IL SENSO DELL’ANELLO: ONTOLOGIA DEL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Recensione di Roberto Celada Ballanti, La parabola dei tre anelli. Migrazioni e metamorfosi di un racconto tra Oriente e Occidente, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017.
Lutto. Si tratta di lutto. E di come elaborarlo. In questa ricerca il professore Celada Ballanti esplora una tra le dinamiche più complesse e delicate della nostra contemporaneità: la possibilità, anzi la necessità, di un profondo, proficuo e fecondo dialogo tra le religioni del Libro, l’Ebraismo, il Cristianesimo, l’Islam. E si impegna a trovarne i fondamenti teoretici, le condizioni di possibilità, raccontando storie, o meglio, una sola storia, una sola grande storia, narrata e rinarrata, metamorficamente, geo-storicamente traslata, che ha accomunato, e che accomuna, si spera accomunerà, quei tre mondi, quei tre multi-versi in cerca di convergenza.
Questo libro è il racconto di una storia, il metaracconto di un racconto; è già il raccontare stesso il primo passo in avanti, in direzione di una armonia, di un, benché difficile, equilibrio «tra un fondo che unisce e la diversità tra le fedi, che si potranno professare senza danno né intolleranza, entro un pólemos che è legittimo dissenso e pacifica discussione» (p. 63), perché è dialogicizzazione, è passaggio al δια-, alla comunicazione, all’incontro. Raccontare non è gesto infantile, soporifero; neanche per il bambino la storia che il padre o la madre legge o narra prima del sonno è riducibile al mero diletto: la narrazione porta in scena, per così dire, la durata bergsoniana, è una congiunzione di passaggi, un Übergang, tra il passato e il futuro complessi nel presente (l’agostiniana, questa volta rovesciata, «distensio animi»). La narrazione porta ordine, è essa stessa l’ordine, tentato, certamente, ma mai completamente raggiunto, perché rinarrabile, rinegoziabile, metatesi del già detto. La narrazione è il duro e crudo durcharbeiten, elaborazione di un lutto, del lutto più grande, che ci sovrasta, di quel male, radicale, metafisico, inestirpabile, inderogabile.
Portare misura laddove l’uomo non è più misura di tutte le cose, quando forse non lo è mai stato; dare misura, misurare, geografizzare l’incommensurabile, senza possibile mensura: «dismisura del male» (p. 18) soverchiante. Ma è la narrazione, la storia, il racconto a fornire un senso, a fornirci un senso, per quanto illusorio, consolatorio; è questo senso che ci fa resistere, partigiani, che ci fa esistere, caduchi. Come ha ben scritto Richard Kearney: «[n]on importa quanto preparati siamo a dare un senso al male, non lo siamo mai abbastanza»; vero, ma lo siamo abbastanza per poter ricominciare, almeno, a poetare, a scrivere, a raccontare, a vivere. E tutto questo, dopo la peste.
Non a caso il primo capitolo cerca di indagare la possibilità della religione, dopo la peste. Peste come catastrofe, come il terremoto di Lisbona, come la Shoah; peste come l’incarnazione del male assoluto, irredimibile. Peste come spartiacque della storia, interruzione del flusso. È la peste, nella sua presenza, nella sua attualità, oggi, a interrogare, a mettere in dubbio la possibilità stessa del dopo, della storia; è un presente talmente estremo da indebolire, dalle fondamenta, il futuro: come è possibile anche solo pensare al dopo, a un dopo? Che cosa si deve fare oggi, compagni di vita della peste? Siamo in un presente assente, in un presente sospeso nella rottura della successione temporale; si è all’ultimo presente. Nessuna teodicea, nessuna giustificazione riesce a dare una risposta soddisfacente. Ecco perché è così importante riflettere sul dopo: ristrutturazione, riannodarsi dei fili, sfilacciati, ritessere una trama di un ordito infranto, sono le parole d’ordine del Decameron. E ciò avviene attraverso il racconto di racconti. Cosa è il Decameron: meta-metanarrazione della meta-narrazione di racconti. E il racconto che il professore Celada Ballanti porta in scena è quello dei tre anelli, trasposizione parabolica dell’assenza di presente: qual è l’anello vero? C’è poi un anello vero? Come il presente non è più presente per il troppo presente (l’ultimo presente), così l’anello, quello vero, non c’è più perché tutti sono tanto veri, quanti falsi. Solo un racconto, una parabola, può far fronte a questa perdita. E chi lo sa quale è quello giusto? «Ancora ne pende la quistione» è la risposta, malferma.
Epistemologicamente, non si trova soluzione. Qui si insinua, subdolo, uno strappo, uno scricchiolio, flebile, si ode: il lutto è tale per una perdita, per una dipartita: il padre che muore e che lascia in eredità l’anello; ma qui il problema è proprio l’anello! Eredità strana, dono venefico; quale anello avrà titolarià? Il problema scivola, si sposta; non è più epistemologico: diventa ontologico.
Dall’esergo: «l’anello nel centro non ha nulla, eppure sembra che per lui sia proprio il centro che conta!» (Musil). Così la parabola. Gioco di tracce, rintracciare le tracce, disperse, tracciare una traccia delle tracce rintracciate: ricostruzione della narrazione è l’impegno profuso dall’Autore. Ma anche qui è l’assenza, il centro dell’anello a risaltare; qual è l’origine della parabola? Salti, temporali, geografici, geo-storici: il senso dell’Ursprung si palesa. Allora, forse non si tratta di perdita: forse, è una mancanza, ontologica. Se l’anello è la fede autentica, disseminata nella molteplicità storica delle fedi, la perdita dell’anello autentico non è una vera perdita, ma una scoperta, nuova e liberatoria; sarà Lessing a mostrarcela nel suo Nathan il saggio. Le tre religioni del libro si parlano, si scontrano, si abbracciano, si riconoscono imparentate, come i personaggi del dramma teatrale; agnizione esistenziale nel liebender Kampf. Storia di una lacuna, della lacuna: «[d]estinate a inaridirsi sono le religioni quando cessino di sentirsi abitate da una lacuna, di ascoltare in sé ciò che manca» (p. X) afferma Celada Ballanti. Dio, la Trascendenza è assenza, «punto di luce oscuro» (Ricoeur). Una domanda permea il libro: quale ontologia per il dialogo interreligioso?
La citazione di Richard Kearney è tratta dal suo articolo Il male, la mostruosità e il sublime (prima traduzione italiana di un capitolo di Strangers, Gods and Monsters: Intepreting Otherness, London-New York 2003, pp. 83-110, a cura di Chiara Chinello) per Simone Guidi e Antonio Lucci, Spazi del mostruoso. Luoghi filosofici della mostruosità, in Lo Sguardo.net, n. IX, 2012 (II)
Il breve passaggio di Ricoeur è citato da Hans Kung, Paul Ricoeur (traduzione di Giulia Rossi), Il lato oscuo delle dellla fede. Religioni, violenza e pace, Medusa, Milano 2015, p. 40.
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