IL PENSIERO EBRAICO O DELLA PERPLESSITÀ RAGGIUNTA

Perplessità raggiunta, si cammina
per te su fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina[1]
Cerco di definire in che cosa consista l’essenza di quel percorso lungo e tortuoso (il “pensiero ebraico”) che dura ancora oggi. Sono colpito dalla straordinaria varietà dei fenomeni che mi si presentano e vengo a trovarmi nella situazione descritta da Hofmannsthal in un passo celebre della Lettera di Lord Chandos:
Come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo, e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le loro azioni. Non riuscivo più a coglierli con lo sguardo semplificatore dell’abitudine.
Il problema è ulteriormente complicato dalla presenza di due diversi possibili universalia, quelli di “pensiero ebraico” e “filosofia ebraica”. Forse, è meglio mantenere il primo e ravvisarne il segno distintivo nell’incontro o simbiosi, che quel pensiero ha prodotto, tra Gerusalemme e Atene e cioè tra il patrimonio testuale tradizionale della fede ebraica (la Bibbia e il Talmud) e le categorie ereditate dalla tradizione filosofica occidentale. Durante questa rilettura possono prodursi delle armonie ma anche delle dissonanze. Riguardo alle prime e citando un assioma che risale perlomeno ad Averroè, nei Cogitata Metaphysica Spinoza scrive che «la verità non ripugna alla verità, né la Scrittura può insegnare sciocchezze quali comunemente si immaginano». Nel Tractatus theologico-politicus, invece, lo stesso autore concepisce i rapporti tra Gerusalemme e Atene nei termini di una irriducibile dissonanza.
In relazione al pensiero ebraico, subito mi si mostrano (io nel pensier mi fingo) innumerevoli volti, i paesaggi che quei volti hanno abitato e le lingue che hanno parlato. Alcuni di questi volti, li abbiamo visti scolpiti nelle loro città (a Malaga, la statua di Shelomoh ibn Gabirol e a Cordova, quelle di Maimonide e ibn Rushd)[2]. Di altri pensatori, i lineamenti sono più sfocati o incerti (Filone o Lewi ben Gershom). Di altri ancora possediamo dei ritratti, alcuni dei quali pensiamo siano più fedeli (come nel caso di Spinoza). Altri ancora, vissuti nell’Ottocento e nel Novecento, abbiamo visti in fotografie. E poi, ci sono le aree geografiche in cui quegli uomini sono vissuti (da Alessandria di Egitto, passando per l’Iraq, la Spagna, la Provenza, l’Olanda, la Germania, la Francia e gli Stati Uniti, fino allo stato di Israele) e ancora, le lingue che hanno parlato (oltre naturalmente all’ebraico, il giudeo-arabo, il latino o le moderne lingue occidentali, fino all’israeliano).
Ma ci sono anche i diversi contesti culturali di quei pensatori: a partire dalla simbiosi tardo-antica di Gerusalemme e Atene (Filone di Alessandria) a quella medievale prodottasi nella Spagna arabo-ebraica e poi, la simbiosi moderna nell’area dell’Occidente, la Germania sprofondata nella Sho’ah e Benjamin morto suicida su finis Terrae, fino alla costituzione dello stato d’Israele. Mi sovvengono però anche edizioni preziose di testi a stampa (dall’edizione della Guida dei perplessi di Maimonide curata dal francese Salomon Munk a metà dell’ottocento, fino alla recente traduzione italiana di quest’opera a cura di Mauro Zonta, scomparso troppo presto). Per quel che concerne il mondo medievale vi è poi la mole enorme dei manoscritti (una parte dei quali è consultabile on line sul sito della Jewish National Library of Jerusalem). E poi, ci sono anche i volti degli studiosi novecenteschi che hanno resi vivi quei testi, da Harry Austryn Wolfson (che ha definito Spinoza, in maniera intelligentemente provocatoria, come l’ultimo dei pensatori medievali e il primo dei moderni), a Leo Strauss e Shlomo Pines, fino agli studiosi contemporanei le cui voci abbiamo anche potuto sentire.
Il lettore sarà già infastidito da tanta polymathie. Si voleva solo restituire la convinzione che esista una profonda unità tra tutti questi diversi fenomeni storici, costituita appunto dalla loro essenza. Quest’ultima non rappresenta però un archetipo eterno e immutabile. Una volta identificato il pensiero ebraico come il campo di forze disegnato dall’incontro tra Gerusalemme e Atene, gli equilibri e le configurazioni instabili che vi si producono cambiano a seconda dei contesti storici e culturali e degli interessi teoretici profondi che li attraversano (ad es., il problema dei nomi di Dio, della derivazione delle cose dall’Uno, di quale sia la destinazione ultima dell’uomo e della teodicea).
