VIVERE SENZA FONDAMENTO: HEIDEGGER E LA ROSA DI SILESIO

«Nihil est sine ratione» è la proposizione concisa ma perentoria con cui Martin Heidegger, nel semestre invernale del 1955, accoglieva gli studenti del corso di filosofia dell’università di Friburgo. Si tratterebbe a prima vista, prima ancora che di un apoftegma marcatamente filosofico, di un semplice precetto del buon senso: niente è senza fondamento, senza ragione. Oppure, secondo una differente formulazione che mantiene tuttavia inalterato il contenuto del motto, si potrebbe dire che tutto ciò che è, ogni ente, ha un fondamento (omne ens habet rationem).
Questa osservazione, in apparenza scontata e quasi banale, può considerarsi, come non manca di far notare lo stesso Heidegger nel corso delle sue prime lezioni, il fondamento stabile di ogni sforzo speculativo mai compiuto nella storia del pensiero. Al punto che risulta curioso il fatto che la sua effettiva formalizzazione e la conseguente cristallizzazione nelle suddette formule risalgano al XVII secolo, quando Leibniz vi apporrà la famosa definizione di “principio di ragione”. I Milesi e gli altri antichi padri del pensiero occidentale, ivi compresi Platone e Aristotele, avrebbero perciò operato per mezzo di questa ragionevole e autoevidente direttiva più di 2000 anni prima che essa venisse coerentemente sistematizzata.
Affermare che tutto ciò che esiste ha un fondamento suona quasi come una constatazione, qualcosa da cui risulterebbe impossibile discostarsi, una sorta di principio di tutti i principi. La storia delle idee si è sempre mossa, sostanzialmente, all’ombra di questa aurorale tesi del fondamento. Non sorprende, a questo punto, che proprio Heidegger, in qualità di vate del ripensamento delle questioni fondamentali della filosofia, decidesse di dedicare il proprio insegnamento di quell’anno accademico a questo (solo in apparenza) inamovibile principio. Ripensare e ricontestualizzare la tesi del fondamento sarà il leitmotiv di tutte le 13 lezioni del semestre, oltreché di un’apposita conferenza tenuta circa un anno più tardi, nel maggio del 1956.
Facendo uso delle consuete acrobazie linguistiche e vestendo più volte i panni del filologo alla ricerca del significato più pregnante di ogni singolo lemma, Heidegger non tarda nel riscontrare un problema nella formulazione stessa della tesi del fondamento, di fatto mettendone in luce alcune ambiguità. La circolarità della tesi viene da Heidegger riassunta nel seguente interrogativo: poiché la tesi del fondamento è essa stessa qualcosa, e poiché, secondo l’enunciazione stessa della tesi, deve trattarsi di qualcosa dotato di un fondamento, quale sarà il fondamento della tesi del fondamento? L’intricata domanda apre a due possibili scenari. O la tesi del fondamento risulta essere l’unico qualcosa a cui non può essere riferito ciò che essa stessa stabilisce, di fatto cadendo fuori dal suo stesso ambito di validità e configurandosi come priva di fondamento; oppure, rimanendo fedele a sé stessa, la medesima tesi deve esibire per sé un fondamento, perdendo però così il suo status di fondamento ultimo e supremo (e avviando, potenzialmente, una riflessione sui fondamenti dei fondamenti che potrebbe protrarsi ad infinitum).
Riflettendo simultaneamente sulle due ipotesi, Heidegger fa notare come la prima posizione, riassumibile nella proposizione “la tesi del fondamento è senza fondamento”, corra il rischio di non risultare coerente con una regola determinante della logica formale: il principio di non contraddizione. In base a tale principio risulterebbe contraddittorio pensare una tesi del fondamento a sua volta priva di ciò che essa stessa ammette; d’altro canto (e qui si precipita nella seconda ipotesi), riferirsi al principio di non contraddizione costituirebbe un’implicita ammissione del mancato primato della tesi del fondamento: sarebbe infatti lo stesso principio di non contraddizione, ora, a ergersi come vero e proprio fondamento ultimo del reale.
L’impasse venuta così a delinearsi sarà sbrogliata da Heidegger attraverso il ricorso, quanto mai sovente nel suo filosofare, alla parola poetica. Il passo che consente, se giustamente interpretato, di fare luce sull’annosa questione non proviene questa volta, come di consueto, dai versi degli inossidabili Goethe e Hölderlin, bensì dal misticheggiante Pellegrino cherubico di Angelo Silesio. Nella fattispecie, il distico preso in esame da Heidegger è il seguente:
La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce,
di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista.
