REQUIEM PER UNA RIVOLUZIONE: MARCUSE E LA SOCIETÀ UNIDIMENSIONALE

Da alcuni anni è presente sul web una curiosa notizia avente per protagonista un esemplare di Somniosus microcephalus, nome scientifico dello squalo della Groenlandia. Pare che il suddetto esemplare sia al momento il vertebrato più longevo del pianeta. Le notizie online parlano addirittura di 512 anni, ma sembra che non manchino alcune smentite, secondo le quali, benché in grado potenzialmente di raggiungere quell’età, lo squalo in questione abbia all’incirca tra i 330 e i 390 anni. Per i biologi che si occupano di questa specie la notizia non è, a onor del vero, particolarmente clamorosa; le analisi del cristallino oculare di svariati esemplari hanno da lungo tempo dimostrato come il ciclo vitale del Somniosus possa effettivamente aggirarsi tra i 4 e i 5 secoli.
L’idea di un essere che si aggira negli oceani del nostro pianeta da 5 secoli, con buona pace dei biologi, ha però un certo fascino e spinge inevitabilmente ad alcune considerazioni. Lo squalo, assumendo per buona la stima dei suoi 512 anni, era già in vita nel XVI secolo. È impressionante pensare al numero di eventi che, mentre egli nuotava placidamente ed ignaro, scuotevano il nostro mondo e lo modificava drasticamente secolo dopo secolo. Immaginandolo senziente e (per qualche astrusa ragione) interessato alle umane vicende, lo squalo avrebbe potuto assistere ai fasti del Rinascimento, all’epopea di Cromwell e alla gloriosa rivoluzione in Inghilterra, alla guerra dei 30 anni, alla rivoluzione americana, a quella francese, alla guerra di secessione americana, ai moti europei del 1848, alla prima guerra mondiale, alla rivoluzione russa, all’avvento del fascismo e del nazismo, alla seconda guerra mondiale, alla guerra fredda, alla caduta del muro di Berlino e al disfacimento dell’Unione Sovietica. Un’unica vita che abbraccia un numero così elevato di avvenimenti determinanti è qualcosa che non può non meravigliare. E che potrebbe (e dovrebbe) farci riflettere sul nostro presente. Pur senza la minima velleità di competere con il Somniosus, verrebbe da chiedersi quali grandi eventi facciano oggi parte della nostra vita; quali siano stati i grandi momenti della vita dell’uomo contemporaneo medio (con ciò intendendo l’uomo nato dopo tutti gli eventi poco sopra elencati); quanto il mondo sia effettivamente cambiato da quando egli ne ha coscienza. La risposta ha un che di desolante. Paragonando i primi decenni del nostro secolo con quelli del ‘900 ci rendiamo immediatamente conto della penuria di avvenimenti salienti in grado di modificare effettivamente la nostra idea di mondo e, conseguentemente, l’assetto delle odierne società.
Questo problema ebbe un peso preminente all’interno della speculazione filosofica e sociologica di Herbert Marcuse, che nel tratteggiare il suo concetto di “società unidimensionale” denunciò soprattutto la totale assenza di un vero e proprio pensiero rivoluzionario, nonché l’incapacità delle moderne società post-industriali di uscire dalla fitta rete di meccanismi produttivo-burocratici che costituisce ancora ai giorni nostri il paradigma dominante. Di questo furono consapevoli gli studenti e gli operai del 1968, protagonisti dell’ultima (ma decisamente infruttuosa) mobilitazione rivoluzionaria su larga scala dello scorso secolo. Non stupisce, dunque, che proprio Marcuse costituisse il nerbo teorico (ma, si potrebbe anche dire, l’anima ispiratrice) su cui quei dissensi studenteschi si basavano in larga parte.
Da quel momento in poi l’Occidente vive in un mondo relativamente statico e indisturbato, dominato da consuetudini e regole ormai sedimentate e apparentemente indiscutibili. La diagnosi di Marcuse ha ancora oggi un’importanza considerevole, poiché il mondo in cui viviamo non è altro che la “società unidimensionale” sotto steroidi. Il termine “rivoluzione” sembra essere destinato ai cassetti polverosi della storia e non trova più posto nel dibattito sociale e politico contemporaneo. La domanda, incredibilmente attuale, che germina dagli scritti e dal pensiero di Marcuse è dunque la seguente: a cosa si deve la quiescenza del tempo presente?
