TROPPO LONTANI, TROPPO VICINI: L’INTIMITÀ ALGORITMICA

Recensione di Emanuele Fadda, Troppo lontani, troppo vicini. Elementi di prossemica virtuale, Quodlibet, Macerata 2018.
Descrivere criticamente e quindi ricognitivamente – sorvolando in una prospettiva vieppiù oggettiva – i Social Networks si sta rivelando impresa ardua, per non dire impossibile. E per questo intellettualmente stimolante. La sensazione è che la weberiana “gabbia d’acciaio” si sia ipertrofizzata ad un livello tale di coinvolgimento da farci sperimentare quotidianamente il teorema di Gödel: il sistema non può essere spiegato con gli elementi del sistema stesso. Siamo in quella condizione descritta dall’artista Darren Wershler per la quale «[n]el momento in cui si affronta l’impianto in quanto problematico, la macchina entra in azione» (citato da Ed Finn in Che cosa vogliono gli algoritmi).
L’esperienza sui social in primis, e per estensione online, rendono necessario un processo di coscienzializzazione, di interrogazione di quel problema dal quale è impossibile uscirne ma che è troppo saliente per lasciarlo semplicemente inevaso. È in gioco, forse esagerando un po’, ma poi non uscendo troppo dal seminato, da una parte l’immagine che l’uomo vuole offrire di sé e dall’altra una raffigurazione stessa del suo statuto ontologico. Perché se «telos finale del lavoro algoritmico è un’operazione che faccia sparire del tutto le infrastrutture fisiche e culturali» (Ed Finn), non si può negare la lunga (?) distanza che ci separa da questo orizzonte: intrappolati, di fatto, in quell’“istituzione totale” che è l’onlife, quel peculiare luogo di incontro (scontro?) tra l’offline e l’online.
Spazio di travaso di effetti, le cui cause risiedono in uno solo dei due mondi contrapposti, ma i cui effetti si ripercuotono in entrambi gli universi (basti pensare al cyberbullismo e alle sue nefaste conseguenze), l’onlife si presenta come nuovo campo culturale, estremamente fecondo. Una nuova socialità impone una nuova concettualità che comunque non può non emergere da un apparato già istituito, ora stressato e portato ai suoi limiti estremi. Emanuele Fadda coglie la sfida affrontando il pregiudizio dell’allontanamento social(e): la piazza virtuale, benché distanziata fisicamente nella diluizione del contatto gomito-a-gomito, porta alla luce una modalità prima impensata di vicinanza, un quadro innovativo di prossemica virtuale.
Con prossemica l’autore intende
quella parte della semiotica (e più in generale delle discipline linguistico-comunicative) che mette a tema la gestione delle distanze nella comunicazione interpersonale (p. 9),
ovvero quel campo di studi che filosoficamente parlando semantizza epistemologicamente la vicinanza tra attori in rapporti interpersonali a distanza. Non a caso, difatti, Fadda apre il suo primo capitolo con una descrizione di Vitaliano Brancati (1907-1954) di «Piazza San Pietro gremita di folla» (p. 14).
La piazza fisica, pubblica, quello spazio aperto nel cuore della città registra atteggiamenti e comportamenti replicabili e in parte replicati nell’esperienza online. Quella che viene definita la “legge di Brancati“, ovvero: «più una comunità è numerosa e “stretta”, meno è umana (id est meno lascia spazio all’individualità)» (pp. 16-17) sembra trovare inquietante conferma nell’era dei Social Networks. Se l’effetto folla ha sempre avuto come conseguenza una perdita di concentrazione individuale, mitigata però dalla presenza fisica che permette (o impone) una qualche forma di (auto)controllo, ora che il body fading sta trovando nei dispositivi elettronici un amplificatore privilegiato bisogna chiedersi cosa resti di antropologico nella vita onlife e ancor di più in quella online.
Infatti l’intero libro è percorso da una corrente umana che può essere presentata come una dialettica hegeliana invertita; hegeliana per forma, antifrasticamente hegeliana per contenuto. La triade di capitoli che costituiscono l’ossatura del volume è sovrapponibile al processo dialettico che vede nella posizione (tesi-Spazi) il porsi della questione, la posizione che assume la problematica e la soluzione provvisoria creatrice di problemi. E in quanto tale, il trasformarsi del punto di partenza viene tematizzato nella negazione determinata (antitesi-Branchi) che esporta e astrae concettualmente, rendendo altro il problema (alienazione). Ritorno, infine, non al principio, ma un ricentramento qualitativamente maggiorato, la cui dinamica dialettica si estende all’unione dei contraddittori (sintesi-Segni).
