CARLO ANGELINO – SULLA FILOSOFIA DI SEVERINO
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L’eterno occhio infallibile investe […] il Tutto, la natura e la storia, l’uomo e il Dio, il cielo e la terra e, in questo senso, riconduce ad unità ogni possibile contrasto, ogni possibile antitesi. Per ciò che si riferisce all’uomo, la filosofia severiniana rappresenta il fondamento di un nuovo rapporto con le cose e, in particolare, con la terra che, sottratta all'”isolamento” in cui la metafisica l’ha confinata, può ritornare ad essere la sua dimora originaria. Severino è, in quest’ultimo senso, un pensatore “greco”, il cui intendimento finale consiste nel ristabilire quell’unità originaria di uomo e physis che l’uomo stesso ha spezzato per affermare la sua libertà e volontà di dominio, a prezzo della propria finitezza e mortalità.
Una testimonianza di questo evento tragico è ancora avvertibile nel pianto di Teti e delle Nereidi quando Achille, nei primi 144 versi del libro XVIII dell’Iliade, decide di rivestire le armi e di accettare la morte eroica nel fiore della giovinezza. Quel pianto esprime la malinconia della physis eterna di fronte alla decisione dell’uomo di separarsi dal suo grembo immortale.
[Carlo Angelino, L’errore filosofico di Martin Heidegger, Appendice]
@ILLUS. by FRANCENSTEIN, 2022
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Caro equipaggio di Arena Philosophika, vorrei in poche parole lasciarvi un ricordo di Carlo Angelino, anche se bisognerà ancora ritornare sul suo pensiero con interventi più ampi e meno aneddotici. Ho conosciuto Carlo al mio primo anno di università nel lontano 1984-1985. Il corso suo che allora seguii era di Filosofia della religione, la cattedra che Angelino aveva ereditato dal suo maestro Alberto Caracciolo. Il tema era quello di un accostamento tra Nietzsche e il libro biblico di Qohelet, autori che Carlo amava particolarmente. Altri corsi sarebbero seguiti; ne ricordo in particolare uno di Estetica, in cui veniva proposto un accostamento tra la Bibbia, Giuseppe e i suoi fratelli di Mann e il Mose’ e Aronne di Arnold Schoenberg. Anche solo da queste brevi citazioni, emerge la pratica filosofica di Carlo, che si muoveva tra Atene, Gerusalemme e l’arte. Nella seconda metà degli anni ‘80, i suoi temi preferiti erano costituiti dalla finitezza dell’essere (essere come tempo) e dalla meditazione dell’essere per la morte dell’uomo. La sua concezione però della filosofia non era quella di una cura mortis; al contrario, amava la vita, i rapporti tra le persone e i viaggi. Di lui, mi piaceva in particolare la sua capacità di muoversi tra le più lontane latitudini filosofiche; fu lui a suggerirmi ad esempio di studiare il neoplatonismo di Ibn Gabirol. Ricordo in particolare un nostro dialogo sulla profetologia di Maimonide; lo affascinava la classificazione delle diverse forme di profezia offerta dalla Guida dei perplessi. In questa occasione lo ricordo in particolare con i versi del Coro dei morti dalle Operette di Leopardi. Penso che adesso la ignuda natura dell’uomo se ne stia, “lieta no, ma sicura”, tra le braccia di Madama Morte. Caro maestro, zikhrono li-vrachah!
Carissimo Roberto,
Leggo adesso, per caso, le tue parole su Carlo e ne sono commossa.
Manca, manca sotto tutti i punti di vista.