DIO OLTRE IL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE

Dio, Ego Sum Qui Sum, solo Dio come Dio, perché Dio solo agli occhi di Dio, Dio di cui Dio e Dio solo parla e perciò stesso unico Teologo di diritto. Unico Deus de Se, Deus Qui de Se Sibi loquitur, pleno iure intollerante di ogni e qualsiasi autonomo significare comunque a Lui presupposto o presupponibile.
Dio, Ego Sum Qui Sum, che, unico, sovranamente decide del senso di tutto, nulla escluso.
Insorge così Carlo Arata, il Fideista (1924-2013) contro Emanuele Severino e il suo principio di non contraddizione. Ed evoca Dio, teurgia necessaria e non vana di questi tempi.
In questo libricino l’autore e “individuo storico-anagrafico” Carlo Arata invita la filosofia a riflettere sui suoi princìpi primi con una prospettiva che mette in discussione ogni forma di teologia razionale. Il volume è composto di tre sezioni: una ramanzina volta al “problema”, Emanuele Severino, una varazione sui temi di Ego Sum Qui Sum. La Gloria di Dio, opera principale del Fideista, un ricordo di Gustavo Bontadini.
Arata, indaimoniato, si erge anche contro Tommaso d’Aquino, secondo il quale Dio non potrebbe dire no al principio di non contraddizione pena il suo stesso impazzire.
Nonché contro Aristotele in quanto è doveroso “smascherare l’ateismo antiteistico del IV libro della Metafisica”.
Il PDNC costituisce infatti “l’espressione paradigmatica del blasfemo autonomo significare“. Limiterebbe l’onnipotenza di Dio, il quale, volendo, potrebbe invalidarlo.
Gli sgherri della Chiesa non sono nuovi alle insurrezioni feroci contro i filosofi. Il Dio paventato da Arata è il più ostile alla comprensione umana dai tempi di Pier Damiani.
Arata pone l’aut aut: “Dio o la Filosofia“. Filosofia al maiuscolo, quella di Severino, autentico ordigno logico, che non lascia adito a obiezioni sul piano dei discorsi.
Dio, però, Prima Persona “intollerante di ogni e qualsiasi insidia storico-linguistico-grammaticale” impedisce ogni autonomo significare, linguaggio compreso. Senza di Lui, il pensiero, senza parole, non è pensiero.
La Verità non si può calcolare, si deve udire. Arata è uno dei “pretesi uditori” per Grazia della Parola. Testimone del “sovrano etero-Autorivelarsi di Dio”
Il Fideista, in merito, s’appella alla sua propria ipseità e “singolarmente, per non dire follemente, in forma martellante quasi ossessiva, annuncia, rivendica, urla i diritti della paroletta io“. E chiede di non essere considerato pazzo se egli, credendosi sé stesso, crede anche di poter sentire risuonare dentro di sé la Parola dell’Altro, Dio.
E prova a ribaltare il discorso filosofico “denuncia[ndo] i tratti nichilistici dell’intero pensiero occidentale, da Parmenide a Spinoza, da Spinoza a Hegel, da Hegel a Severino, pensiero occidentale tutto dominato dal linguaggio neutro-nichilistico dell’esso, terza persona, che è nessuno-nulla“.
Il “Dio dei filosofi”, il “Dio come pensiero” è solo un Dio “teandricamente inteso” (che esclude ogni possibile ruolo/realtà dei singoli uomini). Non è, però, il “Dio come Dio”, che non è “Follia, bensì pleno iure vittoria unica ab aeterno su ogni follia”.
