PER UN’ONTOLOGIA DEL SIGNIFICATO
Siamo soliti pensare alla dimensione del significato, cioè alla dimensione semantica, in termini meramente linguistici. Implicita, soggiace una separazione tra l’ambito della realtà e l’ambito del linguaggio, della significazione. Tuttavia, già la filosofia greca tendeva ad identificare questi due ambiti: Parmenide asseriva che “lo stesso è pensare ed essere” (laddove il pensiero viene espresso attraverso il linguaggio); inoltre, il logos eracliteo è sì la parola che afferma il reale, ma anche la legge che governa la realtà (dunque, in ultima istanza, la realtà stessa).
Nel corso della storia del pensiero, questa iniziale convergenza tra il significato e l’essere è venuta meno. È proprio del sentire comune affermare che il significato viene attribuito al reale da terzi. I “terzi”, ovviamente, siamo noi. Il reale, così si pensa, continuerebbe ad esistere anche senza significato, o meglio, la realtà sarebbe anche senza significare.
Quest’ultimo punto è insidioso, perché può essere inteso in due modi diversi. A seconda di come intendiamo il significato in relazione all’essere, alla realtà, possiamo trovarci nel giusto o nell’errore quando affermiamo che “la realtà sarebbe anche senza significare”.
È possibile pensare alla dimensione della significazione in senso strumentale. Un ente (se preferiamo, un oggetto, nel senso più ampio del termine) significa qualcosa per noi. Ad esempio, possiamo dire che, se il cielo è nuvoloso, allora probabilmente pioverà e, uscendo di casa, mi converrà ricordarmi di portare con me l’ombrello. Quali sono le posizioni filosofiche che soggiacciono a questa – all’apparenza – innocente circostanza della quotidianità? Anzitutto, entra in gioco la conoscenza del mondo da parte dell’uomo. Tale conoscenza, sia che assuma i connotati della scientificità, sia che non li assuma, si fonda sull’esperienza ripetuta di uno stesso fenomeno, che porta alla formulazione di una legge generale (nella fattispecie, se il cielo è nuvoloso, allora significa che pioverà). La dimensione della significazione diviene la connessione tra una causa ed un effetto, tra il cielo nuvoloso e la pioggia.
In che senso, però, questa considerazione del significato è da leggersi in senso strumentale? Perché ciò che un determinato ente significa interessa in primissima istanza noi, ci interessa. Il fatto che il cielo nuvoloso sia il preludio della pioggia, è un fatto che a noi conviene conoscere per poter uscire con l’ombrello e non bagnarci. Il significato intimamente connesso al cielo nuvoloso (ovvero l’imminenza della pioggia) è un significato per noi. Il cielo nuvoloso, se l’umanità non ci fosse, sarebbe simpliciter un cielo nuvoloso, al quale succederebbe la pioggia. La connessione operata tra i due momenti ha valore soltanto per noi.
Un altro esempio del rivolgimento alla significazione in senso strumentale potrebbe essere questo: spesso, ci si domanda quale sia il senso della vita. Anche qui, il senso della vita non è qualcosa che noi vogliamo conoscere disinteressatamente, di per sé; comprendere il senso della vita, dunque il significato della vita, è qualcosa che ha a che fare con il nostro modo di porci nel mondo. È possibile che noi proviamo insoddisfazione riguardo alla maniera in cui ci poniamo nella realtà; può darsi che consideriamo la nostra esistenza inautentica, e pertanto cerchiamo di darle un senso (significato) autentico, per poter dire di aver vissuto come era giusto vivere. Quest’interesse di vivere autenticamente, è appunto un nostro interesse, dunque il senso della vita equivale a come noi sentiamo che sia giusto viverla, affinché questa sia autentica.
Sic stantibus rebus, ossia intendendo la dimensione della significazione e del senso in termini strumentali, allora possiamo considerare corretta l’affermazione secondo cui il reale sarebbe anche senza significare. Il reale non ha “bisogno” di significare qualcosa per noi. Il reale è; in seguito, noi diamo ad esso un significato.
Ma è questa la sola modalità possibile di intendere la dimensione della significazione? Il significato è sempre solo per noi, o può essere anche un per sé? Anche solo leggendo il titolo di questa riflessione, è possibile intuire che la risposta a quest’ultimo quesito pare essere di tipo negativo.
In che senso è possibile connettere l’ontologia (aristotelicamente, la scienza dell’essere in quanto essere) e la semantica? In che senso essere e significato sono intimamente connessi, indipendentemente dal soggetto umano?
