LUCE E CONTROLUCE: SULLA COMUNICAZIONE DI MASSA

Quando il filosofo e regista francese Guy Debord pubblicò La società dello spettacolo, nel 1967, alla tesi numero nove troviamo scritto così: «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso».
Si tratta dell’inversione di una celebre espressione hegeliana riportata ne La fenomenologia dello spirito: dicendo che «il falso è un momento del vero», infatti, Hegel intendeva sostenere che nel processo dialettico della realtà, ossia nel dispiegamento storico e ontologico della verità, il falso rappresenta l’antitesi, la negazione destinata a essere superata.
Ribaltando tale concetto, Debord intende evidenziare come, nella società contemporanea dominata dalle immagini e dalla virtualità, la verità finisce per essere una scoria accidentale di un processo congenitamente falso, posticcio e artato. Nell’ipocrisia ontologica, il vero è un incidente di percorso che perde la propria dignità e lascia spazio all’incedere marziale e coloniale di forze ingannevoli e illusorie.
Attingendo dal concetto di spettacolo quale fulcro della riflessione debordiana, e tentando un parallelismo con la società odierna pressoché immutata, è possibile scorgere nella comunicazione di massa l’ambito nel quale tale rovesciamento manifesta i propri effetti più crudi e pervasivi.
Il vero è un momento del falso, dunque. Per spiegare in quale modo tale principio ontologico e sociologico interagisce con la comunicazione di massa, pensiamo a una metafora. Più precisamente, una metafora teatrale.
Pensiamo a un prestigiatore sul palcoscenico: a illuminarlo, un grande occhio di bue, fascio luminoso e circolare che taglia l’oscurità e circoscrive il perimetro dello sguardo della platea, isolandolo. Pensiamo poi alle quinte, dove il regista dispone e istruisce circa la scena. Pensiamo infine a quello spazio di penombra appena pronunciata, intermedia tra le quinte e l’occhio di bue.
Ebbene, il regista è colui che rimane invisibile, nascosto dalle quinte, autentico demiurgo dello spettacolo; esso corrisponde a tutti coloro che predispongono tempi, modi e contenuti delle notizie, che debordianamente possiamo ritenere organizzate secondo logiche di spettacolo.
Poi c’è il prestigiatore, il protagonista, inconfutabile sotto la luce dell’unico riflettore. Egli corrisponde a ciò che rimane visibile per tutti, chiaro e lucido in ogni momento; egli è la notizia nuda e cruda, ovvia e financo banale, impossibile da confutare.
Infine c’è quello spazio di penombra che divide i due. È in quell’angolo che l’occhio attento può scorgere le ombre dei suggeritori o dei collaboratori che porgono al prestigiatore gli oggetti scena. Così facendo, l’osservatore curioso e ardito potrebbe anticipare il trucco e la sorpresa. Magari senza arrivare a comprendere quali potrebbero essere le prossime disposizioni del regista, ma certamente precedendo di un attimo sostanziale le mosse del prestigiatore, e questo per amore della verità.
Ecco, la metafora val quel che vale, ma resta sufficientemente plastica per descrivere la composita dinamica delle cose. La comunicazione, quella di massa, non può essere lineare, secca, diretta; altrimenti non sarebbe comunicazione di massa, la quale deve al contrario trovare una sintesi mediata proprio per raggiungere in modo potenzialmente globale tutti gli ascoltatori. Chiaro quindi che le notizie, tutte le notizie, debbano essere costruite secondo una logica funzionale a questo obiettivo.
Compito del filosofo, o più in generale di coloro che esercitano il pensiero critico – che poi è l’unica forma di pensiero autenticamente tale – è allenare l’occhio alla penombra, agli angoli in controluce. Se non altro, per smascherare gli inganni.