MOSTRO SCACCIA MOSTRO

Per una singolare alleanza di tempi e per una sincronizzazione inaspettata e insperata, un ritorno benaugurale e apotropaico si sta imponendo nel variegato panorama social: Amabie. Pescata dal cinguettare assordante di Twitter, questa creatura simil sirenica, dalla folta capigliatura d’alghe, il muso d’uccello e tripode, si sta imponendo in tutta la sua forza magica. Un ritorno di fiamma, benché la creatura sia marina, di una leggenda che affonda le sua radici in quel mare magnum che è il folklore giapponese. Difatti si narra che nel lontano Cipango, lungo le coste del Kyushu, intorno al 1846, sia apparsa una figura misteriosa e mostruosa – assimilabile agli yōkai della tradizione nipponica – e che tale avvenimento extra-ordinario sia stato riportato da un “giornale” locale e che l’articolo descrivente la creatura abbia attribuito la scoperta ad un oscuro «unnamed officer of the law». Inoltre, tale Amabie, si dice, abbia parlato all’uomo e che abbia annunciato un messaggio tanto ferale, quanto speranzoso: «Should an epidemic come, draw me and show me to the people». Ciò detto, «it sank beneath the waves, never to be seen again» (le citazioni in inglese sono tratte da: Matt Alt, From Japan, a Mascot for the the Pandemic, New Yorker, 9 aprile 2020).
Come immaginabile, Amabie sta diventando virale: viralità per sconfiggere viralità. È proprio vero. Per sconfiggere un mostro ci serve un altro mostro.
Tuttavia, questo fenomeno ci permette di sviluppare alcune considerazioni: innanzitutto sul concetto di ritorno e, a stretto giro di posta, su quello di mostro. È proprio dei mostri ritornare, ciclicamente e immancabilmente. Presumibilmente evoluti, differenti, declinati, i mostri prima o poi – ma quasi sempre prima che poi – bussano alla nostra porta. E lo fanno inaspettatamente. Provenienti da un altro orizzonte di senso (ctonio, talassico o empireo) si fanno portatori di un messaggio che lasciano all’uomo con la loro presenza indigesta e inquietante. Diventano il messaggio che incarnano, oltre la forma e le forme, al di là del tempo e dei media: minaccia, speranza, salvezza e morte, l’intreccio concettuale trova consistenza nell’evanescenza mostruosa.
Perché non solo sempre ritornano, ma anche sempre scappano, si immergono, svaniscono: la latenza è il campo magnetico della loro presenza. Mai presenti se in presenza, ma presenti quanto la presenza latita in uno stato di latenza, il mostro è sempre in agguato, pronto a colpirci o a benedirci (ma la benedizione di Ambie sottende la presenza della maledizione: l’epidemia). Sempre contraddittorio eppur perfettamente logico (contraddizione endogena alla logica stessa), nel(l’im)perfetto equilibrio metastabile della disparazione dislivellante, il mostro appare, ritorna sulla scena per poi sparire.
Simulacri. Sono i simulacri del mostro, feticci de-capitalizzati, ridotti alla tabernacolarità infeltrita di apotropaiche ritualità a tornare di moda, pescati dalla rete di quel Global Net. D’altro canto, non è forse stato lo stesso Amabie a ingiungerci di collocare le sue effigi in caso di epidemie? Eppure sembra, benché in ottemperanza ai desiderata della creatura, di tradire quell’immersione misteriosa dell’ancora più enigmatica apparizione profetica. Forse perché è un por termine a quella dialettica antica quanto l’uomo, a quell’agone per nulla erotetico, ma decisamente erotico, che ci vede impegnati nella raccolta e nella caccia e nella successiva celebrazione della creatura affrontata e sconfitta. È la cattura, la cattura dell’immagine in un iconico simul, sostituto plenipotenziario, luogotenente familiare.
Eternamente imbrigliato, il corpo evanescente svanisce materializzandosi nell’amuleto: travaso energetico, di mistica magia a proteggere la soglia, sperabilmente invalicabile, delle nostre abitazioni. Una ricaduta politeista contrapposta ad un redivivo teismo. Idolatri della scienza, ci affidiamo e chiediamo la grazia, nell’attesa della sua venuta – della risposta definitiva: scientia locuta, causa finita. D’altra parte, memori della sua imperfezione, invochiamo l’aiuto di un Dio superiore, di cui ci ri-cordiamo all’occorrenza, autentico Deus ex machina: Dio non è forse il salvatore?
