ITALIAN THOUGHT E INTERNAZIONALISMO NON GLOBALITARIO
Estratto da Corrado Claverini, La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi, Quodlibet, Macerata 2021.
DALL’INTRODUZIONE
Uno dei temi filosofici più discussi degli ultimi anni è senz’altro quello relativo alla specificità del pensiero italiano. In particolare, le domande al centro dei dibattiti sono di due tipi: a) è legittimo parlare di una filosofia italiana? Oppure la filosofia, in quanto tale, è apolide e non è determinata da fattori di tipo territoriale? b) Posto che sia ammissibile l’esistenza di una filosofia specificamente italiana, qual è la sua essenza? È possibile individuare caratteri peculiari che la contraddistinguano rispetto ad altri patrimoni di pensiero, come quello inglese, tedesco o francese? Oggi l’argomento è, appunto, al centro dell’interesse di molti studiosi. Ma occorre chiarire fin da subito che la questione riguardante la specificità del pensiero italiano non è nuova. Molti studi riconoscono che il primo a trattare in maniera consapevole questa tematica nell’ambito della storiografia filosofica è stato Bertrando Spaventa.
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Nel presente saggio saranno analizzate le principali posizioni in merito al senso e alla produttività che può avere il costante raccordo del pensiero italiano con la propria tradizione e quanto questo raccordo possa oggi funzionare per riorientare lo sguardo filosofico liberandolo da talune «incrostazioni» moderne ormai esaurite o quantomeno divenute assai problematiche. Tale questione verrà affrontata soprattutto attraverso lo studio di un preciso vettore filosofico – quello della «storia della filosofia italiana» – il cui iniziatore è il già menzionato Spaventa. Infatti – prima dell’Italian Thought – è stato proprio tale vettore filosofico a interrogarsi costantemente e con molta forza sull’identità e il ruolo del pensiero italiano. Ma, prima di esaminare le principali prospettive interpretative, dovremo discutere e cercare di risolvere tutta una serie di questioni preliminari già anticipate in apertura. Innanzitutto, occorre chiedersi se sia possibile parlare di una filosofia declinata in senso nazionale o territoriale: infatti, la filosofia aspira per sua natura all’universalità; e l’essere eventualmente determinata da fattori di tipo geografico sembra contraddire questa sua vocazione costitutiva. In secondo luogo, bisogna chiarire, a proposito dell’espressione «filosofia italiana», il significato da dare all’aggettivo «italiana»: ci riferiamo alla nozione statuale o a quella nazionale o, ancora, a quella geofilosofica di territorio? In terzo luogo, è necessario ragionare anche sui pericoli che comporta una riflessione di questo tipo il cui rischio concreto è di trasformarsi in ideologia nazionalista. Un altro punto decisivo che dovremo affrontare è che cosa significa e che senso ha oggi parlare di una tradizione specificamente italiana in un mondo sempre più globalizzato. Per esempio, sarà utile discutere il valore che può avere la riscoperta di tale patrimonio di pensiero nell’attuale contesto europeo e mondiale. Il che può essere anche un’occasione per riflettere sull’identità italiana e su quella europea.
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Ecco perché una ricerca di tal genere è necessaria e non anacronistica. Infatti è di fondamentale importanza oggi tentare di rispondere ad alcuni interrogativi di stringente attualità: che valore hanno le tradizioni nazionali (nel nostro caso filosofiche)? È opportuno continuare a usare il concetto di nazionalità? E in che modo? Anche perché è bene evitare che l’utopia illuministica della pace perpetua internazionale si trasformi nella distopia di un cosmopolitismo indifferenziato. La soluzione non risiede certo nella chiusura nazionalistica, da respingere tanto quanto la globalizzazione transnazionale. Rifiutando sia il globalismo, sia il nazionalismo, occorre quindi chiedersi: è pensabile una terza via alternativa tanto al nazionalismo quanto al globalismo? Ovvero, è possibile una salvaguardia delle culture nazionali senza nazionalismo? È concepibile un «internazionalismo» alternativo al paradigma «globalitario»? Sono queste le domande che ci accompagneranno lungo il tragitto che si dispiegherà nei prossimi capitoli e a cui si è cercato di rispondere.
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DALLA CONCLUSIONE
Se si presta la dovuta attenzione, appare evidente come le principali tesi sulla «differenza italiana» – pur nella loro innegabile diversità – abbiano qualcosa in comune: il pensiero italiano è stato descritto come una filosofia dell’immanenza (Spaventa e Gentile), una filosofia mondana e terrena (Garin), una filosofia della vita concreta (Esposito). Da una parte si è insistito sul rapporto teso e agitato del pensiero italiano con il potere (Spaventa ed Esposito), dall’altra sulla sua vocazione etico-civile (Garin e Ciliberto) e sul suo essere più una filosofia della «ragione impura» che della «ragion pura» (Bodei). In breve – sebbene mossi da diverse esigenze teoriche e intenti programmatici – gli interpreti della tradizione filosofica italiana hanno insistito tutti sull’effettualità di un pensiero che proclama esplicitamente il primato della ragion pratica su quella teoretica.
La filosofia italiana è stata sempre una filosofia dell’immanenza, della critica dei poteri e dei saperi, della concretezza storica e politica: da Telesio (con l’indagine della natura «iuxta propria principia») a Leonardo e Galilei (con rilievo dato all’esperienza e la libera osservazione della natura), da Bruno (con il panteismo) a Campanella (con la valorizzazione della soggettività e la sua utopia, la Città del Sole, progetto di riforma da attuarsi in questa terra e non – direbbero i medievali – da rimandarsi nell’aldilà), dall’Umanesimo civile a Machiavelli (con la «verità effettuale»), da Gioacchino da Fiore a Vico e dal neoidealismo al marxismo italiano (con le loro filosofie della concretezza storica), dalla filosofia civile (da Romagnosi a Cattaneo e Ferrari fino al neoilluminismo di Abbagnano e Bobbio) all’odierno Italian Thought.
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In un momento storico in cui l’euroscetticismo è sempre più diffuso, la sfida più grande consiste proprio nel capire come la diversità culturale sia una grande risorsa, piuttosto che un insormontabile ostacolo. In altri termini, occorre tener ferme le rispettive differenze nazionali, non per innalzare muri e barriere, ma per promuovere il dialogo interculturale e riaffermare una solida unità che non può venire se non dalla cultura. In conclusione, si tratta di salvaguardare le identità e le culture nazionali non a scapito del cosmopolitismo, ma in nome della sua vera natura, a distanza di sicurezza da ogni forma di identitarismo e di nazionalismo. Oggi più che mai bisogna ripartire da qui.
LA TRADIZIONE FILOSOFICA ITALIANA