L’UTOPIA DEL MONDO PERFETTO E COME COMPORTARSI A RIGUARDO

Canta Guccini in Auschwitz «Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare / a vivere senza ammazzare […]». William T. Vollmann, ripercorrendo le pagine da lui scritte in Come un’onda che sale e che scende – Pensieri su violenza, libertà e misure d’emergenza (appena ripubblicato da Minimum Fax), risponderebbe: «Nessun credo eliminerà mai l’assassinio». Quest’ultima non è una semplice battuta e non è soltanto la rima che completa l’ipotetico “botta e risposta” fra Guccini e lo stesso Vollmann. Esemplifica, invece, una rinuncia che “Bill” (come Vollmann è soprannominato colloquialmente) pone alle fondamenta del libro: «Abbandonare l’idea secondo cui il mondo starebbe migliorando non è stato facile né piacevole, per me» (Come un’onda che sale e che scende, p. 54). Tuttavia, aggiunge subito dopo, «non ho ancora smesso di credere che il mondo dovrebbe essere migliore, e che noi abbiamo il dovere di concepire metodi per migliorarlo». (Ibidem). Ricuce così, dopotutto, il cerchio che aveva iniziato a tracciare dal suo primo e rudimentale tentativo di reportage, raccontato in Afghanistan Picture Show, la cui apertura recita: «Questo libro è dedicato a tutti coloro che cercano di aiutare gli altri, che ci riescano o falliscano». In mezzo, fra la negatività e la positività, sta l’obiettivo principale di Come un’onda che sale e che scende: andare verso un calcolo morale. Il materiale che Vollmann esamina per realizzare tale obiettivo è vastissimo:
[Come un’onda che sale e che scende] pertanto, si divide in due in due parti. La prima, più teorica e generale tenta tramite induzione, senso comune e analisi di personaggi contemporanei, storici e perfino fantastici […] di trovare un modo di classificare sul piano etico la violenza (Ivi, p. 86).
La seconda parte consiste nel concludere con quel calcolo morale “ricavato da quanto precede”. Sono racchiusi, dunque, esempi e storie autobiografiche (tratti dalla sua vita personale e dalla sua lunga carriera come giornalista), studi monografici di carattere storico, analisi delle problematiche passate, contemporanee e altre mai finite fuori moda. Andando in libreria e sfogliando le pagine di Come un’onda che sale e che scende, un lettore potrebbe imbattersi in capitoli intitolati così: Mezzi e fini, Difesa di classe, Difesa della razza e della cultura, Dalla Raison d’Etat alle ragioni dello Spleen, Deterrenza, punizione e vendetta. Lo stesso lettore, a questo punto, potrebbe ritenere di avere in mano una raccolta di saggi filosofico-antropologici. Sarebbe, però, un pensiero riduttivo, poiché ha tutte le carte in regola per essere studiato come un trattato (seppur con le evidenti peculiarità che lo differenziano da un trattato canonico), come una vera perla creata da colui che è considerato da molti come il più grande scrittore americano vivente.
Tu dici […] “Da un punto di vista della liceità, Lincoln non aveva più ragione dei serbi”. Questo modo di ragionare e costruire è proprio della letteratura: quello di metterci tutto così, relativizzato e costringerci un po’ a ripensare le nostre categorie […].
È uno dei commenti che l’americanista e direttore editoriale per Minimum Fax, Luca Briasco, rivolge a Vollmann durante la presentazione veneziana (nonché seconda tappa del tour italiano dello scrittore e primo spostamento dopo un lungo periodo di immobilità negli Stati Uniti, dove vive) della ristampa dell’opera. Bill segue:
if we want to really see what the person was like […], that’s when we use our empathy and our imagination and we create literature (Se vogliamo veramente vedere com’era quella persona, a quel punto usiamo la nostra empatia e la nostra immaginazione: così facciamo letteratura)
Vollmann, forse consapevolmente, forse inconsapevolmente, sposa l’idea di rapporto che per Cora Diamond sussiste fra immaginazione, empatia e letteratura. Diamond, in L’immaginazione e la vita morale cita un passaggio da Il nostro comune amico, di Charles Dickens: «A quei quattro zotici, vedendolo sono venute le lacrime agli occhi. Né Riderhood in questo mondo, né Riderhood nell’altro riuscirebbe a far loro inumidire gli occhi, ma un’anima in lotta fra i due ci riesce facilmente» (p. 139). La situazione descritta è la seguente: Riderhood, uomo largamente disprezzato fra coloro che lo conoscono, giace al suolo, privo di sensi, dopo essere stato ripescato dal Tamigi. “Quei quattro zotici” piangono perché fanno esperienza della morte, del destino comune che ci lega come esseri umani. “Quei quattro zotici” non vedono soltanto Riderhood, ma anche sé stessi («senza dubbio, perché […] loro vivono e dovranno morire» p. 143). Provano, così, empatia per un personaggio che altrimenti non avrebbero mai compatito (da συνπάσχω [sympáskhō]: soffrire insieme). I fatti, allora, non sono soltanto fatti: l’immaginazione permette di vedere oltre. È come argomenta Iris Murdoch (da cui Diamond è profondamente influenzata):
Usiamo la nostra immaginazione non per evadere dal mondo, ma per congiungerci a esso e questa esperienza è esaltante perché normalmente la distanza tra la nostra coscienza e l’autentica percezione del reale è molto più grande (Esistenzialisti e Mistici, p. 370).
Uno scrittore fa letteratura, quindi, come sembra sostenere Vollmann, nel momento in cui usa l’immaginazione per vedere oltre i fatti, per incanalare l’empatia, per stimolare un progresso morale. Non per nulla, Diamond è dell’opinione che abbiamo subito una perdita concettuale. In altre parole: non siamo più capaci di esprimerci, di pensare e di interpretare approfonditamente, provocando così un impoverimento della nostra vita morale. Si tratta, quindi, di recuperare ciò che abbiamo perso, soprattutto attraverso la letteratura, e di lavorare per tessere quel “mondo migliore” di Vollmann (la cui perfezione, come direbbe anche Richard Rorty, è probabilmente destinata a rimanere utopia).
Francesco Guccini & I Nomadi – Auschwitz