LA LEGNA E LA CENERE
Nel presente contributo il giovane Caiano (aka Destiny Kid) introduce il lettore alla questione della forma (o del mondo che dir si voglia) fornendo una riflessione aderente alla prospettiva severiniana, per cui essa non è da distinguersi dalla sostanza. In contrapposizione alla proposta aristotelica, le determinazioni vengono considerate quali inclusive dei loro tempi (o spazio-tempi) di apparizione, tali da essere, nel loro stesso essere determinate, identiche in loro stesse eternamente, unite in continuità e costitutive dell’Uno. Vi è da dire che la teoresi schiettamente parmenidea di Severino-Caiano non è un’interpretazione che s’aggiunge all’apparizione, quanto piuttosto quell’accortezza che smette di aggiungere l’ipotesi tempo, conoscendone l’implicazione fondamentale quale negazione (sconosciuta) dei positivi.
La legna e la cenere:
per un’introduzione
all’ontologia severiniana
La legna e la cenere. Emanuele Severino (1929-2020) amava usare questa metafora, per illustrare il principio che sta alla base del suo pensiero. “Tutte le cose, nel nostro modo di pensare, sono legna che diventa cenere”, questa frase è pronunciata dal filosofo bresciano in un corso tenuto a Bologna nel 2008 (i video degli incontri sono disponibili su Youtube). Ma “La legna e la cenere” è anche il titolo di un libro, pubblicato da Severino nel 2000. Perché vale la pena di parlare di questa metafora? Perché essa è esemplificativa, ci permette davvero di pensare “alla Severino”, di comprendere il contenuto di questa filosofia, e lo fa “costringendoci” a vedere quel contenuto nella realtà di ogni giorno, in ogni forma di trasformazione.
Chi di noi non ha mai visto il fuoco? Chi non si è mai fermato ad osservarlo? Pensiamo ad un ciocco di legno in un camino. Il fuoco viene acceso e la legna inizia ad essere avvolta dalle fiamme. Mano a mano che passa il tempo, il nostro ciocco rosseggia, sempre di più, fino a che non inizia a sfaldarsi. Piano piano il colore della legna passa dal rosso acceso al bianco, finché essa non perde la forma originaria e diventa, effettivamente, cenere: la legna e la cenere, appunto. Questo è ciò che vediamo, ci sembra ovvio, tant’è che parlarne non parrebbe avere alcun tipo di utilità. L’illustrazione riassume, schematicamente, il processo descritto sopra:
Da L (legna), che percorre e affronta diversi stadi di trasformazione, si arriva a C (cenere). Siamo dinanzi ad un processo che porta dal ciocco integro al ciocco incenerito, il risultato di questo processo. Vediamo però più in profondità cosa succede – o meglio, cosa crediamo che succeda:
Poniamo che a sia il ciocco di legna di partenza e b la cenere (o l’ultima configurazione della legna, ormai trasformata). È evidente che non ci troviamo di fronte al semplice “iniziare ad essere” di b, giacché, nel risultato che ha portato dal ciocco alla cenere, abbiamo assistito ad una trasformazione di a. Di conseguenza, b può esserci solo in seguito ad una trasformazione subita da a. Il risultato R di questo processo, però, è a=b. Questo significa: a che diventa b è uguale a b, ossia la legna (a) che diventa cenere (b) è uguale alla cenere (a=b), che quindi inizia ad essere. Forse è già possibile incominciare a comprendere che c’è qualcosa di strano in tutto questo, ma proseguiamo. Come detto, a per diventare b perde qualcosa, diversamente non sarebbe spiegabile come si potrebbe dire che a=b, ovvero che a che diventa b è b. Da questo capiamo come a, di partenza, sia diverso da b, e che per poter ammettere l’uguaglianza a=b è necessario che una parte di quell’ a iniziale non sia più, svanisca, si annienti. Riassumendo, prima in formule e poi in parole:
– Se a, per diventare b, deve in parte annientarsi, allora [a=b] = [a –> n] (in cui n è nulla).
