AMMAESTRAMENTI DANTESCHI AL BUON FILOSOFARE

“Che cos’è filosofia?” è una domanda che sembra percorrere tangenzialmente i secoli fin dagli albori della nostra civiltà. Tentare di risponderle, come non mancò di far notare Aristotele, è già di per sé una forma del filosofare, considerando che tanto chi vi si voglia impegnare quanto chi alla fine decida di abbandonare l’impresa dovrà, adducendo i sufficienti argomenti, prodursi in una prestazione di tipo filosofico. Ma dopo millenni è ancora necessario soffermarsi su questo ormai vetusto interrogativo? La risposta è: sì. E per rendere conto della perentorietà di questa salda presa di posizione sarà bene ricorrere a un’osservazione estremamente puntuale di Antonio Gramsci, secondo cui in ogni epoca la filosofia deve assumersi il compito di riproblematizzare i suoi oggetti, tra i quali, come si è appena visto, figura essa stessa. Gramsci sosteneva la necessità, tramite l’analisi filosofica, di rispondere alla domanda kantiana “che cos’è l’uomo?” avendo ben presente che l’uomo contemporaneo è, per forza di cose, profondamente differente dagli uomini di tutte le epoche precedenti; da qui lo stringente dovere di dare una risposta ad hoc a questa domanda che ciclicamente si ripete, epoca dopo epoca, uomo dopo uomo. E per la filosofia si può adottare un metodo del tutto analogo, cercando innanzitutto di mettere a fuoco la concezione che l’uomo moderno ha di questa disciplina. In altri termini, che cosa pensa l’uomo di oggi della filosofia?
L’epoca presente, postindustriale e capitalistica, instilla in ogni suo membro la tendenza a considerare ogni ramo del sapere umano in funzione della sua utilità pratica e del profitto che da esso possa eventualmente scaturire. La domanda che maggiormente sembra prodursi nella mente dell’uomo posto al cospetto del conoscere è dunque sempre la stessa: a cosa mai servirà (in termini di guadagno economico e spendibilità tecnica) questa conoscenza? Ogni materia deve oggi poter rispondere in maniera adeguata a questa ingiunzione, pena il suo declassamento sociale a sapere inconcludente. Questo trattamento non viene risparmiato nemmeno alla filosofia. Ne sono testimoni, prima ancora che gli specialisti del settore, gli ormai sempre più sparuti studenti che intraprendono l’apprendistato filosofico. Le domande che spesso si trovano a dover fronteggiare fanno capo proprio alla logica strumentale poco sopra esposta: perché scegliere una materia del genere? A che cosa serve? A quale mestiere prepara? Tutte domande alle quali lo studente, avvinghiato da un cocente imbarazzo, non sa rispondere in maniera esaustiva. Ma questo non dipende da una qualche sorta di insufficienza argomentativa (cosa in cui lo studente di filosofia sicuramente non difetta), bensì dall’incompatibilità tra la disciplina stessa e i criteri con cui vengono formulate tali domande. Per meglio chiarire questo aspetto sarà necessario rispondere di nuovo alla nostra domanda di partenza, la sola genuinamente filosofica, contrapponendo alla concezione tecnico-strumentale della filosofia una visione più attenta all’intima natura della materia medesima, più in linea con quella che dovrebbe essere oggi la considerazione da accordare alla cultura e ai suoi ambiti.
Nel fare ciò ci si servirà di un interlocutore d’eccezione che ebbe occasione e merito di ricordare ai suoi contemporanei, in maniera non troppo dissimile da quanto sarebbe necessario fare oggi, in cosa consistesse la specificità del pensiero filosofico e la sua autonomia dal reame dell’utile. Dante, spirito profondamente speculativo che alla filosofia si dedicò anima e corpo specialmente dopo il trapasso di Beatrice (avvenuto nel 1290), in un mirabile passo del Convivio espone quello che a suo dire è il profilo ideale del filosofo:
Né si dee chiamare vero filosofo colui ch’è amico di sapienza per utilitade, sì come son li legisti, li medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano, ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero a lo studio.
