CONTRO L’ESSENZIALISMO SOCIALE

Uno degli ambiti più popolari nella discussione ontologica contemporanea è certamente quello dell’ontologia sociale: questa disciplina filosofica studia la realtà sociale. “Realtà” qui è il termine chiave: l’approccio dell’ontologo sociale è infatti radicalmente diverso da quello del sociologo, in quanto il secondo può studiare la società senza preoccuparsi di ciò che esiste. Egli può, ad esempio, trattare di fenomeni sociali senza porsi domande riguardo l’effettiva consistenza ontologica di questi fatti e della (o delle) società, mentre porsi questi quesiti è precisamente il compito dell’ontologia sociale.
Pur essendo relativamente recente (possiamo porre le origini di questa disciplina filosofica specifica ad inizio novecento, per opera di Husserl), la discussione in merito è piuttosto ampia e si concentra già in diverse correnti. La corrente più popolare, contro la quale si volge questo articolo, è quella essenzialista (o, più generalmente, realista), la quale sostiene l’esistenza effettiva di fenomeni sociali in quanto enti di qualche tipo (proprio grazie a ciò, spesso si parla anche di veri e propri “oggetti sociali”), per quanto non materiali, che possono quindi essere individuati, studiati e descritti in maniera del tutto indipendente da altre categorie di entità. Come tutte le classi di enti, anche per gli oggetti sociali è possibile individuare delle caratteristiche necessarie ed universali, essenziali insomma, ed individuare queste è proprio l’obiettivo della corrente essenzialista. È, insomma, una tesi non-riduzionista della società e dei fatti (o oggetti) sociali.
In questo articolo vorrei, tuttavia, porre un quesito, ovvero: e se non esistesse nessun tipo di fatto (o oggetto) sociale? E se, quindi, la gran parte (se non la totalità) della discussione riguardo l’ontologia sociale, considerando la determinante influenza del paradigma essenzialista/realista, sia stata caratterizzata da errori di fondo, da presupposti fallaci? In questo articolo vorrei argomentare come potrebbe effettivamente essere questo il caso, o quantomeno come questa posizione potrebbe essere meno assurda di come appare a prima vista, basandomi sulle tesi di Gustav Ramström, (ex) professore di scienze politiche all’Università di Stoccolma.
Le tesi di Ramström si trovano in due articoli fondamentali, pubblicati entrambi nel 2018 su due riviste di spicco, una nel settore della filosofia delle scienze sociali e l’altra nella sociologia, e si intitolano The Analytical Micro-Macro Relationship in Social Science and Its Implications for the Individualism-Holism Debate (La relazione micro-macro analitica nelle scienze sociali e le sue implicazioni per il dibattito individualismo-olismo) e Coleman’s Boat Revisited (La barca di Coleman rivisitata). Credo sia interessante partire dal titolo del secondo: il suo bersaglio polemico in questo articolo, infatti, è James S. Coleman, famoso sociologo del XX secolo che contribuì a estendere la teoria della scelta razionale anche alla sociologia, partecipando a quella che viene definita la rigorizzazione delle scienze umane che inizia negli anni 40-50 e continua almeno per il resto del XX secolo.
Coleman svolse la sua formazione sociologica sui testi di Émile Durkheim, dal quale ereditò la tesi dei “fatti sociali” come enti irriducibili ai fenomeni sottostanti, ovvero quelli individuali. Coleman, infatti, nella sua trattazione più sistematica, Fondamenti di Teoria Sociale, sistematizza anche questa nozione di sociologia durkheimiana, ponendola in una dicotomia del tipo “micro-macro”, ovvero distinguendo tra due livelli di indagine, distinti per quanto interrelati, il livello micro(sociale) ed il livello macro(sociale), paragonando questo dibattito ad altre controversie, come quella in filosofia della mente (sul legame tra il cervello, livello micro, e la mente, livello macro). Il livello microsociale è quello degli individui e delle loro azioni, credenze, propositi… mentre il livello macrosociale è quello dei fatti sociali, come le istituzioni, le comunità e le nazioni. Il legame tra questi due livelli è complicato, con catene causali che partono dall’una e dall’altra parte, come mostrato nel suo famoso diagramma, la Barca di Coleman, appunto.
Da qui parte Ramström: il problema principale che egli individua nelle tesi di Coleman (e dei suoi successori) è una mancata presa di coscienza della specificità dell’ambito sociale. Infatti, mentre un trattamento di questo tipo dei dibattiti micro-macro è adeguato ad alcuni ambiti, come quello della filosofia della mente, sarebbe del tutto fuori luogo nell’ambito della sociologia e delle scienze sociali in generale.
Il punto è che esistono due tipi di legame tra un livello micro ed uno macro: il primo tipo di legame, quello che possiamo definire, con Ramström, di tipo A, è anche detto dall’autore “fisico” o “empirico”, ed è il legame che possiamo individuare, ad esempio, tra la struttura atomica che costituisce il diamante ed il diamante stesso o tra la configurazione neuronale che determina uno stato di dolore e la percezione fenomenica dello stato di dolore. Il punto, qui, è che possiamo distinguere facilmente tra un livello microscopico ed uno macroscopico: possiamo, infatti, attestare l’esistenza di entrambi, cioè possiamo osservare al microscopio la struttura atomica del diamante e poi osservare il diamante in sé, oppure possiamo provare una sensazione di dolore e poi scoprire, tramite l’ausilio di una scansione cerebrale, l’immagine dei neuroni che si sono attivati per produrla.
