I FIORI DEL BENE

Mes bras sont rompus pour avoir étreint des nuées. Ho le braccia rotte per le nubi che ho abbracciate.
Questi versi appartengono alla poesia I lamenti di un Icaro, contenuta nella celeberrima opera di Charles Baudelaire I fiori del male. E come un Icaro in volo verso la dissoluzione delle proprie ali di libertà, queste parole vanno a evocare il destino fallimentare e bellissimo dei sognatori, degli uomini soli, dei folli. E dei poeti, naturalmente.
Dandy, scapigliato, maledetto, flâneur: è stato detto molto, a proposito di Baudelaire, il quale nondimeno fu primariamente un osservatore del tempo, un’intelligenza capace di intercettare, carpire e interpretare il tormento isterico che contaminò l’uomo nel suo ingresso in una nuova era. Era il secolo del positivismo, le città cambiavano, si facevano cosmopolite e caotiche, la religione accusava colpi mortali, i vecchi valori sui quali la civiltà occidentale aveva edificato se stessa tremolavano con le scosse telluriche di una nuova era borghese, finanziaria, consumistica, atea, vacua.
«Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di molto repellente». Scriveva così Baudelaire ne Il mio cuore messo a nudo, opera che raccoglie un certo numero di scritti editati postumi e, con ogni probabilità, accumulati durante la vita come spunti per un’opera di prosa mai composta. Ebbene ritorna la grande questione che illumina il principio fondante dell’epoca nuova e che avrebbe marcato in profondità due secoli di storia: l’utile.
Il poeta fugge dall’utile, da ciò che serve, dalla logica contingente del mercato e del denaro, schierandosi parimenti dalla parte «delle nuvole da abbracciare» e delle cose eterne. Fugge dall’utile come Théophile Gautier, «maestro e amico» e dedicatario de I fiori del male, il quale ebbe a scrivere inequivocabilmente: «Il luogo più utile della casa è il cesso». Fugge dall’utile perché esso è riflesso di bisogno e di interesse, di impellenza e animalità, vizi borghesi di uomini inariditi.
L’uomo elude la ferinità perché è in grado di fuoriuscire dal mero bisogno che lo inchioda alla terra e, così facendo, impara a guardare verso l’alto. Egli insomma può sottrarsi all’utile e dedicarsi all’inutile come esercizio di esaltazione della sua stessa umanità, del suo intelletto, del suo cuore. È inutile ogni cosa che abbia valore in sé, perché non conforme al principio produttivistico, performante, consumistico e iperveloce della modernità e della postmodernità. Un principio che, al contrario, vuole assegnare un prezzo a ogni cosa, che trasforma i fini in mezzi, che raffredda lo spirito.
Perché la rovina dell’uomo non si manifesta attraverso le istituzioni politiche, ricorda Baudelaire negli scritti postumi: bensì «attraverso l’avvilimento dei cuori». Rieducare il cuore all’inutile equivale a rieducarlo a ciò che ha valore in sé, che non può essere commisurato con lo scambio o il denaro. Ciò che è inutile – nella società moderna e postmoderna – è ciò che invero schiude varchi di senso, che instaura valori fondativi, che crea legami.
Come l’amore.
Ecco allora spuntare un nuovo, esile fiore dalle macerie desertiche lasciate dalla modernità e dalla postmodernità. Esso è il segno di ciò che ha visto la fine attorno a sé e si trasforma per diventare più forte e consapevole, per sopravvivere ancora. Esso è il segno dell’uomo, della sua humanitas, del suo spirito. Un fiore da ornamento, bellissimo e inutile, che esprime la capacità umana di andare oltre alla contingenza, al bisogno indotto. Un fiore invisibile che continuerà a offrire, a coloro che sapranno percepirne il profumo sottile, il motivo di alzare lo sguardo verso le cose ultime e eterne, verso ciò che rende umani.
«Allora, io rifletto che l’imbecillità e l’idiozia moderne hanno una loro utilità misteriosa, e che, spesso, ciò che è stato fatto per il male, grazie a un meccanismo spirituale, si volge in bene»[1].
[1] M. Butor, Histoire extraordinaire, essai sur un rêve de Baudelaire (1961), trad. it. S. Stefanoni, Una storia straordinaria. Saggio su un sogno di Baudelaire, Se, Milano, 2014, p. 13.