In aperta polemica con tutti coloro che fanno della filosofia un semplice mestiere (giuristi, medici e clericali nell’esempio dantesco), il poeta traccia immediatamente un confine netto tra ciò che è buona filosofia e ciò che invece della filosofia ha solo l’apparenza. L’elemento di discrimine è proprio “l’utilitade”, declinata nel perseguimento della ricchezza e nel carrierismo sfrenato, rispettivamente “moneta e dignitade”. È significativo che Dante non parli tanto di tecnici o maestri della sapienza ma definisca, invece, il vero pensatore un “amico di sapienza”, rinverdendo l’etimo classico della filosofia: amore per la sapienza, e non mero usufrutto tecnico di essa (giacché allora si potrebbe parlare di qualcosa come una “sofologia”).
Ma se questo primo schizzo dantesco del vero filosofo si ottiene attraverso la negazione del suo contrario (cosa non è il vero filosofo), una definizione marcatamente positiva della filosofia fa subito da contraltare sempre nelle pagine vivissime del Convivio:
Filosofia che è […] amoroso uso di sapienza sé medesima riguarda, quando apparisce la bellezza de li occhi suoi a lei; che altro non è a dire se non che l’anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra sé stessa e di sé stessa innamorando per la bellezza del suo primo guardare.
Il poeta, molto succintamente ma colpendo nel segno, osserva che il filosofare è essenzialmente auto-riflessione e auto-coscienza dei propri metodi (essa “contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello”). A differenza di ogni altra disciplina essa non è solo volta a un oggetto che le sta di fronte, la veritade, bensì anche alla sua propria intima essenza e al proprio intrinseco funzionamento. Come raccolta contemplazione di sé stessa la filosofia si rende autonoma dalle prescrizioni esteriori e si dimostra disciplina diligentissima e valevole in sé e per sé. Un valore di questo tipo, va da sé, non può corrispondere ai termini squisitamente quantitativi che oggi vengono adoperati per misurare ogni sapere tecnico e premiarne, di conseguenza, la più o meno utilizzabilità all’interno del nostro sistema economico. Questi ultimi criteri sono la ragione per cui non si faticherà a trovare, all’interno del nostro tessuto sociale, tutta una serie di figure che dalla filosofia genuina, volenti o nolenti, hanno dovuto scartare reinventandosi volta per volta come consulenti aziendali, addetti al marketing, impiegati delle risorse umane e via discorrendo. Il sistema economico costringe l’umanista alla supina adeguazione, lasciando il mondo spoglio della vera filosofia, che sopravvive (forse) solo nel carcere del mondo scolastico e universitario, da cui non riesce mai davvero a emanciparsi.
La filosofia, dunque, sembra non costituire una scelta di vita conveniente. Ma non essendo la convenienza il fine a cui mira, essa può sussistere, sebbene con un non trascurabile dispiego di forza di volontà da parte dei suoi cultori, anche in ambienti paludosi e malarici come il nostro tempo. O in quelli di Dante, che se diede nel Convivio le sue impressioni in forma prosastica, non mancò di ammaestrare filosoficamente i suoi contemporanei (e tutte le successive generazioni fino alla nostra) anche per il tramite del mezzo espressivo a lui più congeniale: la poesia.
Per ammissione stessa del suo autore, all’interno della Divina Commedia v’è una cantica che spicca sulle altre per il suo contenuto alto e concettualmente complesso. Si tratta del Paradiso, tra le tre quella che maggiormente può dirsi filosofica al punto tale da spingere Dante a mettere in guardia tutti i lettori che vogliano continuarne la lettura privi dei giusti accorgimenti:
O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché, forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
(Par. II, 1-6)
Stia attento il lettore che voglia affrontare argomenti filosofici senza averne cognizione (essendo, cioè, “in piccioletta barca”) e si contenti di ciò che già ha letto fin qui senza procedere oltre (“tornate a riveder li vostri liti”) poiché, non potendo seguitar l’autore in argomenti di siffatta natura, rischierebbe di far confusione e smarrirsi. Fatta questa doverosa premessa, il poeta svolge all’interno del Paradiso un assai ampio ventaglio di temi filosofici e teologici, offrendo mirabili esempi di virtù etica e speculativa. Non potendo in questa sede prender visione accurata di ognuno di essi, limiteremo i nostri approfondimenti ad un paio di esempi particolarmente significativi.
