SPINOZA E LA VERTIGINE DELLA LETTERA

Si parlerà della lettera. Non la missiva, né una singola lettera nello specifico. Si affronterà il tema della lettera come crocevia di narrazioni, di spostamenti e scostamenti: la lettera come lettera alfabetica, lettera come lettere di un ordine alfabetico che virtualmente inviluppa tutti i possibili composti letterali, le cose di cui le lettere sono lettere. La lettera come letteratura, come ciò che si comporrà di lettere, come stati letterari individuati dalle lettere che li costituiscono. E la letteratura sarà allora lo specchio delle mille combinazioni di lettere che andranno a configurare storie e movimenti, l’espressione negli e degli espressi. Una letteratura certamente geometrica, quasi cosmologica, epiciclica e spanciata (Calvino) che fa della lettera molto più che il medium comunicativo.
In fondo, Spinoza era ebreo. Cacciato dalla comunità ebriaca, etimologicamente cattolico nel suo universalismo e refrattario alle specificazioni dogmatiche, ma pur sempre, e convintamente, ebreo: e forse per questo si impegnò nella stesura del Compendio di grammatica della lingua ebraica (lettere come spazi vuoti di un flauto dalla cui assenza di matericità promana il suono vocalico – secondo la bella immagine in apertura del compendio). Lettere come anime e corpi, come le singolarità nella trama del mondo:
Rabbi Uri diceva: Le miriadi di lettere della Torà corrispondono alle miriadi di anime di Israele; se nel rotolo della Torà manca una lettera, esso non è valido; se manca un’anima nella lega di Israele, la Shekhinà non posa su di essa. Come le lettere, anche le anime devono collegarsi e diventare una lega. Ma perché è proibito che una lettera nella Torà tocchi la sua vicina? Ogni anima d’Israele deve avere ore in cui è sola con il suo Creatore
Gabriella Caramore, in Paolo De Benedetti, L’alfabeto ebraico, p. 13.
Aveva ragione Jean-Claude Milner nel suo L’opera chiara: il Seicento è stato il secolo della lettera. Ha saputo traslare quella tendenza già avviata nel Cinquecento (i cui empiti iniziali già si erano manifestati nel XV secolo) dell’approccio filologico applicandolo al mondo stesso, alla natura e alle sue strutture: il grande Libro della Natura (con tutta l’ironia di cui è capace la metaforica, così come evidenziato da Blumenberg nel suo studio sulla leggibilità del mondo) è scritto da lettere-figure geometriche e compito dello scienziato è impararne il linguaggio, le combinazioni, i rapporti. La scrittura matematico-geometrica, quantificabile e formalizzabile, ideale (esperimento mentale) e sensibile («sensate esperienze»), in poche parole filologica («certe dimostrazioni»), ha tratto il mondo dalla sua vaghezza e dal suo misticismo, dalle superstizioni degli ignoranti e dall’ignoranza dei superstiziosi; ha infranto definitivamente un io europeisticamente di già incrinato da tempo (la scoperta dell’America e del suo mercato) e ora cosmologicamente decentrato, detronizzato antropologicamente: Spinoza nacque nell’anno della pubblicazione del Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, e questo è un caso, forse, del destino.
E come tale, il problema antropologico, combinato con quello matematico e congiunto con quello filologico, sullo sfondo dell’indagine teologica, ha(nno) sostanziato la filosofia di Spinoza: un problema letterale a ben guardare, di traduzione letterale e della sua possibilità. Spinoza ci ha introdotti, senza anticipazioni e direttamente, nella vertigine della lettera.
Da dove prendere l’abbrivio? Assodato è il fatto che non si possa incominciare dal principio; si comincia difatti sempre a cose già iniziate, sempre in medias res, sempre in mezzo alla caoticità di una realtà senza punti fermi, senza certezza inconcussa cui bloccare il turbinio di un girotondo di effervescenza molteplice. Come giustamente riportato da Sangiacomo nel saggio introduttivo all’edizione dell’Opera Omnia da lui curata, la cacciata dalla comunità ebraica ha segnato il punto di svolta, di conversione metanoetica per il giovane Spinoza: dedicarsi alla filosofia, dedicarsi cioè all’impegno totale di ricercare una ragione universale, un principio primo e sommo cui dedicare ogni impegno. Allora non si può che individuare uno schema, un metodo – indagine tipicamente seicentesca – che possa mettere ordine o meno ambiziosamente porci sulla strada.