E in mezzo il mostro sta, a offrirci il suo contributo alla causa; “fate diventare virale la mia immagine”: solo un mostro può sconfiggere, come si è detto, quel mostro di coronavirus. Però del mostro non è rimasto nulla, se non quell’involucro che è il confezionamento dell’idea. Ora il mostro non scappa più e costretto alla presenza non può più rituffarsi in mare nella latenza svanente della sua immagine: l’immagine gira, postata e ripostata, taggata e ashtaggata, si riproduce, seria(l)mente. La forza dell’ingiunzione, del grido della creatura è naufragata assieme all’impossibile sua partenza, alla sua sparizione tra i marosi procellosi. Ridotta alla presenza, la potenza solare squaglia le squame di Amabie nell’orgia della riproduzione. Ma per essenza il mostro è singolare, originario: visto da pochi, nell’ombra o negli abissi, al limitar di Dite del consorzio umano. Patologia del mostro: antropizzazione coatta.
Si tratta di de-instanzializzare l’istanza della creatura, che ha annunciato e se ne è andata, nella presunzione del possesso del potere. Per essere potenza il mostro deve potenzializzare la propria individuazione, lasciare una prolificità di individualizzazioni (il cosiddetto «teatro d’individuazioni» simondoniano) che non può essere assorbita dalla singola icona. Racchiusa e spartita la potenza, incanalata nella pluralità feticistica, l’attualizzazione si esaurisce nelle attualità e il mostro giunge ad abitare lo spazio di una Geisterwelt, di un mondo demonologico di spiriti, poli-teista (ma forse teista è troppo) e poligamico (cfr. «la poligamia dei saperi» propugnata da Sisto in Narrare la morte). Spar(t)izione del mostro che questa volta, cacciato benché benefico, davvero non torna più.
Per la citazione del concetto simondoniano di «teatro d’individuazioni» cfr. la traduzione italiana tradotta e curata da Giovanni Carrozzini di Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, voll. II, Mimesis, Milano-Udine, 2011.
Il titolo completo del lavoro di Davide Sisto è Narrare la morte. Dal romanticismo al post-humano, Edizioni ETS, Pisa, 2013.
Per leggere tutti gli articoli della serie eccezionale Crisi coronavirus clicca qui.
Si ringrazia per l’illustrazione in evidenza Fratuk. Di seguito i link per il profilo instragram e la pagina facebook dell’artista.
Si ringraziano Tomomi Onishi, professoressa di Italiano ad Osaka e Carla Forno, Direttrice della Fondazione Centro di Studi Alfieriani (profilo instragram e pagina facebook) per avermi segnalato l’articolo di Matt Alt sul New Yorker.
@ILLUS. by, FRATUK, 2020
CRISI CORONAVIRUS
Vai all’indice LINK>>>
@GRAPHICS by MAGUDA FLAZZIDE, 2020
«…non solo sempre ritornano, ma anche sempre scappano, si immergono, svaniscono: la latenza è il campo magnetico della loro presenza. Mai presenti se in presenza, ma presenti quanto la presenza latita in uno stato di latenza…».
Mi viene in mente la Verità “secondo Martin Heidegger”: ciò che si mostra; è mostruosa, la Verità, la Verità ontologica che si mostra fenomenicamente, è mostruosa specie se si mostra ‘sotto le specie’ degli esseri umani.
MONSTRUM, I, (n.):
avvertimento divino, quindi
1. portento, prodigio, miracolo.
2. mostro, essere mostruoso.
3. atto mostruoso, nefandezza.
4. cosa incredibile, meravigliosa.
[cf. mŏnĕo].
Il monito mostruoso del mŏnĕo, es, ŭi, ĭtum, ēre, (2 tr.) è quello che DEXISTENS ripete ormai da tempo ammonendo: scacciate i mostri dell’Essere! Non mostrate mai più la mostruosità dell’esistenza!
Buongiorno professor Cantino, la ringrazio per il commento!
Vero, un certo senso heideggeriano è presente nella mia analisi del concetto di mostro.
Tuttavia il senso ne va rovesciato: non è la presenza dell’assenza (nel tentativo heideggeriano di oltrepassaamento della metafisica della presenza), ma l’assenza della presenza che è la presenza latente e virtuale, per estensione, della morte. Perché il mostro (non) c’è mai…
Cordialmente
SV