L’ESCATOLOGIA TRAGICA DI JACOB TAUBES

Recensione di Jacob Taubes (ed. originale 1947), Abendländische Eschatologie, Matthes & Seitz Verlag GmbH, Berlin 2007, seconda edizione [trad. it., di Giusi Valent, curata da Elettra Stimilli con revisione terminologica di Fabio Minazzi, Escatologia occidentale, Quodlibet, Macerata 2019].
Assegnare un attributo geo-culturale rende manifesto l’operato di una scelta, l’intervento di una separazione: si affaccia quella ricostruzione che prende nome di storia, «perché si situa nella decisione della verità» (p. 29). Ma la storia in quanto decisione (Entschiedenheit, ovvero il momento della fermezza) è la storia di una scissione (Scheidung) e la scissione nasce da un’opposizione, da una negazione; negazione che, nella sua riottosità, nella sua vis etimologicamente polemica, è l’affermazione del principio della libertà che esiste «solo quando è anche libertà di negare» (p. 41). Questo è quanto ha argomentato Jacob Taubes nel suo Escatologia occidentale.
Fin da subito, però, sorgono una serie di interrogativi che non vanno ad esaurire la problematica: che cosa si deve intendere per escatologia? Quale rapporto la lega alla storia? Come intendere in essa la libertà? E ancora, quale tempo è il tempo escatologico? Il giovane rabbino (il libro è un riadattamento della sua tesi di dottorato, pubblicato nel 1947) su questo è chiaro: è il tempo della fine (Endzeit), il tempo come fine; la soppressione definitiva di ogni tempo, il superamento del tempo che viene così ricondotto e riabbracciato da ciò da cui si è strappato, pagando il fio per questo dis-trarsi: «[v]ista a partire dalla pienezza del compimento finale, questa fine temporale è l’eternità» (p. 29). Una versione aggiornata dell’amor dei intellectualis, quel terzo genere di conoscenza codificato secoli prima da Spinoza (che stranamente, ma anche coerentemente, è praticamente assente nel volume di Taubes). Tuttavia lo spirito ebraico, per così dire, in lui insorge; la considerazione che la morte non possa essere metabolizzata, non possa essere fusa all’interno di una «mistica del logos» (così legge l’onda lunga dei Padri della Chiesa che da Origine si espande sino al Natan lessinghiano) e ricompresa in una razionalità cosmica (stoicismo): no, la morte ci fa urlare, ci deve far gridare. È incommensurabile (Šestov).
E da qui si dipana una serie di contraddizioni, di rimbalzi, di rimpalli di negazioni che si riflettono e si flettono, si richiamano e si rinviano: per Taubes l’escatologia come ἔσχατον (eschaton), come atto apocalittico finale è la dialettica dell’Endzeit, del tempo della fine in quanto fine del tempo. Ma cosa resta, allora, dopo la fine? In conclusione del suo libro rievoca una coppia contrastante: il mistero e il sacro. L’onnipresenza del mistero come affermazione dell’homo mensura, come relegamento dell’eccedente (dell’e-sistente) al di fuori dell’in-sistente, ovvero l’uomo stesso che si pone proterviamente come centro assoluto; la chiamata del sacro, che, di contro, assurge a vera «misura di Dio», come estensione della distinzione, della separazione, della grandezza incommensurabile di Dio:
[e]ssere-sacro significa innanzitutto essere separato. Il sacro è lo scandalo che scuote la struttura del mondo. Il terremoto provocato dal sacro fa esplodere la struttura del mondo in vista della salvezza (p. 270).
Noi siamo condannati a vedere le cose in «Spiegel und Gleichins», ovvero il paolino «per speculum et in aenigmate». Ma l’Apostolo va oltre e aggiunge: «ma allora vedremo faccia a faccia» (1 Cor. XIII, 12), vedremo le cose in piena Verità, nella decisione della Verità. E qui tutto si involve nel pensiero di Taubes: la Verità è la decisione e la decisione è la scissione dovuta ad una scelta che è a sua volta l’impressione in quanto im-pressione, marchiatura, della libertà: ma la libertà è storia. Ecco allora la piena contraddittorietà di Taubes: l’Endzeit come fine della storia, la cui logica è completamente storica.