All’indifferenza dell’Essere-Dio, Arata tenta di opporre le coscienze individuali ed è su questo punto che prova a solleticare Severino: lo stesso Doctor Implacabilis avrebbe una sua propria ipseità, sarebbe un io, individuo storico-anagrafico Emanuele Severino e non “io”, cioè “[q]uesta eterna riflessione dell’apparire, nella cui verità abita l’essere” (Severino, Essenza del nichilismo, p. 240). Peraltro egli “dovrà e vorrà pur riconoscere che almeno una volta […] si è chiesto perché a lui, proprio a lui è stato dato di essere il testimone privilegiato della Verità dell’essere neoparmenidea o Destino della Verità, quale suo uditore privilegiato”. Perché la Verità si manifesta chiaramente il lui e non altrove? (Pur fermo restando che “[s]e nell’ascolto la Necessità appare come tale, l’ascoltante non può essere che la Necessità stessa. L’ascoltarsi è daccapo il suo apparire” (Severino, La struttura originaria, Adelphi, p. 98))
Il tentativo di persuasione, al dubbio, di Arata sta interamente in ciò: Severino provi a ricordarsi di sé, “quale singolo”, “quale hic homo“…
C. Arata, Dio oltre il principio di non contraddizione, Morcelliana, Brescia – 2009. Pagine 113. Citazione nell’esergo tratta da p. 72.
Commentario
Il Fideista non ha argomentazioni da opporre a quelle della Necessità, se non la provocazione antropologica con cui si è conclusa la prima parte di questo discorso.
Tuttavia se si discorre conformemente a questo presupposto (“io sono io”) è inevitabile incorrere in ingenti problematiche. Perché determinare cosa sia “io” è il tentativo riduzionista di separare aspetti presunti contingenti da aspetti presunti necessari in modo da rintracciare l’essenza di un individuo. Lo stesso tentativo riduzionista, in piccolo, di cogliere l’essenza del mondo in Dio, sua presunta origine, separando ciò che è contingente da Lui, con in più la alquanto gravosa complicazione di dovere poi mettere a sistema coscienze singolari/plurali, tra loro e con Dio.
Non a caso gli idealismi, similmente alla riflessione araba averroista, risolsero la questione riconoscendo un unico intelletto per tutta l’umanità e facendo coincidere questo, in un modo o nell’altro, con Dio. Ossia esclusero i presupposti incompatibili, mantenendo il più forte. La negazione di ogni ruolo/realtà dei singoli uomini è l’inevitabile esito del discorso filosofico che così ha ragione della “tenace interferenza dell’antropologia” come afferma Gennaro Sasso (in Fondamento e giudizio, un duplice tramonto?, cap. II).
Tuttavia che l’Intelletto agente unico sia l’informatore, potenza di tutte le anime, sicché gli aspetti di quelle siano assegnati come tolti da Quello non è l’esito del discorso che mira alla Comprensione. L’Io assoluto non è potenza, poiché non si dà il caso in cui possa non avere scienza di qualcosa. A ciò perverrà inevitabilmente la Filosofia, affermando Dio, Sofia, che eternamente se ne deve stare presso di sé.
Se ciò non piace, s’ha ragione di lasciar perdere la Filosofia e, con Arata, se si vuole, di riporre la speranza in un non meglio specificato Dio, condivisibile solo qualora si sia come lui testimone del “sovrano etero-Autorivelarsi” dello Stesso.
Tuttavia anche ammettendo questa possibilità (ossia che Arata sia uditore privilegiato di quel Dio, mentre altri no) è da dirsi che Quello, sia pure (nominalmente) onnipotente oltre ogni pensabilità, non è certamente Dio. Ossia non è certamente l’Uno. Perché, come da Arata presentato, di questo Dio almeno si sa che concede l’alterità (per esempio l’io di Arata) e che nega la Necessità.
Ma tanto la Necessità quanto l’impossibilità dell’alterità sono conclusioni a cui, dal presupposto del Dio come Uno, si giunge inevitabilmente.
Poiché Dio per essere Uno dev’essere immutabile, in ogni suo attributo, eterno Lui come questi, che ne sono indistintamente parte di Quello, Sostanza semplice e indivisibile. Il mutamento necessariamente (ac)cadrebbe fuori di Lui. Un fuori di cui Dio non potrebbe avere scienza alcuna, poiché se l’avesse questa sarebbe un Suo attributo, ricevendoNe eternamente determinazione. Un Dio cieco che non è quello di Arata.
Dunque se tale Dio deve essere partecipe o almeno cosciente delle faccende mondane, allora deve far parte di ciò che è plurale e contingente essendo tale anch’egli. Un dio che lascia aperta la strada ad altri come lui, tutti contingenti e mortali. Un dio che non è uno, non è unico, non è perf-fectum, non è eterno. Degno compagno dei molti mortali infetti.