È l’incipit del Tractatus de intellectus emendatione a offrire gli spunti per incamminarsi insieme a Spinoza e per individuare alcune sue peculiarità:
Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato come fossero vane e futili tutte quelle cose che capitano così frequentemente nella vita quotidiana; e vedendo che ciò che mi atterriva o che temevo, in sé non aveva niente di buono né di cattivo se non in quanto l’animo ne veniva scosso, decisi infine di cercare se esistesse qualcosa di veramente buono e che fosse di per sé accessibile, e da cui solo, abbandonati tutti gli altri, l’animo potesse venire affetto; meglio ancora, se esistesse qualcosa che, una volta trovato e acquisito, mi facesse godere in eterno di una continua e somma letizia
Possiamo così individuare alcuni passaggi che gettano luce sull’opzione spinoziana:
- la questione nasce dalla realtà quotidiana, dall’esperenza di ogni giorno che viene riconosciuta in tutta la sua assoluta caducità, vaghezza e indistinzione: una realtà ancora caotica, che ci sommerge nel suo disequilibrio debordante non in grado di fornirci appigli solidi e fermi;
- così gli stessi valori con i quali si è soliti categorizzare la reatà e decifrarla in rapporto alle relazioni che ci coinvolgono, vengono destituiti di peso ontologico in sé, giungendo a configurarsi come eminenti entia rationis;
- conseguentemente viene affermato un «nominalismo ontologico» (Sangiacomo) negatore della Realtà (gli universali o i generi) ma non del Reale (le lettere singolar-monadologiche);
- e proprio l’attenzione posta sulla natura singolare lo ha condotto alla ricerca di un Fondamento inconcusso, di un bene in sé che non sia però genere sommo di una pletora di specificazioni, quanto più un Sommo Bene da cui dipendere e a cui tendere nella dipendendenza stessa ((neo)finalismo spinoziano della ricerca, meglio ancora, nel posizionarsi in una «continua e somma letizia»).
- Si afferma una netta e recisa passività: la Realtà è il frutto di una azione sull’uomo che si trova del tutto in balia di un Reale le cui fluttuazioni affettano l’individuo. Affectio del Reale (genitivo soggettivo) e affectiones della Realtà (genitivo oggettivo) sono gli estremi nei quali l’uomo si trova (Deleuze; così, la domanda antropologica che percorre l’intero filosofare di Spinoza si manifesta fin già dai primi scritti).
Così
l’intendere è un puro patire, vale a dire una percezione nella mente dell’essenza o esistenza delle cose, di modo che noi non afferriamo né neghiamo alcunché di alcuna cosa, ma è la cosa stessa che di sé afferma o nega alcunché in noi
Breve Trattato, II, Cap. 16, p. 295.
La lettera allora impone subito un problema di traduzione: come tradurre letteralmente, alla lettera, il punto di partenza vorticoso nella lingua della passività dell’intendere? Fin dove si deve spingere il traduttore in questa operazione sulle lettere (la traduzione avrà i suoi limiti: traduco alla lettera, ma la lettera sarà già parola. La vertigine della lettera è il sovra-traducibile che si singolarizza nella pluralità delle lettere: e il singolare è il grande problema che attanaglia il pensiero di Spinoza e che lo afferra nell’arco del suo svolgersi), fin dove l’alla lettera deve essere il nella lettera? È qui in gioco la determinazione causale: tradurre alla lettera è la transizione di una intensità energetica, la transitività prossima che da A giunge a C, applicandosi a B. La traduzione letterale è l’avvicinare, il farsi prossimo. La causa antropologica che causa transitivamente. Ma la causazione – causazione per chi la deve intendere, per chi la deve comprendere – nella lettera fa a meno dell’approssimarsi perché per nulla approssimativa (i cui effetti si distendono e si dispiegano, si sviluppano dall’inviluppamento (Deleuze) e non si alienano dall’invilupparsi), per niente vicina: è la causa remota che, benché da remoto, non è mai troppo distante da non essere immanente alla lettera e alle lettere. È Dio come causa remota, come causa immanente.
Per questo sono da espungere da ogni coerente filosofia tanto la creatio ex nihilo (dispositivo di frattura dell’Unità della Natura) quanto il processo emanativo che perderebbe di vista la storicità argomentativa della dimostrazione geometrica, quella «coscienza riflessiva della verità» (Sangiacomo) che nei suoi snodi ricorsivi torna e si slancia. Così come sono da negare, ontologicamente sebbene non funzionalmente, i miracoli, la cui affermazione non dimostrerebbe l’esistenza di Dio né la sua potenza, ma ne infetterebbe l’essenza dichiarandone, piamente, l’imperfezione. Ed ecco il superamento dell’immagine del mondo come copia di un modello eterno: correttamente Blumenberg ha mostrato i vari passaggi che hanno portato alla metaforica della leggibilità del mondo. In quanto metafora, il mondo si reggerebbe ancora sul principio di analogia entis (modello-copia; Dio-mondo/natura) e la metafora rappresenterebbe il raccordo degli analoga: possiamo leggere e tradurre alla lettera, parola per parola, evento per evento. Ma con il negare la creazione, l’emanazione, i miracoli, il circolo dell’analogo si è dissolto e la retorica analogica lascia campo aperto a quella metonimica che attua lo scivolamento dall’alla lettera al nella lettera. La vertigine qui affonda nel fondo dell’univocità dell’essere (Duns Scoto) che si esprime nelle ecceità delle singole lettere.