Pensiamo all’ente, a qualunque ente. Come lo possiamo, preliminarmente, definire? Come ciò-che-è qualcosa, come ciò-che-è-qualcosa e non il nulla. Al di là della tipologia dell’ente che pensiamo, al di là della sua “dignità ontologica” (lo stesso discorso vale per l’idea di bene come per il pelo della barba di Socrate), non possiamo pensare l’ente se non in opposizione al nulla: l’idea di bene è qualcosa (l’idea di bene) e non il nulla, il pelo della barba di Socrate è qualcosa (il pelo della barba) e non il nulla. L’ente è anzitutto un positivo, il darsi di una qualche realtà, che si impone sull’assenza di quel positivo. Come potremmo formulare altrimenti questo discorso? Potremmo dire che ogni ente è anzitutto un significato, a cui si contrappone l’assenza assoluta di quel significato.
Essere qualcosa significa NON-essere la negazione di quel qualcosa. Qui, significare equivale ad essere. Ecco in che senso si può parlare di “ontologia del significato”: riformulando, “essere è significato”, oppure “ontologia è semantica”.
Questo modo di intendere la dimensione della significazione non è un per noi: anche se noi non ci fossimo, la realtà continuerebbe a significare se stessa e non il nulla, continuerebbe dunque ad essere se stessa e non la negazione di se stessa.
In questo senso, ci sono due piani distinti di significazione: quello strumentale, che ha valore per noi, e quello ontologico, che è un per sé.
Uno dei pochi pensieri che intendano la significazione in questo senso è quello di Emanuele Severino. A più riprese, nelle sue opere, egli tratta dell’essere in termini di significato. L’intento che soggiace a questa riconduzione della semantica all’ontologia (o dell’ontologia alla semantica) è di far comprendere il senso autentico dell’essere. L’essere non è ciò che permane al di là del divenire (non è trascendente), l’essere non è una dimensione trascendentale, presente in tutti gli enti ma che ha un’esistenza distinta da essi. L’essere non è neppure l’Immediato indeterminato della Logica hegeliana. Per Severino, essere è ogni singola determinazione, anche la più insignificante. Ciò che è proprio di ogni determinazione è di non essere il nulla, di essere un positivo e non il negativo: la determinazione significa qualcosa. In questo senso, potremmo dire, si ha la più radicale considerazione dell’ontologia in relazione alla semantica.
Esiste tuttavia un altro pensiero che connette l’ontologia alla significazione, questa volta in senso strumentale. Si tratta della riflessione di Heidegger.
Heidegger pensa alla realtà come ad una totalità di strumenti. Il modo più generale di darsi degli enti nel mondo è il modo della strumentalità. Ma “strumento” non è soltanto il martello, che ci serve per battere il chiodo; strumento è ogni ente, anche le stelle del cielo. Ogni ente è strumento in quanto è significato. Essere significato significa essere strumento. Il significato è strumento perché la sua funzione è far comprendere la realtà, connettendo tra loro altri significati. È pertanto evidente che gli enti, intesi da Heidegger come strumenti, sono finalizzati. Il fine della semantica del reale è il Dasein, l’uomo. È per l’uomo che gli essenti sono significato, strumento, è per noi. Non è possibile considerare la realtà in termini non strumentali, non funzionali al Dasein. Né questo, peraltro, è l’interesse di Heidegger, il quale vuole analizzare l’Esserci per poter accedere alla dimensione dell’Essere. Solo l’Esserci è in grado di porsi il quesito supremo, quello riguardante l’Essere.
Forse, alla luce di quanto si è tentato di evidenziare, l’accostamento dell’essere al significato può apparire meno astruso. Non si tratta di una confusione tra il piano semantico e quello ontologico; semplicemente, è un modo (se non il modo) per accedere all’autentica comprensione del reale. Infatti, se intendiamo il reale in termini di significato, lo stiamo depurando da tutte le costruzioni che il soggetto ha cucito intorno ad esso per ricondurlo a proprio strumento, lo stiamo considerando per come questo originariamente è. L’essere, in primissima istanza, è significazione di se stesso, e per aprire la riflessione sull’essere, come auspicava Heidegger, è necessario capire che il soggetto non ha voce in capitolo sul senso dell’essere. È necessario altresì comprendere che l’essere non è in alcun modo lo strumento di qualcuno.
Il significato dell’Essere non può essere in alcun modo attribuito, giacché è originario, è l’Originario. L’essere, in conclusione, non ha un significato; l’Essere è significato.
@ILLUS. by AI STYLE TRANSFER, 2021