Altro sarebbe Dio, ovvero la Negatività che inghiotte tutte le determinazioni. Quel panta rei, eteronomica “prima follia“, il Dio pazzo oltre il principio di non contraddizione, cui ogni cosa paga l’espiazione… secondo Necessità!
“La potenza di Dio è la sua stessa essenza” (Spinoza, Ethica). Deus vult!
Per vedere tutte le recensioni libri di eddymanciox clicca qui.
Per consultare l’archivio recensioni libri clicca qui.
@PHOTO by JOHNNY PARADISE SWAGGER, 2019
EGO NON SUM QUIA NON SUM.
Così profetizza il PROFETA DELLA DESISTENZA quando parla dell’umano inconcepito: Io non sono perché non sono. Ma questo Verbo non si può purtroppo ascoltare: lo pronunciano coloro che non sono ancora stati concepiti, lo pronunciano in silenzio i tanti Nessuno del Nonessere, i Nessuno che non esistono ancora perché nessun genitore ancora è riuscito a trarli fuori dall’ERGON neutrale e pacifico del non-essere-ancora.
L’Essere può strombazzarlo ai quattro venti, che Lui è:
EGO SUM QUI SUM.
Solo chi-è-già ha voce in capitolo, ha la voce per parlare; ma solo chi può parlare può anche dire (e lo sentiamo dire tutti i giorni) che sarebbe meglio tacere, non avere nemmeno il fiato per dirlo, l’orrore dell’esistere. L’innocente ancora smaterializzato, colui che risiede nella beata ERGIA pura, non ancora fatta EN-ERGIA dal misfatto disgustoso del concepimento, può tacere e solo non facendolo nascere, anzi, facendolo tacere per sempre, gli si può donare il condono della vita.
Invece, schiere di idioti, che pensano solo a coronare il loro amore, smaniano dalla voglia di usare la corona di spine che hanno pronta: non vedono l’ora di coronare il loro sogno d’amore con l’incubo di un figlio; incubo per il figlio, e poi anche per i suoi genitori, talvolta.
La Morte contraddice la Vita ogni giorno, eppure i genitori si ostinano a perpetuare il principio contraddittorio dell’esistenza: DESISTENZA! DESISTENZA! DESISTENZA!
Amen.
Tuttavia penso che quell’EN che sta davanti a ERGIA sia, intensivo, superfluo. Intendo che non vi è (perlomeno la certezza della) differenza tra ENERGIA ed ERGIA, tale che aldilà dell’energia, impura, se così si assume e nomina, vi è ancora energia, impura.
Caro eddymanciox,
lei ricorda di essere mai stato ergetico, prima di diventare energetico come adesso è? Chiamo ERGIA lo ERGON neutrale, esente dal principium individuationis che lo personifica maschio o femmina.
AMEN vuol dire ‘così sia’, e un desistente non può accettare la personificazione individualizzata dello ERGON ERGETICO. Così non sia, piuttosto!
In effetti non ricordo altro che la mia anima. In effetti poi il ricordo è un presente che si fa immagine di un non presente (relativo o presunto assoluto), nello specifico quel che, si dice, passato.
Nulla so di certo del passato, né che sia né che non sia. Ma ciò non significa che Nulla sia certamente il mio passato. E potrei anche non occuparmene.
Se però sono solleticato a sbilanciarmi, nel pronunciarmi sul non presente, allora scommetto che il non presente è un presente altrove locato. Per non dover rendere conto di un qualcosa di diverso da ciò che conosco, il presente.
In ciò l’intento del PARMENIDISTA VOLGARE, testa quadra che afferma il TUTTO ROTONDO, è di non farsi trascinare a discorrere del Nulla, nelle sue declinazioni individuali, chiamate differenza, negandolo fin dal principio. Per questo tiene saldo il principio di non contraddizione.
Per quel che sta cuore al Profeta Cantino, egli non deve preoccuparsi. Il parmenidista volgare conserva le forme della propria anima, nel momento in cui ne fa (è) esperienza. Nulla più.