Proviamo allora a fermare, sulla base sia di uno dei testi fondativi di questa tradizione (La guida dei perplessi di Maimonide) sia dell’opera che ne costituisce il controcanto (il Tractatus di Spinoza, ma anche l’Etica), alcuni nuclei tematici che possono valere come indicazioni di massima per individuare questa essenza mobile del pensiero ebraico. Queste indicazioni intendono restituire dei profili soltanto parziali della cosa che stiamo descrivendo.
1) Il punto iniziale del pensiero ebraico è la situazione di perplessità indotta, nel lettore dei testi tradizionali della fede ebraica, dall’adozione di categorie filosofiche. Maimonide scrive che il problema principale della sua Guida è quello di interpretare i termini che la Bibbia e il Talmud adoperano in relazione a Dio e alla sfera spirituale. Se presi alla lettera, infatti, quei termini vanno in direzione di una concezione antropomorfica della divinità. Si tratta allora di comprendere come essi vadano classificati filosoficamente e cioè se siano da intendersi, quando vengono usati per designare la divinità, come equivoci o metaforici. Si noti che questa è anche la situazione di partenza di un lettore laico (o al limite, irreligioso) come Spinoza. Infatti, i capitoli iniziali del suo Tractatus sono volti a spiegare il significato di termini fondamentali della Bibbia ebraica e costituiscono pertanto una ricostruzione lessicografica delle parole chiave del testo ‘sacro’.
Subito dopo, nelle pagine iniziali dell’opera, Maimonide descrive l’identikit del suo lettore ideale cui essa si rivolge:
Il fine di quest’opera è di dare un avvertimento ad ogni uomo religioso che si sia umiliato e abbia conseguito una credenza certa nella nostra Legge, sia perfetto nella pratica religiosa e nella morale, e abbia studiato le scienze filosofiche e conosca i loro contenuti; l’intelletto umano lo ha attratto e lo ha spinto a entrare nel proprio campo, ma gli creano problemi il senso letterale della Legge (…) Resta pertanto nella perplessità e nello sgomento, sia che segua il suo intelletto e rigetti ciò che [per via di tradizione] sa di quei termini, sia che si limiti a ciò che di essi ha appreso [sempre per via tradizionale] e non si lasci attrarre dal suo intelletto, volgendogli le spalle e abbandonandolo (Guida, trad. di M. Zonta, pp. 69-70).
2) Ne deriva che il pensiero ebraico consiste nelle operazioni ermeneutiche, di volta in volta diverse, con cui i testi fondativi di Gerusalemme vengono letti alla luce delle acquisizioni della tradizione filosofica. Questa diversità non si riferisce soltanto ai metodi e ai problemi messi in campo, ma anche alla pluralità dei registri stilistici adottati (dalla forma del trattato a chiave tipica della Guida, fino alla scelta della scrittura poetica come nel caso di ibn Gabirol e all’adozione di modalità nuove di scrittura filosofica, come per Rosenzweig e Lévinas).
I testi fondativi di Gerusalemme vengono paragonati da Maimonide a gioielli finemente cesellati in filigrane argento, al cui interno sono collocate delle mele d’oro che si intravedono appena. Il senso letterale di quei testi consiste nelle filigrane che avvolgono il loro prezioso contenuto. Quest’ultimo rappresenta invece il senso esoterico che solo il lettore filosoficamente preparato è in grado di portare alla luce. Questo lettore, infatti, è consapevole che «la Torah parla nel linguaggio degli uomini» e che i due sensi dei testi della tradizione si rivolgono a tipologie diverse di lettori. In Spinoza l’esito di quest’operazione ermeneutica è invece quello di svelare che quei testi hanno solo un senso letterale e storico, che costituisce una parziale (ma necessaria) approssimazione alla verità, messa in atto dall’immaginazione. Anch’egli, però, ripete il detto rabbinico della Torah che parla le lingue degli uomini (ad captum vulgi) ed è altrettanto convinto che la filosofia fornisca una chiave decisiva per decifrare i testi della tradizione. In questo modo, uno stesso pensatore può essere l’autore di testi decisamente tecnici (che non esiteremmo a classificare come opere di “filosofia ebraica” o addirittura di filosofia tout court) e di commenti sui libri della Bibbia ebraica, della Mishnah e del Talmud. Il migliore esempio di questa duplice specializzazione di un pensatore ebraico è offerto, oltre che da Maimonide, da Lewi ben Gershom (Provenza, prima metà del XIV sec.). Egli alterna opere estremamente tecniche di commenti ai Commenti di Averroè (i cosiddetti Supercommentari) a lavori di esegesi biblica.
