PICCOLE DIVAGAZIONI NON SCIENTIFICHE: KITARŌ NISHIDA E NOI
Una delle questioni più spinose da affrontare quando ci si accosta ad un pensatore estraneo al nostro retroterra culturale è il saper tracciare una linea di demarcazione tra noi, che lo leggiamo, e lui che viene letto. Qual è il “tasso di proiezione” della nostra lettura? Quando influiscono i nostri pregiudizi – positivi o negativi che siano – nella valutazione complessiva che ne emerge? In quale misura il giudizio è influenzato dalla nostra conoscenza pregressa? Se queste domande sono e devono essere presenti anche se l’oggetto del nostro studio è più prossimo per storia, geografia e cultura a noi, tanto più lo devono essere se decidiamo di affrontare un pensiero altro. A tal riguardo, l’aprirsi alla cultura nipponica mostra, forse più che in qualsiasi altro caso, la necessità di porsi tali domande. Perché in fondo noi tutti siamo, almeno un po’, giapponesi, e lo siamo dall’età meno sospetta, ma più fondamentale per la costituzione del nostro sistema valoriale: l’infanzia. I nostri primi contatti con il mondo del Sol Levante affondano nei meandri dei nostri ricordi di bambini, quando si usciva da scuola e si correva a casa per non perderei la nuova puntata del nostro cartone animato preferito. Tutto questo, e con esso il sistema valoriale che in un modo o nell’altro abbiamo interiorizzato, ha contribuito a plasmare un’immagine, certamente parziale e stereotipata, ma non per questo meno vera.
Con il crescere, chi è rimasto affascinato da quel mondo fantastico incontrato nella prima fanciullezza avrà maturato la volontà di mettere alla prova quanto inizialmente appreso, decidendo così di dedicarsi alla lettura di libri o di qualsiasi altro prodotto elaborato da quella cultura: allargando le proprie conoscenze quel paradigma iniziale si vedrà rinforzato, a volte ridimensionato o financo ribaltato. Un ulteriore passo in avanti è stato compiuto: l’immagine è stata plasmata, ridefinita e dettagliata.
Una tazza di tè. Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. “È ricolma. Non ce n’entra più!” “Come questa tazza,” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”
Quanto riportato da Sanzaki e Reps in 101 storie zen inquadra alla perfezione la questione. Sappiamo perfettamente che il professorone è in fallo, che il suo non è stato un vero e autentico aprirsi all’altro, all’altra cultura, ma che è stato più un voler vedere confermate le proprie congetture. Il maestro zen Nan-in ha ragione, senza dubbio. Eppure non si può non simpatizzare per il povero prof preso a sberleffi. Noi siamo i nostri pregiudizi – l’importante che non divengano pregiudiziali; siamo il nostro bagaglio di nozioni, immagini e valori – e con esso valutiamo il mondo.
Per queste motivazioni quando si leggono le opere di un grande filosofo come Kitarō Nishida (1870-1945) questi interrogativi esplodono fragorosamente. Ha ragione il professor Ghilardi nell’affermare che i problemi che la filosofia Occidentale si è posta non solo non sono sovrapponibili a quelli Orientali, ma, a conti fatti, proprio diversi e che sarebbe un errore considerare il pensiero Orientale una soluzione a dilemmi, strettamente filosofici o presunti tali, “nostrani”. Ma non si può negare che la nostra mente è ben più capiente di quella tazza di tè: fare tabula rasa potrebbe rilevarsi una controindicazione. Nishida stesso ha operato diversamente. Ha provato a sviluppare una sintesi delle due tradizioni nella formulazione di una riflessione originale che non perdesse di vista il punto di partenza. L’andata – da Occidente a Oriente – è stata feconda; il ritorno, a quanto ne so, meno. In queste brevi divagazioni non scientifiche proverò a tastare il terreno per alcuni possibili ritorni – da Oriente a Occidente.
Tre sono le dinamiche fondamentali che possiamo fare nostre, così da integrarle nella formulazione dei vari sistemi di pensiero. Il loro apporto è di un genuino sprone a testare la tenuta delle argomentazioni in vista di una sintesi filosofica delle rispettive istanze, senza che queste ultime perdano lo spessore originario.
