J’ACCUSE – L’UFFICIALE E LA SPIA

Un ebreo viene accusato di crimini gravissimi, subisce un processo mediatico che si risolve in una condanna da parte dei suoi pari, finisce in un esilio forzato che però non riesce a spezzare la sua volontà, forte del sostegno pubblico di personaggi eminenti ma continuamente attaccato da altre voci altrettanto autorevoli. No, non si sta parlando di Alfred Dreyfus, ma di Roman Polanski, il regista vivente più importante della Storia del cinema.
Le polemiche si sono scatenate con rinnovato vigore già ai tempi dell’annuncio del tema scelto per l’ultima fatica del regista polacco, montando ulteriormente durante il Festival di Venezia con le dichiarazioni al vetriolo di Lucrecia Martel, la presidente di giuria.
Molti hanno ritenuto addirittura scandalosa e irrispettosa l’ovvia simmetria che si sarebbe instaurata tra l’ufficiale e il regista, prendendo spunto dal titolo italiano della pellicola scelto dagli adattatori italiani che non hanno ritenuto abbastanza conosciuto dal pubblico italiota il titolo dell’editoriale giornalistico più famoso e importante della Storia occidentale, ovvero J’accuse. Molto meglio L’ufficiale e la spia, sì la traduzione letterale del titolo del romanzo di Robert Harris a cui il film si ispira, ma che associato al cinema e letto distrattamente porta a pensare nel migliore dei casi a una commedia brillante degli equivoci, nel peggiore a pensare che Dreyfus sia stato effettivamente una spia: si spera che nelle intenzioni originali la spia sia stata considerata il colonnello Picquart e l’ufficiale Dreyfus, sebbene Picquart non possa essere considerato propriamente tale ma più che altro un capo per breve tempo dei servizi segreti. Chiusa questa piccola polemica, torniamo a quelle grandi: davvero questo film è solo un bieco tentativo di Polanski di farsi passare per la vittima innocente di una gogna pubblica immeritata usando Dreyfus come avatar? Diciamo che se tutti i film ideati come meri strumenti per veicolare un messaggio specifico riguardo una questione personale dell’autore fossero girati così, la settima arte avrebbe molti ma molti capolavori in più nella sua collezione.
Per chiudere il discorso sulla perfezione stilistica della pellicola basterebbe la scena di apertura del film, la degradazione di Dreyfus davanti all’esercito schierato, con il dettaglio della spada spezzata gettata nella polvere che richiama le lance spezzate della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, o quella vicina al fiorellino di Guernica: invece no, Polanski decide di gettare nel mucchio un’altra dozzina buona di momenti da brividi, come il montaggio in cui vengono mostrati i principali accusati da Zola che leggono nero su bianco, ad alta voce, i propri misfatti tremando di sdegno senza capacitarsi di come un pugno di intellettuali possa chiamare in causa direttamente gli emissari degli dei del secolo lungo e del secolo breve, lo Stato e l’Esercito, come se fossero quei demoni del folklore che sentendo il proprio nome urlato ad alta voce perdono i propri poteri. Spessissimo nei film di Polanski ricorre il tema degli intoccabili, che siano i ricchi borghesi in Rosemary’s Baby, i magnati dell’economia e della politica nonché i patriarchi della società maschilista in Chinatown fino ai nazisti de Il pianista, qui citato attraverso le poche malinconiche note di un pianoforte: e mai come in questo film la speranza che chiunque possa essere chiamato di fronte alle proprie responsabilità, dal politico allo scienziato al semplice esecutore di ordini (“Lei mi ordina di uccidere un uomo, io lo faccio.
Se viene poi fuori che era innocente, non mi importa. Questo è l’Esercito”, nelle parole del maggiore Henry, interpretato dalla faccia da schiaffi di Gregory Gadebois) si fonde alla soffocante ed appiccicosa sensazione che nemmeno la vittoria della Verità potrà cancellare le sofferenze patite e che coloro che sostituiscono la propria capacità di giudizio con i pregiudizi affolleranno sempre i luoghi di potere come le piazze delle città, e potranno continuare indisturbati a trascinare a braccetto i propri simili in orrori sempre più gravi.