Vale innanzitutto la pena, ancor prima di abbozzare una risposta, di immaginare quali potrebbero essere oggi le caratteristiche principali di un’ipotetica rivoluzione, quali i suoi obiettivi e quali le sue conseguenze desiderabili. A offrirne uno schizzo è lo stesso Marcuse in Eros e civiltà, testo del 1955 che si prefigge lo scopo di delineare i tratti di una società non repressiva e anti-consumistica:
Per i paesi supersviluppati, quest’occasione equivarrebbe all’abolizione delle condizioni nelle quali il lavoro dell’uomo riproduce, in quanto potere autopropulsore, la sua subordinazione all’apparato produttivo, e con essa perpetua le forme obsolete della lotta per l’esistenza. Oggi come sempre l’abolizione di queste forme è il compito della lotta politica, ma la situazione attuale presenta una differenza essenziale. Mentre le rivoluzioni del passato apportarono un più ampio e razionale sviluppo delle forze produttive, nelle società supersviluppate di oggi la rivoluzione deve significare il rovesciamento di questa tendenza: l’eliminazione del supersviluppo e della sua razionalità repressiva. Il rifiuto della produttività opulenta, lungi dall’essere un ritorno alla purità e alla semplicità della «natura», potrebbe essere il segno (e lo strumento) di un più alto stadio dello sviluppo dell’umanità, basato sulle realizzazioni della società tecnologica.
La rivoluzione, agli occhi di Marcuse, deve costituire un ribaltamento di paradigma; non deve trattarsi, come in passato, di una rivoluzione borghese, sul modello di quella francese, bensì di una radicale modificazione del nostro modo di concepire la nostra società e il nostro ruolo all’interno di essa: non più produttori e consumatori repressi e orientati dalle logiche di mercato e produttività. Va però fatta un’amara considerazione. Se negli anni in cui Marcuse scrisse e operò la lotta politica (espressione che oggi non ha di certo il medesimo significato, ma si riduce alla caccia del voto dell’elettore) poteva porsi come obiettivo la promozione del mutamento sociale, al giorno d’oggi questa tendenza è completamente sparita; le politiche sociali dei moderni stati europei tendono infatti ad appoggiarsi al sistema produttivo, a incentivarlo, a favorire la proliferazione delle aziende e la collaborazione con le multinazionali. L’ordinamento sociale vigente non viene mai messo in discussione, e il malessere dei cittadini e dei lavoratori viene semplicemente imputato ai cittadini e ai lavoratori stessi, non abbastanza abili nel ritagliarsi un ruolo all’interno di un mercato strutturato in modo iper-burocratizzato e competitivo oltre ogni limite. Ma date queste premesse, l’interrogativo di partenza si rivela ancor più impellente: perché all’orizzonte non si prevede alcuna rivoluzione?
Tra le principali motivazioni spicca senza dubbio l’ormai totale assenza di una vera e propria coscienza rivoluzionaria, se non di una coscienza di classe tout court. Il 68 dipese in larga misura dalla consapevolezza che ebbero quei giovani di costituire un polo fortemente contrapposto all’ordinamento vigente; erano la classe dei giovani, degli studenti, degli operai. Disponevano, anche grazie all’opera ispiratrice di intellettuali come Marcuse, di una coscienza condivisa che permetteva loro di identificarsi in base ai propri valori e al confronto con l’altro, laddove persino l’altro, il polo borghese-impiegatizio, esibiva determinanti e riconoscibili connotati. Oggi non resta nulla di tutto ciò. Non esiste un vero e proprio fronte giovanile che abbia effettiva coscienza di appartenere a un nucleo unitario, schierato, in pericolo. Per paradossale che possa sembrare, nell’era della comunicazione immediata, della condivisione senza limiti e del web socializing, le nuove leve non sarebbero assolutamente in grado di costituirsi come forza motrice (o, quantomeno, destabilizzatrice) della società. Ciò dipende anche e soprattutto dalla natura “compromessa” di questi nuovi mezzi. L’azione di aggregazione e di lotta non riesce a farsi spazio usufruendo dei canali sociali telematici, proprio perché essi sono gli stessi di cui si serve il sistema politico e produttivo. Quale può essere il peso specifico di un atto rivoluzionario condiviso sulla medesima piattaforma dove il politico di turno ha la possibilità di postare la propria campagna elettorale? Come può un pensiero genuinamente rivoluzionario germinare e diffondersi su spazi virtuali potenzialmente infiniti, ma dominati dalle compagnie di marketing e dai giganti dell’informazione? Come può pensare il rivoluzionario che, per usare un’espressione di Marcuse, i valori superiori possano e debbano essere messi in pratica sotto le condizioni stesse che li tradiscono?