1) La necessità di una logica che renda ragione della dinamicità del reale. Una logica che sappia riscoprire quel senso di vitalità energetica che permea il reale. Beninteso, non si tratta di fornire intuizioni o suggestioni – come spesso accade con pensatori profondissimi del calibro di Deleuze, che all’altare dello stile sacrificano le argomentazioni – bensì un apparato logico rigoroso, per quanto eccentrico rispetto al nostro canone. Un esempio lo si può riscontrare nella cosiddetta logica del soku, dell’oppure, intesa come compresenza intrecciata degli opposti che trovano tridimensionalità all’interno di questo intreccio. L’uno non è tale perché unificazione dei molti e i molti non sono la semplice pluralizzazione dell’uno perché è l’uno stesso ad essere i molti, così come i molti ad essere uno: «[t]o speak of unity is not merely to say that many things become one; it is necessarily to say the many are one, and the one is many» (K. Nishida, Ontology of production, trad. ingl. di W. Haver, p. 66).
2) Una rinnovata attenzione all’individualità. Diretta conseguenza del primo punto e questione decisamente spinosa, se si pensa al fatto che l’individualità in senso forte – l’affermarsi di un “io” autonomo e indipendente – è una illusione per il pensiero Orientale, informato dal buddhismo. Eppure Nishida ci ha lasciato una prorompente poesia che sembra contraddire l’illusorietà dell’io (cito nella traduzione di Ghilardi):
Gli altri sono gli altri
Io sono io
Ad ogni modo
Io vado per la via
per la quale io vado
Come leggere tutto ciò? Provo a fornire una spiegazione prendendo spunto dal manga Kasane, di Matsuura Daruma. La protagonista, Kasane, ha il potere di rubare il volto delle persone. Così facendo, e combinando le sue immense doti attoriali, riesce a diventare, letteralmente, la persona a cui ha sottratto il volto, coronando il suo sogno di essere attrice professionista, che a causa di una malformazione al viso le sarebbe stato precluso. Vive mille identità da attrice e incarna chi non è nella sua quotidianità, identificandosi di volta in volta con il volto di un’altra. Eppure, quanto più diviene un’altra persona, tanto più diviene Kasane, in modo così prominente da essere riconosciuta e, quasi, smascherata. È come se più si particolarizzasse nelle mille vite vissute, più si universalizzasse in qualità di Kasane. Questo,forse, significa la poesia di Nishida: più sì è universali, più si è particolari; più si è quell’io particolare, più sì è universali perché trasversali. In fondo, non riconosciamo forse lo stile peculiare di un artista proprio in opere non prodotte da quell’artista?
3) La storia come storicità del reale. Nei Problemi fondamentali della filosofia (trad. it. di E. Fongaro), Nishida afferma che «chiunque ha una biografia». Considerazione a tutta prima piuttosto banale ma che, se letta alla luce dei punti 1 e 2, presenta una dirompenza enorme per le nostre ontologie. Si avvicina certo alla storicità esistenzialista, di cui è risaputo l’interesse ermeneutico antiontologico dei suoi interpreti, specialmente francesi (per i tedeschi Jaspers e Heidegger il discorso si discosta notevolmente), non perdendo, però, quello spessore filosofico connaturato all’assegnazione della centralità della logica come moto del reale stesso. Si può affermare che per il filosofo nipponico avere una biografia significhi essere una biografia, essere un fenomeno vivente che a partire dal presente – categoria fondamentale per l’intero pensiero Orientale – si estende nelle direzioni contrapposte di passato e futuro, del comprensibile di diritto e dell’incomprensibile di fatto. Avere una biografia è quindi essere tridimensionale, è essere quello spessore che impedisce di fluidificare nel flusso continuo dello scorrere impetuoso l’individuo che verrebbe, così, meno. Avere una biografia è essere plastico, è essere quella plasticità che fa sì che ci si riconosca grazie allo scorrere temporale.
Ecco alcune suggestioni, piccole divagazioni non scientifiche che richiedono di essere formalizzate e vagliate da approfonditi studi, questi sì a carattere scientifico. Ho voluto però mettere in luce alcuni tratti del pensiero di Kitarō Nishida che affrontano tematiche universalmente filosofiche e che, grazie alla peculiarità della loro formazione, sono integrabili nel nostro universo di pensiero. Non si tratta di considerarle dei correttivi o dei dispositivi utili all’emendazione di “bug argomentativi”, ma una ulteriore fonte dalla quale attingere l’acqua di un’eterna problematica: perché l’ordine e non il caos?
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