3) È tipica del pensiero ebraico una concezione della verità secondo cui essa si mostra all’uomo solo per profili parziali o adombramenti. Maimonide avanza a questo proposito l’immagine della luce del fulmine che appare e si spegne all’improvviso.
A volte ci balena la verità, sicché pensiamo che sia giorno, e poi le cose materiali ed abituali la nascondono, sicché noi torniamo in una notte oscura, prossima allo stato in cui eravamo all’inizio (Guida, p. 71).
Anche Spinoza, che pure possiede una fiducia nelle capacità conoscitive dell’uomo maggiore di quella nutrita da Maimonide, pensa che una conoscenza interamente dispiegata dell’essenza di Dio sia preclusa all’uomo (degli infiniti attributi che compongono la divinità, l’uomo è in grado di coglierne solo due).
4) L’esito finale del pensiero ebraico consiste in una trasformazione delle categorie filosofiche tradizionali, così che appaiono come la scala che va messa da parte una volta che con essa si è saliti. Questo esito viene definito, sia da Maimonide sia da Spinoza, come «amore intellettuale di Dio». Esso non è da intendersi come unione mistica tra l’uomo e la divinità (il pensiero ebraico non è dunque misticismo), ma come l’adozione, da parte dell’uomo, del punto di vista sulle cose finite tipico della divinità. Inoltre, questa formula implica anche un capovolgimento della formula aristotelica secondo cui Dio è pensiero di pensiero. Infatti, in entrambi i filosofi Dio è semmai amore di amore.
Per identificare questo grado supremo di conoscenza connotato emotivamente, Maimonide si serve della metafora del palazzo nelle cui stanze interne risiede il Re (ossia la divinità). Solo pochi uomini sono in grado di accedere alla presenza del sovrano. Altri invece sono destinati a vagare intorno alle mura del palazzo, senza nemmeno riuscire a individuare le porte che danno accesso ai cortili. Anche i tre livelli di conoscenza dell’Etica di Spinoza possono essere intesi come gradi diversi di approssimazione alla verità, senza che uno trapassi necessariamente nell’altro. Kafka ne Il castello ripropone questa metafora, per restituire però il senso di spaesamento di chi si sa condannato alla marginalità e sospetta persino che le stanze interne non ospitino più alcun Re.
Marc Chagall, Solitude, 1933
[1] Il va sans dire che l’osso di seppia di Montale è stato leggermente modificato.
[2] Ibn Rushd o Averroè è, ovviamente, il pensatore arabo ed islamico “che il Gran Comento feo”. Senza di lui, però, non è possibile intendere una parte consistente del pensiero ebraico, dal XIII sec. (quando si producono le prime traduzioni dall’arabo in ebraico) fino al 1400 e oltre (si pensi a Spinoza).
Consigli per gli acquisti
Fornisco una breve serie di testi che per me sono stati importanti e che rappresentano prospettive di letture molto diverse.
MAIMONIDE, La guida dei perplessi, trad. it. a cura di M. Zonta, Utet 2003.
HARRY A. WOLFSON, The Philosophy of Spinoza, Meridian Books 1961.
LEO STRAUSS, Filosofia e Legge. Contributi per la comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori, trad. it. a cura di C. Altini, Giuntina 2003.
SCHOLEM – L. STRAUSS, Lettere dall’esilio. Carteggio (1933-1973), trad. it. a cura di C.Altini, Giuntina 2008.
SHLOMO PINES, Le metamorfosi della libertà. Tra Atene e Gerusalemme, trad. it. a cura di A. Guidi, Neri Pozza 2015.
Idem, La filosofia ebraica, trad. it. a cura di P. Lucca, Morcelliana 2008.
DAVID HARTMAN, Torah and Philosophic Quest, The Jewish Publication Society 1976.
Spinoza and Medieval Jewish Philosophy, ed. by S. Nadler, Cambridge U. P. 2014.
Roberto Gatti, professore e saggista
Il dipinto riportato al termine dell’articolo è March Chagall, Solitude, 1933, olio su tela, cm. 102 × 169, conservato presso il Museum of Art di Tel Aviv.
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@ILLUS. by, FRANCENSTEIN, 2020
@LOGO by, FEBUS, 2020
Il castello ospita il Re, ma Quello è la stessa assolutezza di ogni Suo attributo.
ALLAH MALIK AL-MULK
Dio, il Re dei re, non si limita alla proprietà del proprio castello estendendola su tutto ciò che è, il suo regno. Egli è di tutto proprietario e a garanzia della propria unità si trova presso di sé in ogni sua proprietà.