E la si può notare questa logica oscillante in quelle parole fondamentali, fondanti l’intero percorso escatologico: il “qui”, il punto d’incontro delle distanze, delle due distanze che si guardano, si toccano (basti pensare all’affresco della Cappella Sistina), ma non si fondono, il Dio lontano fattosi vicino eppure nascosto, distante, estraneo a rimarcare quel dualismo gnostico tra “questo” mondo, il mondo della tenebra, dell’assenza di essere, della deiezione e “quel” mondo, quell’altro, quello vero, il non-mondo dietro il mondo che invera la falsità del “questo”. Perché l’estraneità è il sostantivo e la sostanza dell’escatologia nel suo continuo richiamo apocalittico. È l’affermazione dell’estraneo, dello straniero (der Fremde) che si estranea dal mondo, che lo nega, da dentro, perché appartiene ad un altro ordine, all’altra dimensione del non-mondo (pensiamo alla storia di Shabbetaj Zevi ricordata da Taubes in La teologia politica di San Paolo). L’escatologia si presenta quindi nella veste di una grande topologia, un grande topografia dell’erranza e dell’errare, dell’errare comunitario e collettivo dell’errore imponderabile, troppo pesante per essere sopportato, troppo lieve per essere soppesato. L’escatologia non ha luogo, ma il luogo dell’escatologia, del suo realizzarsi, è il deserto.
Che è il non-luogo, il non-mondo, il “tra” tra il “questo” e il “quel”, non-luogo di preparazione e di attesa, di vita vissuta erraticamente, esposta. È il non- della negazione, dell’opposizione della scissione: i movimenti scismatico-apocalittici procedevano nel deserto, Giovanni ha predicato nel deserto, ha predicato il deserto («voce di colui che grida nel deserto…»; ha predicato nel e il deserto. Una questione di punteggiatura. Nel deserto se i doppi punti vengono postposti, così come da vulgata evangelica, al termine “deserto”, assumendo così il significato proverbiale di invito inascoltato; il deserto se anteposti e inseriti subito a seguire il termine “grida”: la via del Signore va preparata nel deserto. Il testo di Isaia (XL, 3), da cui è tratta la citazione del Battista, segue, in effetti, la seconda lezione). Perché la storia si gioca tutta qui! Nel deserto; il deserto è la storia, mis-topologico aggancio dell’estraneo. Così come estraneo è il non-luogo stesso di questo luogo, questo non-mondo demonologico (ricordiamoci delle tentazioni del Cristo): spazio aperto, lontano, in cui praticare attivamente quella Weltfremdheit (Sloterdjik; qui in senso palesemente eccentrico), quello straniamento dal mondo ascetico, luogo dell’apocalittico ὡς μή (os me), il paolino come-se-non. E al centro dell’escatologia si ode una voce: ecco di cosa si tratta.
Se l’Ellade è chiamata “l’occhio del mondo”, di Israele allora si può forse dire che è il suo “orecchio”. Nella rivelazione Israele ode la voce di Dio […]. La realtà d’Israele oscilla tra un dare-ascolto (Gehor-sam) e un non-dare-ascolto (Ungehor-sam) a Dio (p. 42).
Ma Israele è la libertà e la libertà, siccome negazione, è la storia. Storia nella sua intima natura rivoluzionaria. Così l’intero sviluppo del pensiero escatologico si è nutrito nell’Occidente sempre più della calma olimpica, dell’attribuzione di senso agli eventi, grazie alla spinta tranquillizzante e disinnescante di una dialettica che ha cercato di nascondere sotto il tappeto la sua stessa natura dialettica: dai Padri della Chiesa a Kant, dallo gnosticismo a Hegel, passando per l’esperienza degli spirituali gioachimiti fino all’arrembante istinto rivoluzionario di Thomas Münzer e ai rivolgimenti esternalisti di Marx e internalisti di Kierkegaard.
In questa storia antistorica, come segnalato tanto nella Prefazione di Michele Ranchetti quanto nella Postfazione di Elettra Stimilli, l’escatologia tesse la trama della storia che trova nel pensiero escatologico stesso la sua fonte: l’Allora (das Einst) è l’orizzonte, il fine: noi siamo esseri storici, figli del peccato («la caduta (il peccato) introduce il tempo e la morte (non la conoscenza)», dalla Prefazione, p. 14). Per questo l’ἔσχατον (eschaton) sarà il fine, che in fondo è da sempre iniziato: non-può-essere-così, eppure non-può-essere-che-così. Ovvero escatologia tragica.
Per la suggestione di Šestov si rinvia a Lev Šestov, Sulla bilancia di Giobbe. Peregrinazioni attraverso le anime, Adelphi, Milano 1991.
Per la storia di Shabbetaj Zevi, cfr., Jacob Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 2008, seconda edizione.
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