– Se la legna, per diventare cenere, deve in parte annientarsi, allora dire “la legna che è cenere” (“la legna diventa cenere”) equivale a dire che “la legna diventa nulla”.
La legna, a, equivale alla non-legna, a non-a; la cenere, b, equivale alla non-cenere, a non-b. Ogni “ché” è identico a ciò che esso non è. A questo punto è evidente che qualcosa non va. Dinanzi a quale enorme problema ci ha portati questo innocuo esempio di trasformazione (l’ardere della legna)? Alla negazione del principio di non-contraddizione, principio che Aristotele chiamò βεβαιοτάτη αρχή e che i latini tradussero con principium firmissimum. Che cos’è, questa non-contraddizione? Aristotele, nel libro Γ ((Gamma)) della Metafisica, scrive:
«È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo.»
La dea del poema di Parmenide, parlando dei mortali, racconta di come questi siano
«(…) sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio, dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa e non la medesima cosa (…)»
Per poter considerare la realtà, per aver dinanzi per davvero il reale, dobbiamo accorgerci di questa sua legge immutabile: ogni cosa è diversa dall’altro-da-sé. Per lo stesso motivo per cui non potremmo ammettere che io mi trovo qui, a casa mia a Torino, a scrivere su questo computer, e al contempo su una paradisiaca spiaggia caraibica, per quella medesima ragione non possiamo accettare che la legna possa diventare cenere, perché facendolo ne verrebbe che essa non è se stessa, e la processualità che – a nostro vedere – porterebbe da L a C non cambia la situazione, non fa venire meno l’enorme contraddizione che il nostro pensare la trasformazione comporta.
Ma dove vogliamo andare a parare, nel dire che è folle asserire l’uguaglianza a = non-a (la legna è la non-legna)? Negando che le cose si possano trasformare, vogliamo dire che il mutare delle cose è impossibile? Neanche per sogno. La filosofia non si deve mai proporre di negare la realtà: fin dalle sue origini, il rivolgimento filosofico al mondo ha come fondamentale scopo quello di disvelare ciò che è nascosto, il senso autentico delle cose, che spesso e volentieri risiede nelle profondità del non-detto e del non-pensato, non nella superficie. In greco antico, verità si dice αλήθεια ((alétheia)), il cui significato letterale è “ciò che non si nasconde” (α – λήθεια, alfa privativo come prefisso di un derivato del verbo greco medio-passivo λανθάνεσθαι ((lanthànesthai)), “nascondersi”). Verità, quindi, vuol dire fin da subito alzare il velo che nasconde la più autentica natura delle cose.
Tornando a noi, se mettendo a nudo la nostra comune considerazione di un normalissimo processo di trasformazione ci troviamo dinanzi ad un problema così grande, quale la negazione del principio di non-contraddizione, il problema non risiede certamente nelle cose, ma nel nostro modo di vedere le cose. La follia è il nostro sguardo sul reale, non il reale. E qual è, allora, il rivolgimento autentico al reale con cui possiamo vedere per davvero le cose? Quale è la non-follia? Abbiamo visto come il problema risieda nell’intendere il mutare delle cose come il loro radicale divenire, il loro diventare altro da sé. Se quindi il mutare non è questo, ne viene che le cose che mutano non possono smettere di essere loro stesse, nel loro mutare. Citando Severino, “se ogni <<ché>> non diventa altro, non sarà esso eterno?”. Folle è dire che le cose diventano ciò che esse non sono, e per evitare questa follia è necessario ammettere che ogni cosa è un eterno. La legna spenta è eterna, la legna che rosseggia è eterna, la legna carbonizzata è eterna e la cenere, anch’essa, è eterna. Qualcosa è eterno solo se non nasce e non muore, se non viene dal nulla e non va nel nulla: se ogni cosa è eterna, il nulla è soltanto un folle sogno.
