POSTILLA (NON) CONCLUSIVA ALLA CRISI CORONAVIRUS
Trovarsi nella necessità di ripartire apre a scenari imprevedibili. Riprendere le attività nell’orizzonte della possibile incombenza è l’esposizione del nostro tempo, il rischio in questa epoca coronavirus.
Questa breve Postilla (non) conclusiva alla crisi coronavirus è nata dalla constatazione del fatto che i tempi hanno accelerato la loro corsa. La conclusione è sempre un nuovo inizio, l’apocalisse è stata scongiurata e la rinascita si fa esigenza insopprimibile: siamo alle porte di una nuova realtà, e siamo coinvolti in questa epocale trasformazione.
IMPAREREMO QUALCOSA DA QUESTA PANDEMIA?
Siamo ad un bivio: tutto ciò che in questi mesi abbiamo vissuto e che molto presumibilmente vivremo nei prossimi ci ha reso più consapevoli, altruisti, responsabili – in una parola, migliori (Sloterdijk), opppure siamo diventati più aggressivi, cinici e diffidenti – in sintesi, peggiori di prima (Houellebecque)? La disgiunzione di fronte alla quale ci troviamo è conseguenza dell’indecisione (e forse ancor di più dell’indecidibilità) dei tempi: cosa ha dimostrato questa pandemia?
Nulla. E non è pessimismo il mio. Non ha dimostrato nulla perché la dimostrazione richiede consapevolezza e possesso; consapevolezza del possesso, del possedere lo sviluppo logico degli avvenimenti; consapevolezza delle conseguenze, per quanto nefaste esse possano essere. La pandemia ci ha colpito all’improvviso e la si è decretata tale solo una volta insorta, solo dopo che la pallina dei contagi ha iniziato la sua folle corsa sul piano inclinato della propagazione dell’infezione. Non ci ha dimostrato nulla. E non avrebbe potuto farlo.
Questo, però, è un invito a pensare a cosa ci abbia mostrato, a quale realtà alternativa ci abbia spinto a immaginare. È l’Evento che si mostra, che mostra una direzione insaputa; è l’Apertura dell’impensato e dell’impensabile, lo scossone che fa crollare le fondamenta. Ci ha mostrato la velocità del tempo, che come scheggia impazzita si è fermata (Paul Virilio), rapido immobilismo di un’Eternità dis-umana. La quarantena ha costretto miliardi di persone al (non) scorrere del tempo, perfettamente frazionato dagli impegni quotidiani: scuola, lavoro, sport, tempo libero (che occupa pur sempre tempo!). Abbiam provato il peso del vuoto (dell’Eternità: i vivi non possono reggere l’Eterno; il piccolo scotto da pagare per essere-vivi…): l’uguaglianza di tutti i giorni.
Per questo ci chiediamo cosa ci abbia insegnato questa pandemia. Non lo abbiamo ancora appreso; forse, chissà?, domani o dopodomani, impareremo quanto abbiamo appreso oggi, all’epoca della crisi coronavirus…
UN’EPOCA IMPENSABILE
Quando l’epidemia è scoppiata in Cina qui, in Italia, la notizia è passata quasi sotto traccia. Mi ricordo di averne sentito menzione in un servizio di un telegiornale serale senza, come penso molti di noi, dargliene troppo peso. La Cina è lontana, dall’altra parte del mondo; eravamo sicuri o semplicemente speranzosi – forse in fondo in fondo timorosi – che mai sarebbe giunto ad impattare nelle nostre vite, che mai avrebbe colmato quella distanza, presuntamente incolmabile, tra Italia e Cina. Eppure…
Straniti; penso che buona parte di noi si sia sentita e si stia sentendo, tutt’oggi, stranita. Disorientati; posti di fronte ad una minaccia che trascende ogni limite umano, ogni conoscenza scientifica, ogni competenza medica. Esposti; all’ignoto, ad un virus nuovo, insidia invisibile, emerso non si sa come, né quando, né dove. Assediati; non solo dal cosiddetto Covid-19, ma dalle informazioni, dalla profusione di informazioni spesso incontrollate, felicemente contrastanti e contraddittorie, teologicamente ubique (spero che a nessuno sia mai capitata la sventura di trovarsi a fare zapping…). Barricati; costretti ad una quarantena la cui tragicità e impensabilità ci porta a fare la spola tra le vite salvate e le attività morte, o agonizzanti.
Già, la quarantena; un periodo quasi inassimilabile, ovattato, senza macchine, senza il suono della laboriosità dei lavoratori, senza il chiacchierare del gesto nobile della spesa quotidiana. Un tempo sospeso, interrotto da quei bisogni primari e dalla necessità di evadere da quell’isolamento nucleare. Un tempo senza lo scorrere del tempo nell’uguaglianza dei giorni, serialmente ripetuti. Dalla fine dell’inverno a primavera inoltrata ci siamo fatti da parte, messi in un cantuccio, nella nostra tana, ricercando quell’etica (etimologicamente etica significa tana!) della responsabilità per poter portare quella sicurezza domestica, quarantenale per così dire, al di fuori, in piazza, tra la gente. Per non ricadere più, per non ricaderci più.
A pensarci bene, chi ci avrebbe pensato? Chi mai avrebbe pensato ad una situazione simile? Chi mai avrebbe immaginato che quel virus, nuovo e sconosciuto, sarebbe arrivato fin da noi? Forse proprio perché nuovo e sconosciuto, impensabile…
Ma a pensarci, ora, immersi in quest’epoca coronavirus, non si riesce a pensarsi; ci dà da pensare, impensabile, questa epoca impensabile del coronavirus.
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