Immaginiamo però di spostarci nell’ambito dello studio della società e di trattare, ad esempio, di una rivolta. In questo caso, io posso osservare tutti i fatti di livello micro, come le persone e le azioni che queste compiono, posso anche sentire di interviste, di sondaggi per capire quali possono essere le motivazioni dei soggetti coinvolti, ma c’è una cosa che non posso osservare, ovvero la rivolta in sé. In questo caso, infatti, Ramström sottolinea come ci troviamo in una relazione micro-macro di tipo B, anche detta “analitica”, nella quale solo uno dei due, il livello micro, è osservabile, mentre il secondo è solo concettuale, rappresenta cioè solo una definizione, un metodo per riferirsi alla totalità dei fatti singoli senza doverli elencare uno ad uno, oltre che un efficace metodo di generalizzazione e confronto tra fenomeni diversi, senza, però, che ci sia un livello di manifestazione indipendente macrosociale.
Non si può, quindi, studiare la rivolta senza studiare i fatti microscopici che l’hanno causata (mentre si può studiare un diamante senza conoscere la sua struttura atomica, ad esempio), e non c’è legame causale che possa originarsi dal livello macroscopico se quest’ultimo è solo un riferimento linguistico, un’etichetta, una concettualizzazione, una essenza nominale nella mente degli uomini, per citare Locke. L’errore fondamentale di Coleman (& co.) è quello di confondere questi due tipi di relazioni e considerare il legame micro-macro nell’ambito della società in maniera analoga ad altri ambiti, assumendo quindi che vi sia un livello macrosociale osservabile empiricamente e causalmente attivo, mentre non si rende conto di come quest’ultimo sia solo un livello generato dal ricercatore per motivi di semplicità.
Come ho citato prima, tuttavia, Ramström non è mai stato professore di filosofia, ma solo di scienze politiche, ed infatti nei suoi articoli usa diversi escamotage per far intendere che lui non sta cercando di costruire una teoria di ontologia sociale, ma sta solo trattando di scienze empiriche e scienziati sociali. Uno di questi è l’uso di un’espressione particolare, quello di “ontologia fenomenica” (phenomenal ontology), per intendere che lui sta solo trattando di ciò che è empiricamente attestabile (si comprende in questa categoria anche ciò che è misurabile, ovviamente). Potrebbero esistere dei noumeni dietro i fenomeni che osserviamo, ma il compito di indagare fin là viene demandato ad altri.
Il mio obiettivo, però, è quello di espandere l’argomento di Ramström anche al campo dell’ontologia sociale. Se si assume una prospettiva empirista, il passo dalle tesi di Ramström all’ontologia è evidente, in quanto “non empiricamente osservabile” semplicemente equivale ad “inesistente”. Sono convinto, tuttavia, che non sia necessario assumere questo punto di vista per effettuare il passaggio e per mostrare un esempio di ciò ho intenzione di sfruttare uno strumento che ha rivoluzionato la storia della filosofia della fine del medioevo e primomoderna (ma che non è mai stato abbandonato dalla sua prima formulazione): il rasoio di Occam.
Ritorniamo all’esempio di prima: abbiamo detto che, assumendo la distinzione tra tipi di relazioni micro-macro A e B, per studiare una rivolta serve individuare i suoi elementi costitutivi, ovvero i fenomeni microsociali, e fatto ciò avremo compreso e studiato la rivolta (ovvero l’insieme di fenomeni a cui diamo per semplicità il nome di “rivolta”). Ma allora che bisogno c’è di postulare l’esistenza di un ente ulteriore, la “rivolta in sé”, se tutto ciò a cui questo concetto si può riferire nel mondo è già stato elencato? Perché aggiungere altri enti macrosociali reali se non rimane più nulla di nuovo da spiegare? “Gli enti non dovrebbero essere moltiplicati più del necessario”, sosteneva Occam, e non è necessario introdurre altri enti in questa sede.
Ma quindi i sostenitori di forme di essenzialismo/realismo sociale? In questa prospettiva, non si rendono conto di stare ipostatizzando degli elementi meramente concettuali, dei riassunti, e di attribuire proprietà particolari (ad esempio causali) a questi enti indebitamente aggiunti al catalogo ontologico. Le proprietà essenziali che questi studiosi individuano in “oggetti sociali” (concetto che, da questa prospettiva, risulta piuttosto dubbio) sono solamente delle costanti nelle definizioni, dei pattern rispetto al modo nel quale attribuiamo nomi e concetti alle cose. Non svelano, insomma, nessun livello di analisi ulteriore rispetto a quello microscopico, o meglio, lo fanno solo illusoriamente.
La mia intenzione non è qui di sottolineare come l’ontologia sociale sia inutile o impossibile, innanzitutto perché non mi aspetto che queste tesi siano definitive e comunque vanno approfondite, e poi perché ci sono diverse correnti in questa disciplina, come quella proposta da John Searle, il quale si discosta dalla corrente essenzialista/realista, almeno in una certa misura, e può quindi rappresentare un filone di ricerca interessante per il proseguimento dell’ontologia sociale anche a seguito dell’accettazione di questi argomenti.
Ciò che vorrei sottolineare, tuttavia, è che noto molto spesso una certa leggerezza nell’ipostatizzare fenomeni sociali, nel “moltiplicare gli enti”, ed un mio obiettivo è cercare di porre un freno a questo fenomeno e richiamare una maggiore parsimonia, soprattutto metafisica.
@ILLUS. by FRANCENSTEIN, 2025