Eppure, giunti a questo punto, non ci sembra di essere ancora convinti. Si potrebbe dire “Perbacco, però prima c’era la legna e ora c’è la cenere! Come possono essere degli eterni, la legna e la cenere, se prima vedo una e poi vedo l’altra!”. Certo, il processo che prendiamo in considerazione in questo articolo inizia con la legna e finisce con la cenere: in un primo momento appare L e solo dopo appare C. Proviamo a chiarire quel che fatichiamo a vedere, servendoci di questo disegno:
Prima di accendere il fuoco, vediamo la legna spenta (L1). Poi l’accendiamo, e la vediamo in fiamme (L2); essa poi inizia a rosseggiare, assumendo diverse tonalità di rosso (L3, L4, L5, L6); dopodiché, la legna biancheggia (L7), fino a sfaldarsi. Quel che vediamo alla fine è la cenere (L8/C). È proprio vero che noi vediamo la legna diventare cenere? Non è forse più corretto dire che vediamo la legna in diverse condizioni, condizioni che ci appaiono legate da una qualche forma di consequenzialità, per poi avere dinanzi a noi la cenere? E non è altrettanto vero che in alcun modo una spiegazione di questo tipo potrebbe andare a negare l’evidenza della diversità tra l’inizio del processo (L1, a) e la sua fine (L8/C/b), nonché tra inizio, fine e stadi intermedi?
In fin dei conti, si tratta di vedere bene. Non è in questione ciò che vediamo, ma il nostro modo di farlo. L’errore non risiede nelle cose, bensì nel nostro interpretare ciò che esse sono. A livello di fenomenologia pura, lo scenario descritto dal primo e dal secondo disegno non differisce di una virgola da quello presentato dal terzo. Ciò che cambia, appunto, è il valore che noi attribuiamo a ciò che vediamo. È del tutto impossibile che ci si mostri il diventar nulla da parte della legna, così come è impossibile che ci appaia l’incominciare ad essere della cenere dal nulla. Legna e cenere esistono eternamente, autonomamente, e ci si mostrano in una certa successione di istanti. Questi istanti sono eterni, sono la legna spenta, rosseggiante, biancheggiante, questi istanti sono anche la cenere. Non può esserci una stessa legna che muta, ma ci sono tante legne – eterne ed immutabili – che si susseguono, lasciando spazio l’una all’altra, finché non apparirà la cenere, e con essa la fine del fenomeno su cui ci siamo soffermati in questa riflessione. Questa la realtà delle cose: il divenire è un’interpretazione impossibile, il susseguirsi di eterni è l’evidenza innegabile.
Ecco dunque il cuore della cosiddetta filosofia “di Emanuele Severino”. Il professore deprecava questa modalità di riferimento al pensiero che ha esposto per tutta la sua vita, perché giustamente ricordava come il contenuto evocato dalla filosofia non potesse essere “di qualcuno”, ma fosse piuttosto lo sfondo originario che è lo stesso esistere delle cose, il loro stare. Lo stare è il fondamento, è il “primitivo”: non a caso, la filosofia contenuta negli scritti di Severino è il linguaggio che testimonia il destino, ove il de-stino (de intensificativo come prefisso del verbo stare) è la realtà delle cose. Come dicevamo all’inizio, “tutte le cose sono legna che diventa cenere”, e perciò le conclusioni a cui siamo arrivati riflettendo su questa trasformazione valgono per ogni altra “trasformazione” (o presunta tale). Tutti noi siamo legna e cenere, tutti noi, quindi, siamo eterni: che ne è della morte, senza il nulla? Abbiamo a che fare con l’essere, soltanto con l’essere, e con nient’altro. Ecco cosa la legna e la cenere ci insegnano, in ogni momento, usque in aeternum.
PIETRO CAIANO (DESTINY KID)
BIBLIOGRAFIA
– Metafisica, Aristotele (libro Gamma).
– Sulla Natura, Parmenide (frammento DKB6).