Tra i virtuosi uomini di pensiero che Dante colloca nei cieli paradisiaci, il profilo di San Domenico, lodato per bocca del francescano Bonaventura, può ergersi a paradigma dell’uomo genuinamente animato dall’amore per la filosofia, la cultura e la verità. Al poeta sono sufficienti pochi versi per presentare al suo lettore questa mirabile figura di santo intellettuale:
Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor della verace manna
in picciol tempo gran dottor si feo;
[…]
(Par. XII, 82-85)
Domenico diviene qui l’exemplum concreto di quanto Dante esprimeva già nelle prose del Convivio. Si tratta di un uomo dedicatosi alla cultura (“in picciol tempo gran dottor si feo”) per amore della verità e della sapienza (“per amor della verace manna”), dunque allineandosi alla perfezione con l’originario afflato della filosofia e in nettissima contrapposizione agli Ostiensi e ai Taddei, nomi di maestri di diritto e medici dell’epoca, ovvero quei cultori di iura e aforismi che Dante aveva precedentemente additato come falsi amici della sapienza poiché mossi da interessi puramente mondani (“lo mondo, per cui mo s’affanna”). Ad essi gli spiriti davvero illuminati non possono che opporre una strenua volontà di perseguire il vero come valore in sé e per sé, e ciò ci conduce al secondo (e ultimo della nostra brevissima rassegna) esemplare di vir bonus.
Trattasi di Cacciaguida, trisavolo di Dante che egli colloca nel quinto cielo del Paradiso e a cui il poeta, a mezzo della loro discussione, sottopone un dubbio morale: chi sia in possesso del vero dovrà tacere onde evitare dannose inimicizie oppure seguitare a dire francamente la verità? Di seguito la risposta del venerando antenato:
[…]
indi rispose: «Coscïenza fusca
o della propria o dell’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nutrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
(Par. XVII, 124-135)
Cacciaguida non ha dubbi in proposito: il vero è sempre da preferire al silenzio per convenienza. Sebbene la verità possa urtare le coscienze di coloro che, a causa di opere vergognose proprie o dei congiunti (“coscïenza fusca o della propria o dell’altrui vergogna”), abbiano a male le parole del poeta, nondimeno non si deve tacere. Ed anzi, il fatto di risultare fastidioso e indigesto ai potenti (“le più alte cime”) e di percuoterli con le proprie parole non è, per Cacciaguida, che un valore aggiunto del retto dire (“e ciò non fa d’onor poco argomento”). La verità richiede dedizione e pazienza, e pur se inizialmente osteggiata non risulterà meno nobile e pervasiva una volta che gli animi siano maturi per accoglierla (“quando sarà digesta”). In questi magnifici versi riecheggia, in largo anticipo sui tempi, il kantiano sapere aude declinato in una dimensione etica e civile che richiede, dopo l’uscita da uno stato di minorità intellettuale, la piena aderenza ai propri valori anche sul piano della condotta individuale. Ne consegue un netto e accorato dicere aude.
Sappia dunque il filosofo di ogni tempo, memore degli ammaestramenti del nostro poeta vate, rispondere dignitosamente all’endemica domanda su che cosa sia filosofia: amore disinteressato per la sapienza, non teso al raggiungimento di fini mondani; non pensiero tecnico volto all’agire strumentale, ma strada maestra per la realizzazione umana sul piano dei valori etici e civili, sinolo inscindibile di ragione e buona volontà.
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@ILLUS. by PATRICIA MCBEAL, 2020