Marx scrisse: “La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Il film mostra con alcuni tagli amaramente ironici come in questo caso i due momenti furono invertiti: l’affare Dreyfus fu davvero una farsa, con il suo raffazzonato apparato messo in campo dai vertici dell’Esercito Francese, tra prove contraffatte alla meno peggio da soldati imbranati, prove pseudoscientifiche fornite da buffi professoroni da parodia, vertici militari che in una esilarante scena fanno le prove come una compagnia teatrale dell’oratorio prima di andare in scena con il pomposo arresto, persone comuni e sedicenti intellettuali pronti a rompere vetrine e azzuffarsi aizzati dalle teorie più strampalate circa una possibile congiura ebraica ai danni della Francia. Ci sarebbe da ridere della grossa, considerando anche che tutte queste incredibili reazioni furono scatenate con effetto cascata dal maldestro tentativo di un fallito di raggranellare qualche soldo da spendere in puttane. Il momento tragedia inizia però a delinearsi nella mente del protagonista, il tenente colonnello Picquart interpretato da un Jean Dujardin che fin dai tratti somatici incarna alla perfezione i valori positivi della cultura francese del periodo: razionalità mai lasciata fredda dal sentimento, rigore e senso del dovere addolciti dal fascino elegante dei modi affettati nonché uno spiccato coraggio nel passare all’azione dopo la giusta quiete del pensiero e dello studio. Il risvegliarsi della coscienza del colonnello prende il colore seppia tipico delle vecchie fotografie che tinge i frammenti della vita desolante di Dreyfus alle prese con la ghigliottina secca.
A differenza di molte altre storie di correzione di errori giudiziari, a spingere Picquart nelle sue indagini sempre più pericolose non è un appassionato fervore per la Giustizia con la g maiuscola, o un incontro-epifania con la vittima innocente che lo porta a guardare languidamente verso la telecamera urlando attraverso i suoi occhi umidicci nella testa dello spettatore “ma allora anche lui ha sentimenti e affetti come me!”, bensì l’imperativo categorico di compiere il proprio teoricamente semplice dovere di fare ciò che è chiamato a fare e il piacere di riuscire finalmente a sbrogliare il fastidioso disordine di una matassa intricata (simboleggiato da quella finestra nel suo ufficio che proprio non vuole saperne di aprirsi).
La parte emotiva della pellicola non è tanto nei personaggi, persino l’empatia dello spettatore verso Dreyfus è ostacolata dalla sua scarsa presenza in scena e dai suoi modi per nulla affascinanti o gradevoli: sono le scene che mostrano le reazioni della società civile alle vicende giudiziarie a portare lo spettatore a soffrire (si spera catarticamente) per la propria contemporaneità piena oggi come allora di stupidità e banalità del male. I moderni cannoni che sparano sotto gli sguardi soddisfatti dei militari e i libri bruciati in strada sono lì a ricordarci che la vera tragedia in arrivo dopo la farsa Dreyfus non è solo la pur pietosa condizione di un singolo uomo ingiustamente accusato, ma la Grande guerra e l’Olocausto che uccideranno per sempre l’umanità europea.
“L’Impero non è mai finito”, scriveva Philip Dick: la cultura europea è morta in quei trent’anni, l’epoca di apparente pace e libertà in cui abbiamo vissuto da allora non è che un’illusione, il sogno a occhi aperti di un prigioniero in catene sull’Isola del Diavolo di Dreyfus, e così sarà finché lasceremo camminare tra noi i cadaveri putrefatti ma pur semoventi degli ideali di quell’epoca infausta.
Gli zombi si fermano tagliando loro la testa.
Per leggere tutte le recensioni film di Phlebas clicca qui.
Per consultare l’archivio con tutte le recensioni film di Arena Philosophika clicca qui.
@ILLUS. by AI STYLE TRANSFER, 2019