– La storia, l’aldilà, il destino, video-corso tenuto dal professor Severino e prodotto dall’associazione Asia Bologna. Frutto della partecipazione del professore alle Vacances de l’Esprit 2008.
– Severino a=b
– Severino a+b la legna e la cenere
Gli schemi sono stati curati dall’autore dell’articolo.
@ILLUS. by AGUABARBA, 2020
La legna non ha coscienza di diventare cenere bruciando. L’uomo ha coscienza di diventare cenere invecchiando.
Io chiamo ERGIA quella forza universale che si trasforma nel suo divenire altro da sé: IN + ERGIA è l’ergia divenuta fenomeno di un certo tipo nell’energia cosmica diveniente.
Anche gli umani sono un fenomeno ergetico dell’energia perpetuamente diveniente, ma essi sono coscienza di questa trasformazione: ecco perché è un delitto perpetuare la coscienza umana del divenire ergetico!
Così parlò Dexistens.
…siccome mio nonno materno è morto in un campo di concentramento nel quale è stato internato per aver partecipato allo sciopero nella FIAT torinese del marzo 1944 sono piuttosto sensibile ai misfatti nazifascisti: qualche sopravvissuto dei Lager dice di aver visto gettare vivi nei crematori degli esseri umani!
Bruciare vivi, essere bruciati vivi, questo è il problema; poi, finché nel crematorio si getta della legna da ardere per riscaldarsi, questo non è un problema, dacché quello non è un crematorio ma un caminetto. Mi spiego?
Così parlò Dexistens.
Dispiace per il nonno. La violenza quale volontà di annientare compone orrori infernali. Che possa un giorno la mansuetudine del filosofare placare gli uomini. O anche risparmiare le sofferenze prevenendole, come auspica lei.
L’esempio della legna e della cenere è copiato da Eihei Dōgen, il fondatore del Buddhismo Zen Sōtō.
‘La legna da ardere diventa cenere, e (una volta bruciata) non torna indietro di nuovo a essere legna. Tuttavia, non si deve pensare che la cenere venga dopo e che la legna da ardere venga prima. Si sappia che la legna risiede nella sua “posizione dharmica” (cioè non muta la sua natura), e c’è un prima e c’è un dopo [come momento separati].
Shōbōgenzō – Eihei Dōgen (1200 -1253)
Buonasera! Sono l’autore dell’articolo.
Mi scuso per il ritardo con il quale le rispondo.
Onestamente, non conosco il pensatore a cui lei sta facendo riferimento, nonostante mi stia addentrando nel pensiero indiano proprio in questo periodo. Penso che per opinare su eventuali “plagi” dovrei avere un’idea complessiva di ciò di cui stiamo parlando; sarebbe utile anche avere di fronte argomentazioni più articolate e riferimenti testuali più approfonditi…
Ad ogni modo, vi è senz’altro una fortissima assonanza tra quanto afferma un certo pensiero indiano – questo maestro buddhista in particolare, ma anche la dottrina del brahman-atman come beatitudine/gioia (“ananda”) nella prospettiva upanisadica – e la filosofia di Severino. Ricostruire queste somiglianze e questi contatti (ammesso che ve ne siano stati) sarebbe estremamente interessante.
Mi lasci soltanto dire che quella della legna e della cenere è un’esemplificazione per rendere più facilmente comprensibile un pensiero che si situa altrove, sia rispetto alla tradizione occidentale, sia rispetto a quella orientale. Lo spessore e l’originalità della speculazione severiniana non si riducono ad un esempio con fini didattico-espositivi.
Riceverei con piacere una sua gentile risposta, in modo tale da proseguire in modo costruttivo questo dialogo.
Cordiali saluti
PIETRO CAIANO
Geniale! I dieci euro che diventano la pizza e la birra…
Si potrebbe dire “Perbacco, però prima c’erano i dieci euro e ora c’è la pizza! Come possono essere degli eterni, se prima vedo gli uni e poi vedo l’altra!”. 😉