Il primo verso di Silesio sembra però contenere proprio ciò che viziava così fastidiosamente le precedenti considerazioni, ovverosia una contraddizione. Il poeta sostiene che la rosa è senza un perché, vale a dire senza un fondamento, ma subito dopo parrebbe assoggettare il suo fiorire a una qualche ragione, dal momento che, come nota Heidegger, l’utilizzo della parola “poiché” suggerisce la relazione a un fondamento.
È solo a questo punto, quando si ha come l’impressione di essere nuovamente di fronte a un paradosso logico, che Heidegger si esibisce in una delle sue celebri risemantizzazioni dei termini chiave. Il “perché” e il “poiché” del verso non vanno, infatti, considerati fra loro sinonimi, come l’esperienza comune suggerirebbe. Conformemente alla sua dottrina, Heidegger li riferisce entrambi all’essere proprio della rosa, ma secondo due differenti sfumature. Il “perché” (per-ché, per-che-cosa) è il termine che rimanda alla ricerca delle cause, a quelle cause considerate oggettive e scientificamente individuabili. Un qualunque botanico, dunque, potrebbe senza particolari complicazioni rendere conto del perché la rosa fiorisca, finendo immancabilmente per trovarsi in disaccordo con la sentenza di Silesio. Il poeta, tuttavia, accorda alla rosa una connotazione esistenziale che va al di là della semplice considerazione oggettuale e scientifica; così deve intendersi il “poiché” che illustra la fioritura della rosa: a prescindere dal concorso di cause e motivi proposti a seguito dell’osservazione scientifica, la rosa fiorisce in accordo con il proprio essere. Il senso di tutto ciò viene rettificato nel prosieguo del componimento: di sé (come oggetto contrapposto a un soggetto osservante) non gliene cale, non chiede d’esser vista (d’essere osservata, studiata, sezionata dall’occhio indagatore dello scienziato). Heidegger concluderà che il “perché” è specificamente legato alla ricerca di un fondamento, mentre il “poiché” lo adduce, lo presenta, lo svela.
Sia fatto notare incidentalmente come questa particolarissima interpretazione possa in qualche modo dialogare con alcuni assunti della fisica quantistica. Secondo una nota relazione di Heisenberg, infatti, sarebbe impossibile misurare contemporaneamente in maniera precisa la posizione di una particella nello spazio e il suo momento (ovvero la sua quantità di moto); ciò anche in relazione all’influenza perturbatrice esercitata immancabilmente dell’osservatore sul sistema. La rosa di Silesio si comporterebbe sostanzialmente come le particelle di Heisenberg: tentare di fissarla come oggetto di osservazione in un dato punto dello spazio impedirebbe di coglierne il movimento genuino, ovvero il suo fiorire. Ed essa, infatti, non chiede d’esser vista, pena l’inquinamento del suo fiorire causato in parte dal suo stesso miope osservatore.
Giunto al culmine della sua argomentazione, Heidegger è pronto a sostenere che la rosa è effettivamente senza perché, ma questo non significa, secondo quanto illustrato, che essa sia priva di un vero e proprio fondamento. Esso non potrà però essere inteso in senso oggettivo, come qualcosa di statico e individuabile o, per usare un’espressione lessicale tipica del nostro filosofo, come una datità.
È immancabile, a questo punto, un raffronto diretto con quanto precedentemente già si sosteneva in Essere e tempo in merito alla natura dell’essere: che non si tratti, cioè, di una semplice presenza, di un essere qui ed ora, bensì di un concetto dinamico, in continuo sviluppo e che non può offrirsi alla nostra analisi se non come interpretazione e svelamento.
Da qui in poi Heidegger si produrrà in un’aperta critica al monopolio del furioso pensiero calcolante, della totalizzazione ontica che nasconderebbe il vero senso fondamentale del pensiero e della vita autentici, non oggettivati e reificati, ma colti fenomenologicamente prima che le invasive inchieste della scienza e della tecnica facciano la loro comparsa.
Alla luce di quanto detto, le parole di Heidegger assumono un valore prominente quando esso afferma che «l’uomo è veramente nel fondamento più nascosto della sua essenza soltanto quando, a suo modo, è come la rosa – senza perché».
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DIETRO IL FILOSOFO: L’UOMO E LE IDEE
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