona 2017)
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