NIETZSCHE E L’AUTOBIOGRAFIA COME AUTODISCIPLINA
L’autobiografia non può essere semplicemente inserita nell’elenco delle opere di un autore. È, difatti, in grado di gettare luce chiarificatrice non solamente sulla vita dello scrittore stesso, così come ci è stata raccontata, ma, proprio per come ci è stata raccontata, ha la facoltà di far rilucere quel messaggio nascosto che l’autore ha voluto lasciare alla posterità: essa, così intesa, assurgerebbe al ruolo non esclusivamente testamentario (non si tratta solamente, in alcuni casi non si tratta affatto, di un testamento spirituale), ma eminentemente di operazione filosofico-pratica. Leggendo l’Ecce Homo di Nietzsche tale considerazione si consolida sempre più, tanto da assumere una sua, peculiare, consistenza.
Una autobiografia fallita, come ebbe a definirla George Bataille («situata nella prospettiva dell’azione, l’opera di Nietzsche è un aborto – dei più impossibili a difendersi -.»[1]), un’autobiografia non canonica, nella quale non vengono ricordati avvenimenti significativi della vita dell’autore, non si trovano narrati episodi dell’infanzia o della gioventù. Sorprende la quasi totale assenza di indicazioni temporali (date, ad esempio), mentre sono decisamente maggiori le notazioni geografiche. Assai frequenti, invece, le invettive contro lo spirito rammollito dei tedeschi, spirito corruttore e debole, che corrompe per la sua debolezza; spirito contaminato dall’istinto idealista e definitivamente depravato dalla morale cristiana. In quest’ottica, l’autobiografia funge da strumento importantissimo di autopresentazione da parte del filosofo: “io, Nietzsche, osteggiato in ogni dove, anzi, completamente obliato, nemo propheta, rispondo al mondo intero caricando la dose, calcando la mano, autocelebrandomi, facendo dell’indifferenza altrui la più importante arma per potermi confermare come Unheimlich, come perturbante, come spaventevole spettro che incute timore: «io sono una nuance»[2]”.
Leggendo Ecce Homo vengono spontanee alcune domande. Quella che più colpisce è la sua dimensione aletica: può essere vera una autobiografia? E se sì, quanto? Ci può essere, cioè, una scala di verità, una differenza quantitativa (tutto, un poco, niente) e qualitativa (cose belle, brutte, moralmente accettabili o riprovevoli)? E se l’autobiografia fosse irrimediabilmente falsa perché falsata dal narratore che l’ha ideata con un preciso scopo? Falsata dai tempi, dalla necessità di adeguazione a un modello stereotipico? Forse, l’unica risposta possibile è il porsi proprio queste domande. Magra consolazione: rispondere a una domanda con una domanda è pur sempre meglio dell’afasia più totale.
Se ci pensiamo, in effetti, l’autobiografia è strutturalmente elusiva: a conti fatti è sempre un po’ più che vera e un po’ più che falsa: un po’ più che vera perché narra la verità (se la narra) del fatto che è accertabile, ma espone sempre anche la verità, si può dire, tutta del narratore del vissuto-di-quel-fatto e, proprio per questo motivo, è altresì un po’ meno che vera; un po’ più che falsa d’altra parte, in quanto racconta sì fatti avvenuti, sebbene non perfettamente aderenti a una ricostruzione cronachistica; sfasamento, questo, causato tanto dalla natura stessa del racconto del vissuto, quanto dalla necessità di essere uniformata ad un modello riconosciuto, grazie al quale far riconoscere la sua stessa verità. Di conseguenza, l’autobiografia si trova a essere, al contempo, sempre un po’ meno che falsa perché, paradossalmente, ogni dissimulazione è, in un certo senso, vera in quanto la dissimulazione è tanto più efficace quanto più riesce a raggiungere gli obiettivi celandoli, confermandosi ontologicamente in qualità di dissimulazione.
Da questi intrecci risulta come l’autobiografia sia in sé impossibile perché sempre indecidibile, sempre al limite, sulla soglia tra il vero e il falso, sempre in bilico tra l’onestà e la dissimulazione, sempre pendente tra la libertà e la sudditanza dell’adeguazione stereotipica. L’autobiografia è la nuance. Basti pensare a ciò che Nietzsche afferma dell’autobiografia (e della biografia) ne Genealogia della morale: «quale uomo avveduto scriverebbe ancora oggi una parola onesta su di sé?»[3]. Non credo che si possa, né si debba, a dir la verità, tentare di sciogliere il labirinto dei testi nietzscheani; la loro magia, la loro forza è la loro difficile intelligibilità, la difficoltà inerente a una chiara comprensione, ad una visione serena di ciò che si è letto. Ecce Homo, certamente, venne scritto in un periodo molto “particolare” della vita del pensatore tedesco: scritto tra l’estate e l’autunno del 1888, ultimo scritto prima del definitivo crollo psicologico decisivo (le ultime lettere risalgono ai primi giorni di gennaio 1889, tra l’1 e il 3), risente, molto probabilmente, dell’imminente follia, dell’oscurità di un pensiero che corre a velocità irraggiungibili.
Tuttavia, si può notare una certa continuità tra questo testo e altri della sua ponderosa produzione; un solo indizio: la Prefazione intitolata Tentativo di autocritica, scritta proprio nel fantomatico 1888, alla sua prima opera La nascita della tragedia. Sintetizzando, in questo scritto, assai critico nei confronti della sua prima opera di rilievo, vengono presentati, almeno nel loro nucleo centrale, alcuni elementi che caratterizzeranno la sua autobiografia, quali, per esempio, importanza del fallimento, avversione alla falsa sicurezza e accortezza, identificazione della vera consolazione solo nel riso. Queste tematiche sono, altresì, presenti anche in altri testi nietzscheani, a riprova del fatto che l’Ecce Homo può essere considerato una genuina e sincera autobiografia, frutto di un intenso lavorio su se stesso e non un semplicistico adeguamento a cliché riconosciuti da tutti e da tutti pretesi. Ciò nonostante, sempre tenendo a mente quanto citato in precedenza (sull’impossibilità per l’uomo avveduto di scrivere sinceramente qualcosa su di sé), si può approdare a una considerazione assolutamente problematica della biografia: in quanto bio-grafia, essa presenta la nostra vita e illumina il nostro essere, intenzionata, in un certo modo, a scoprire la verità di se stessi; ma, si chiede lucidamente Nietzsche: «che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal fatto che in noi codesta volontà di verità sarebbe diventata cosciente a se stessa come problema?»[4].
Nietzsche sente probabilmente questa impossibilità e questa irriducibilità, presentando, così, l’intera operazione autobiografica come un vero esercizio spirituale la cui verità ultima trascende il lascito scritto: l’autobiografia è autodisciplina.
[1] G. Bataille, Su Nietzsche, Se, Milano 2006, p. 28.
[2] F. Nietzsche, Ecce Homo, Adelphi, Milano 1981, p. 124.
[3] F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 1984, p. 133.
[4] Ivi, p. 156.