Dio è tutto intero in ogni punto di se stesso. Noi siamo gli stessi attributi con cui descriviamo Dio.
L’IMMENSA VACANZA DELL’ASSOLUTO
L’Assoluto manca la sua posizione. Poiché non è un ente tra gli enti né l’Ente tra gli enti. È la stessa proprietà fondamentale degli enti, l’assolutezza.
Ciò che si cerca è l’introvabile vuotezza.
Ciò che si serve è l’imperdibile pienezza.
Gli enti non cessano di vagare immobili a tutela dell’immensa vacanza dell’Assoluto.
In ciò Dio è immondo, è il suo sporco gioco.
Caro Eddymanciox,
grazie innanzitutto del tuo commento intenso e anche suggestivo. Provo a risponderti, anche se non sono sicuro di averti capito bene.
Ciò che tu proponi mi sembra l’idea secondo cui Dio consista nell’essere assoluto o indeterminato. In altre parole, ti muovi sulla linea inaugurata da Anselmo o riproposta da Cartesio, con la sua prova basata sull’idea dell’infinito che è in noi. Niente da obiettare a ciò. Con un’unica aggiunta (che a me sembra però non potersi assorbire): in noi è presente, insieme all’idea dell’essere assoluto, anche la realtà della nostra finitezza. In altre parole, noi siamo cielo e terra. Non sono così sicuro che l’Essere sia univoco; forse, è meglio dire che nell’uomo l’essere si dà insieme (co-originariamente, come avrebbe detto Heidegger), come essere infinito e finito. Insomma, non c’è solo Essere, ma c’è Essere e Tempo. Pensa anche al ruolo del silenzio nella teologia negativa dei filosofi: il silenzio è simbolo non solo della pienezza dell’essere, ma anche della nostra incapacità di nominarlo. E ora, tre citazioni: in Guida I,59 (nel bel mezzo della discussione sugli attributi negativi di Dio), Maimonide cita un verso dei Salmi (Il silenzio, per Te, è lode) e uno dell’Ecclesiaste (Dio sta in cielo e tu sei sulla terra. Perciò, le tue parole siano poche). E infine, Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna: “Natura umana, or come,/ se frale in tutto e vile,/ se polve ed ombra sei, tant’alto senti?/ Se in parte anco gentile,/ come i più degni tuoi moti e pensieri/ son così di leggeri/ da sì basse cagioni e desti e spenti?”. E ora, ti saluto caramente, vado a leggere L’essenza del nichilismo del tuo amato Severino.
Buonasera Prof, come va?
Dunque non voglio occupare troppo spazio per un discorso che tocca solo tangenzialmente l’articolo:
– sulla prova ontologica: più che intuizione dell’infinito o dell’eterno (che vi è, in ognuno di noi, ma di per sé come può essere valida?), la intenderei come definizione di Verità, quale ciò che è uno, dunque senza limiti, come ciò che non cambia, dunque eterna, e come ciò che verifica ogni stato di cose possibile. La Verità così definita mi pare coerente anche se, meinonghianamente, non si sa se è. La Realtà potrebbe essere imperfetta e con ciò minore della Verità. E allora Verità non sarebbe; ma nemmeno la Realtà, che sarebbe appunto in divenire e divergente da sé stessa.
– sul finito: non mi pare di avere esperienza del finito; cercando i confini della mia anima non li ho mai trovati; quelli sono orizzonti e man mano che li si avvicina rivelano nuove posizioni prima occulte. Non ho mai tentato il grande salto, quello che viene comunemente detto “morte”, ma mi riservo di farlo più in là, non ho fretta.
– sul silenzio e i nomi di Dio: i nomi di Dio sono molti e nessuno come sono molte e nessuna le descrizioni di un qualunque oggetto. Ci sono infinite cose da dire anche definendo una banana, poiché anche ritenendo un oggetto tutte le sue proprietà sono relative e tutte le sue relazioni con tutto il resto sono sue proprietà e non basterebbe una vita per dirle. Dunque nominalismo: il nominalismo dei nomi conduce al realismo della realtà.
– sulla determinazione o meno di Dio: Dio è eterno e uno. L’Uno è l’eternità di ciò che appare. L’essere dell’assoluto è totalità intrinseca, esistenza simultanea; la scienza dell’assoluto è totalità estrinseca delle apparizioni. Dio è determinato perché è l’essere sé delle determinazioni; Dio è indeterminato se si intende Dio una forma propria, perché tutte le forme sono forme di Dio.
Dio non è Ente tra gli enti né totalità concreta delle apparizioni (verrebbero escluse quelle discrete), bensì l’essere sé della sua forma. Ogni anfratto del castello è Re.