METAFISICA DELL’ASSENZA IN PROUST

Sembrerebe quasi che noi amiamo maggiormente ciò che è partito, ciò che è lontano più che ciò che è vicino, ciò che resta. Il desiderio amoroso fa sì che l’essere che ha deciso di prendere la via della fuga, per quanto in passato non sia stato pienamente amato, sia ancora più desiderabile dell’essere che si dona a noi. Ciò che è desiderabile sarebbe metafisicamente il non-essere ben più che l’essere.
In Proust, les horreurs de l’amour (Proust, gli orrori della morte), Nicolas Grimaldi sottolinea che
[t]utto diviene altro, in Proust, come se fosse sufficiente ottenere ciò che noi si aveva desiderato così ardentemente, per poi stupirsi quasi subito di trovarlo così poco desiderabile. Se lontano, il reale ci affascina. Se vicino, siamo sempre sorpresi di trovarlo così poco sorprendente. Così Jean Santeuil si ricordava di non aver mai visto mai così bene «la piccola ragazza degli Champs-Elysées» che quando non poteva più vederla.
Leggendo Fragments d’un discours amoreux (Frammenti di un discorso amoroso) di Roland Barthes, la questione dell’alternanza drammatica tra l’assenza e la presenza che si incrociano senza trovare un luogo un luogo di quiete comune è integrata da un intrinseco rapporto di attesa dell’altro: «l’identità fatale dell’amoroso non è nient’altro che questo: io sono colui che attende». Ciò che rende desiderabile un essere è conseguentemente l’idea che ce se ne fa, il sogno che ci ricamiamo intorno alla sua immagine, la speranza che riponiamo nel suo ritorno ben più che la realtà di questo essere che dovrebbe essere allora essere qualificato piuttosto come non-essere desiderato. Poiché il sogno e il reale sono differenti, l’amoroso è necessariamente tradito se ha la possibilità di condividere momenti di vita con questo altro. Ciò che rende l’altro seducente è, in fin dei conti, il fantasma che ci siamo fatti tramite la cristallizzazione della sua immagine che ne omette gli aspetti mediocri. Dopo l’attesa dell’assente viene il presente e così l’ineluttabile delusione; l’amoroso disilluso si trova frustrato da un reale che non corrisponde all’immagine fantasticata dell’altro che era stata forgiata attendendolo o nella sua assenza.
Il fenomeno dell’alternanza tra l’assenza e la presenza nei rapporti amorosi che Nicolas Grimaldi mostra nella sua lettura metafisica dell’opera di Marcel Proust, è quello che regge tutti i rapporti amorosi. L’uomo desidera ciò che non ha, e non desidera ciò che possiede. Detto altrimenti, nell’assenza l’uomo reclama la presenza dell’altro attendendolo instancabilmente, mentre, quando l’altro è presente, lo rifiuta e lo spinge ad allontanarsi a causa della sua delusione. L’incertezza della presenza fonda il desiderio amoroso; la certezza della presenza lo svapora. Una tragica conclusione allora si impone a noi, lettori di Proust: noi non desideriamo che ciò che è assente, che l’immagine lontana di ciò che pensiamo di amare; nel momento in cui questo altro diviene troppo presente, noi non lo desideriamo più veramente. La passione amorosa si volatilizza per lasciare il posto alla stanchezza.
L’amore allora si dovrebbe definire come un movimento del pendolo tra l’attesa della presenza e il desiderio dell’assenza, tra la perdita delle illusioni a partire dall’essere presente e l’idealizzazione di ciò che è il non-essere assente. L’autentico amore, nel senso della passione folle e irrazionale, non potrà allora prodursi che nella perdita dell’altro. L’amore, nel senso più potente e folgorante, non potrà autenticamente sorgere che nella tristezza d’aver perduto l’altro, o di non averlo mai avuto al proprio fianco. Si tratterebbe allora di rubare degli istanti all’altro, nel senso quasi materiale, e di idealizzarlo quanto più possibile nell’attesa. Parallelamente, la gioia che noi immaginiamo poter condividere con questo altro idealizzato, quando lo si sarà fisicamente abbandonato non potrebbe essere nient’altro che illusione. Farsi amare consiste allora, teoricamente, nel fuggire, nell’andarsene il più lontano possibile dall’anima amata, al rischio di essere subissati dal dolore più grande in assoluto. Restare significa, in realtà, aprirsi una via verso la disillusione e l’abbandono di ciò con il quale si vorrebbe conservare la fiamma passionale dei primi istanti.
È necessario uccidere l’altro metaforicamente per mezzo dell’assenza anziché lasciarsi trascinare in un cammino verso la presenza per evitare di essere disillusi e per non sprofondare nella fiacchezza di un troppo-pieno d’essere.
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