A complicare ulteriormente il quadro della situazione contribuiscono non poco le condizioni ansiogene e precarie che accompagnano quotidianamente ogni individuo (e i giovani soprattutto). L’eccessivo carico emotivo ed esistenziale posto sulle spalle del singolo è chiaramente originato da un sistema produttivo dominato dalla competizione e dal carrierismo, ma viene perpetrato anche da quegli agenti che dovrebbero, almeno in linea teorica, agire nell’ottica del suo smantellamento. In questo senso la critica di Marcuse alla psicoanalisi e, in generale, al ricorso (presunto) benefico della psicoterapia colpisce nel segno:
Anche la nevrosi si presenta come un problema essenzialmente morale, e l’individuo è ritenuto responsabile del fallimento della sua realizzazione di sé. È vero che la società riceve anch’essa la sua parte di biasimo, ma in fondo in fondo, è l’uomo stesso che è colpevole […] La disarmonia tra società e individuo viene menzionata, e basta. Qualsiasi cosa la società commetta contro l’individuo, nulla impedisce né a questi né all’analista di concentrarsi sulla «personalità totale» e sul suo sviluppo produttivo.
L’accento viene insomma sempre spostato sull’incapacità e sul demerito dell’individuo, mentre non vengono mai rinegoziati i termini e le regole di una società che di fatto si presenta come una macchina incubatrice di nevrosi. Ogni intervento psicologico si risolve, dunque, in un’analisi con conseguente risoluzione di sintomi localizzati, senza mai poter (o voler) giungere davvero alla causa prima della febbre che assilla il corpo. Una volta rimessosi in sesto, l’individuo tornerà a inserirsi, più o meno consapevolmente, all’interno del sistema produttivo fino all’insorgenza, prevedibile, di una nuova nevrosi.
La diagnosi del quietismo rivoluzionario, infine, non può che concludersi con una riflessione sul ruolo ormai defilato che il libero pensiero esercita non solo nel dibattito pubblico, ma anche nella sfera più intima del singolo. Il decadimento della coscienza critica si può individuare nell’eliminazione di un fattore che si potrebbe quasi definire extrasociale: la solitudine. Ne L’uomo a una dimensione Marcuse tratteggia questo fenomeno in maniera concisa e lapidaria:
La solitudine, la condizione stessa che sosteneva l’individuo contro ed oltre la sua società, è divenuta tecnicamente impossibile.
L’attualità di questa osservazione è sconcertante. La solitudine, intesa come il momento cardinale del raccoglimento interiore, viene oggi stigmatizzata al pari di una grave manifestazione patologica; l’individuo deve guardarsi dall’horror vacui dell’autoisolamento, lo deve combattere in nome di una socialità standardizzata e di valori produttivi quali il teamworking e il networking. A ciò si aggiunga l’incapacità soggettiva del singolo di usufruire pienamente degli ormai pochi momenti di solitudine che capitano quasi per caso: una volta rimasto per conto proprio basterà il ricorso a uno smartphone per ricollegarsi immediatamente al marasma sociale; il pretesto potrebbe essere la condivisione di uno pseudo-pensiero da sbandierare sui social. Il bisogno compulsivo di condividere ogni aspetto della propria quotidianità (con una predilezione per i più infimi) coinvolgerebbe e mutilerebbe anche eventuali vagiti rivoluzionari, trasformando proposte e idee potenzialmente valide in un teatrino mediatico che avrebbe una longevità, in termini di visibilità, non superiore a pochi mesi (un esempio su tutti può essere costituito dalla campagna ambientale promossa da Greta Thunberg); inglobare le tendenze sobillatrici all’interno del dibattito social-mediatico rappresenta oggi il metodo migliore per privarle a poco a poco della loro carica esplosiva, in maniera non dissimile da quanto avveniva più di cento anni fa, in epoca giolittiana, quando il socialismo rivoluzionario venne incorporato e così ammansito all’interno del dibattito parlamentare. Una lezione che già allora insegnò come la rivoluzione non può minimamente sperare di avere successo seguendo le regole del sistema dominante.
Tutto considerato, la speranza che il Somniosus possa aggiungere una nuova rivoluzione alla lunga lista delle cose notabili accadute durante la sua vita sembra ormai costituire una remota possibilità.
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@ILLUS. by PATRICIA MCBEAL, 2020
DIETRO IL FILOSOFO: L’UOMO E LE IDEE
@GRAFICS by AGUABARBA, 2020
Interessante a tal proposito un video recente di Diego Fusaro. In lui echi di Marcuse e non solo. L’invocazione ad un cambiamento del modo di pensare, reincludendo l’immaginazione e il sogno, oltre che l’artificio progettuale per realizzarlo, potrebbe far rivivere le coscienze sopite e rassegnate alla “necessaria” adattività. E chissà che sognando Utopia e La Città del Sole non si metta in moto quel processo di risveglio delle coscienze che ci fa sentire percorsi da un brivido e ci fa ribollire lo spirito!