Spazi-Branchi-Segni, le stazioni di questa dialettica, che non rappresenta più il plastico procedere dell’Idea (del Concetto, del Tutto, di Dio) e di cui l’uomo non è più l’autocoscienza che Dio ha di se stesso nell’uomo:
[p]arlare di una semplice regressione [da spazi (umani) a branchi (animali); nota mia] a una fase pre-umana, infatti, non avrebbe senso: il fatto che in certe occasioni e condizioni ci comportiamo in modo un po’ più simile alle altre scimmie non significa che, parallelamente, smettiamo di essere uomini. Non potremmo (p. 57).
Il telos è qui diametralmente opposto a quello algoritmico: l’antropologico (quasi titanico. Per ironia della sorte, poco umano!) vs il teologico (la “teocrazia computazionale” di Ian Bogost).
Corrente vs feed. Il ritmo profondo sul quale si instaura questa danza è la penetrazione nell’intimità. Se per Emanuele Fadda, dopo tutto l’umano non viene detronizzato riconoscendo nelle nuove tecnologie strumenti potentissimi di trasformazione cognitiva, ma pur sempre strumenti, resta da perlustrare quale sia il tasso di intimità residuale nelle nostre società iperconnesse. Tre concetti illustrano la posta in gioco: affollamento, grooming, diacronia impazzita.
Per affollamento si intende la saturazione degli spazi: presuntamente infinito, lo spazio online presenta angustie barriere, standardizzazione e compartimentazione stagna. Nel regno del simile che cerca il simile, lo spazio si riduce sempre più; bloccati in quei “silos sociali” (Riva), gli utenti dei social si trovano racchiusi in nicchie ecologiche online che per sineddoche metonimizzano il mondo: il limite dei miei contatti è il limite del mondo, parafrasando Wittgenstein. Certamente l’esperienza dell’affollamento è una propriocezione fisica, locativa. Una piazza, un mezzo pubblico (con la classica sensazione da autobloccante che si prova facendo la vita del pendolare), un concerto. Ma il sovraffollamento online, l’overdose informazionale («information overload», p. 68) ha portato a livelli estremi la penetrazione del digital gaze. Sempre più previsti dai nostri (?) algoritimi con i quali ci interfacciamo ogni giorno, lo spazio umano negli Spazi algoritmici può essere proprio quella senzazione di disagio che garantisce il divario (Ed Finn) tra online e offline.
Ciò impedirrebbe al social grooming di trasformare le nostre chat e i nostri gruppi Facebook in Branchi di scimmie, istintive e inconscie. L’alto livello di socialità dei primati porta in primo piano lo spulciamento come pratica rafforzante i legami tra i membri del branco che ottengono così riconoscimento e assegnazione di status gerarchico, ricordando la gestione dell’umanissima “distanza intima”. Tuttavia, nel regno animale tale operazione, come buona parte delle attività che li coinvolge, sono all’insegna della funtività causa → effetto, dell’istintualità, dell’indifferibilità. Benché per il sociologo Dominique Cardon gli algoritmi ripongano ogni attenzione sui comportamenti (Che cosa sognano gli algoritmi), sul fast o slow thinking (Kahneman), è proprio la differibilità temporale a carattere i prodotti e le attività umane, anche sui Social Networks.
E sono i segni a incarnare questa dilazione temporale tra la presenza manifesta e il contenuto latente, tra significante e significato (e significato del significante) e la datività della loro natura (il linguaggio è sempre eterodiretto, dialogico per quanto sulla carta fascista (pp. 60-65)). I Segni necessitano del tempo necessario per l’elaborazione, la scomposizione e la ricombinazione. In questa diacronia impazzita (pp.65-70), figlia della profusione di messaggi email post commenti, il feed ag-giornato, sempre sul pezzo che ci fa approdare sul lido del presente continuo (titolo della traduzione italiana di Present Shock di Douglas Rushkoff), la vera sfida è di ri-pensare l’antropologica discontinuità diacronica nella battaglia contro la sincronia teo-logica.
Di certo una nuova intimità è da configurarsi: trasparente e non più opaca. Paradosso della distanza social(e). Troppo lontani, troppo vicini: l’intimità algoritmica.
Il testo di Ed Finn è Che cosa vogliono gli algoritmi. L’immaginazione nell’era dei computer, Einaudi, Torino 2018, tradotto da Daniele A. Gewurz.
Il riferimento al comportamentismo si può leggere nella traduzione italiana di Chetro De Carolis di Dominique Cardon, Che cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite al tempo dei big data, Mondadori, Milano 2018.
La traduzione di Present Shock (2013) di Giovanni Giri e Sergio Orrao, è Douglas Rushkoff, Presente continuo. Quando tutto accade ora, Codice Edizioni, Torino 2014.
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@ILLUS. NEL CORPO DEL TESTO by, FRANCENSTEIN, 2020