Non è un caso allora che tre grandi testi spinoziani, Il Breve Trattato, l’Etica e il Trattato teologico-politico presentino proprio la scansione di questa vertigine: Il Breve Trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità presenta tutta una metafisica della felicità, una metafisica dell’alfabeto (Dio) e della sue lettere (l’uomo); l’Etica, la cui prima parte – De Deo – è la conferma di quanto l’etica sia ontologia (Deleuze, Che cosa può un corpo) di quelle lettere tutte speciali che sono le proposizioni; il Trattato teologico-politico come riflessione sulla traduzione del teologico (metafisco-ontologico) nel politico siccome lingue storiche da apprendere. Da qui la vertigine di una lettera, inserita in un sistema di lettere, che (non) si toccano e restano in transizione, a comporre un libro borgesiano la cui unità è l’infinita unità di tutti i libri e di tutte le parole e di tutte le lettere.
Unità, ma non compromissione delle singolarità, dell’ecceitas, nell’Alleanza metafisico-ontologica dell’Univocità di Dio:
E la alef, in un’altra disputa tra la alef e la bet, viene rassicurata da Dio a proposito della Torà, affermando che lui stesso usa la bet per creare il mondo – infatti la Bibbia comincia con «in principio», in ebraico be-reshit – ma quando crea la Torà, stabilendo per così dire l’alleanza, comincia con anokhì
Paolo De Benedetti, L’alfabeto ebraico, p, 27.
E se la creazione parte dal due alfanumerico (la bet in ebraico conta come due), il due del mondo, ovvero delle sue singolarità, non può non trovare senso che nell’Io dell’univocità di Dio: un castello di mille e mila stanze, una città che è mille altre città:
Entrato nel territorio che ha Eutropia per capitale, il viaggiatore vede non una città, ma molte, di eguale grandezza e non dissimili tra loro, sparse per un vasto e ondulato altopiano. Eutropia è non una ma tutte queste città insieme; una sola è abitata, le altre vuote; e questo si fa a turno. Vi dirò come. Il giorno in cui gli abitanti di Eutropia si sentono assalire dalla stanchezza, e nessuno sopporta più il suo mestiere, i suoi parenti, la sua casa e la sua via, i debiti, la gente da salutare o che saluta, allora tutta la cittadinanza decide di spostarsi nella città vicina che è lì ad aspettarli, vuota e come nuova, dove ognuno prenderà un altro mestiere, un’altra moglie, vedrà un altro paesaggio aprendo la finestra, passerà le sere in altri passatempi amicizie maldicenze. Così la loro vita si rinnova di trasloco in trasloco, tra città che per l’esposizione o la pendenza o i corsi d’acqua o i venti si presentano ognuna con qualche differenza dalle altre. Essendo la loro società ordinata senza grandi differenze di ricchezza o di autorità, i passaggi da una funzione all’altra avvengono quasi senza scosse; la varietà è assicurata dalle molteplici incombenze, tali che nello spazio di una vita raramente uno ritorna a un mestiere che già era stato il suo.
Così la città ripete la sua vita uguale spostandosi in su e in giù sulla sua scacchiera vuota. Gli abitanti tornano a recitare le stesse scene con attori cambiati; ridicono le stesse battute con accenti variamente combinati; spalancano bocche alternate in uguali sbadigli. Sola tra tutte le città dell’impero, Eutropia permane identica a se stessa. Mercurio, dio dei volubili, al quale la città è sacra, fece questo ambiguo miracolo
Italo Calvino, Le città invisibili, pp. 62-63.
BIBLIOGRAFIA
I testi di Spinoza sono tratti dall’edizione dell’Opera Omnia, a cura di Andrea Sangiacomo, Bompiani, Milano 2011 (seconda edizione).
Per la questione generale della lettera, cfr. Jean-Claude Milner, L’opera chiara. Lacan, la scienza, la filosofia, nella traduzione italiana di Luigi Francesco Clemente, Orthotes, Napoli-Salerno, 2019.
Per una discussione sulla lettera ebraica si rinvia a Paolo De Benedetti, curato da Gabriella Caramore, L’alfabeto ebraico, Morcelliana, Brescia 2014 (terza edizione).
Di Calvino si consulti Le Città invisibili, Mondadori, Milano 2016.
@ILLUS. IN EVIDENZA by FRANCENSTEIN, 2021
@ILLUS. NEL CORPO DEL TESTO by, PATRICIA MCBEAL, 2021