COS’È TRASCENDENZA?

In Essere e tempo si legge che quando “copre” la propria fine «L’Esserci quotidiano, per lo più, copre la possibilità più propria incondizionata e insuperabile». Heidegger dovrebbe saperlo, che copriamo le nostre vergogne da quando Adamo ed Eva mangiando la Mela del Male scoprirono la propria nudità; non appena scroprirono la loro nudità subito la coprirono e così facciamo noi con la Morte, la vergogna più grande della Vita. Il problema è che i seguaci del «Si» (das Man) non vogliono scoprirla, la Morte, e perciò la tengono ben coperta, senza lasciare che essa lasci trapelare la sua oscena ed improponibile maschera funeraria: il volto cadaverico dell’Esserci-finito è solo la maschera funeraria del proprio Essere. Il fatto compiutamente “perfetto” dell’Esserci-finito è la possibilità impossibilitata dell’Essere, la possibilità ontologica che si trova nella impossibilità meontologica di potere alcunché.
Esserci è finire: iniziare-per-finire. Il fine dell’Esserci è finire, dice Heidegger: la fine è il fine precipuo e peculiare dell’Esserci umano.
«L’Esserci, in quanto gettato essere-nel-mondo, è già da sempre consegnato alla propria morte. Esistendo per la propria morte, esso muore effettivamente e costantemente fino a quando non sia pervenuto al proprio decesso»: Als geworfenes In-der-Welt-sein ist das Dasein je schon seinem Tode überantwortet. Seiend zu seinem Tode, stirbt es faktisch und zwar ständig, solange es nicht zu seinem Ableben gekommen ist.
Questo sconcertante passo lascia intendere che, per quanto l’Essere dell’Esserci sia un progressivo ed inesorabile morire dalla nascita sino alla fine della vita, tuttavia non c’è da stupirsi: l’Esserci esiste «per la sua morte», zu seinem Tode! Non c’è da stupirsi, «Che l’Esserci, proprio di ciascuno, già da sempre effettivamente muoia…» (Pietro Chiodi), Daß das je eigene Dasein faktisch immer schon stirbt, «Che l’esserci rispettivamente proprio già sempre in effetti muoia…» (Alfredo Marini).
Qui si potrebbe utilmente riandare con la memoria alla lezione di Ontologia della libertà che Luigi Pareyson fa nel nome di libertà e trascendenza; ma: libertà non è trascendenza, ribatte la Meontologia della libertà. Cos’è, trascendenza?
Non è più un Dio che metafisicamente aleggia nel cielo sovrastando da buon Pantocrate ogni Esserci fenomenico; no, trascendenza diventa adesso un concetto molto più sottile, subdolo, persino viscido e strisciante: il vecchio serpente malefico e tentatore della filosofia, cacciato dal regno ontologico della mitologia superna, ha cambiato pelle ed è diventato un nuovo serpente che diabolicamente s’è insinuato nelle pieghe più riposte dell’esistenza terrena: il tentatore s’è nascosto sotto, nella mitologia inferna, ìnfera, s’è cacciato nel sottintéso… ad essere strisciante non è più il dubbio, ma la certezza: l’àspide non striscia più nel paradiso terrestre ma nell’inferno, terrestre; l’essere necessario della vecchia sistenza celeste è diventato essere necessario della nuova esistenza terrestre. Als geworfenes In-der-Welt-sein… Quando il «sotto» era ancora «inteso» sopra, quando cioè il sottintéso assiomatico ed assiologico dell’ontologia era «sottosópra», con sopra Dio e sotto l’Uomo caduto in basso per via del Peccato Originale, la «gettatezza» (Geworfenheit) dell’uomo in quanto gettato e quindi esistente nel mondo, era sottesa nella Caduta innaturale dall’alto verso il basso, dal Bene verso il Male, dall’Essere verso l’Esistenza, per cui il fine era inteso, sottinteso, come ritorno all’Essere, risalita all’antico Parnaso, e la fine era dai credenti creduta come trapasso da un essere-innaturale ad un essere-soprannaturale. Quando il sopra era in alto e il sotto era in basso, la missione dell’esistenza era risalire la china della caduta e quindi la destinazione dell’uomo era riposta nell’Essere-che-sta-in-alto: l’Essere necessario e realissimo che la prova ontologica si preoccupava di dimostrare.
Con l’esistenzialismo, non solo di Martin Heidegger, il sopra passa di sotto e il sistema ontologico finisce «soprasotto»: resta il fattaccio dell’essere-gettato, ma non si capisce più cosa esso voglia significare; il verbo werfen significa «gettare», «buttare», «lanciare», «tirare»… tutti questi significati implicano un movimento da un capo all’altro del getto, del lancio, del tiro… il moto è sottinteso, sotteso, insito nel verbo. Ora, finché si credeva in un Dio incazzato che scaraventava Adamo ed Eva giù dal cielo sulla terra, la direzione, il senso di marcia della Caduta dava senso al getto e quindi anche al progetto divino: l’uomo era scagliato in basso, precipitato dall’alto, buttato giù sicché era nel mondo per essere nel cielo, era sulla terra per tornare in cielo. Ma, se non si crede più a questo tipo di getto, se salta la direzione discendente, l’essere-gettato dell’Esserci è un essere-nel-mondo In-der-Welt-sein che non ha un precedente essere-nel-cielo, col che salta pure la destinazione ascendente, il destino escatologico sottinteso, sotteso, insito nell’essere-stato-gettato: l’essere non è più creduto come un essere che è stato gettato da un Creatore in questa valle di lacrime, bensì è un essere che è stato gettato da due procreatori; il percorso s’abbrevia, si cade da una sommità meno somma, meno alta: la procreazione è progettata da due umani che già si trovano sulla terra, quando gettano il loro figlio nell’Esserci, per cui il tragitto è più breve. Esclusa la possibilità che l’essere-gettato sia un essere umano che cade nell’immanenza della disgrazia sperando di ritornare nella trascendenza della grazia, non resta che aggiornare il concetto di trascendenza: cos’è, trascendenza, dopo l’esistenzialismo?
Prima di venire a capo di questo enigma ripassiamo un poco l’etimologia della trascendenza. Il latino transcendo, is, scendi, scensum, ĕre, (3 intr. e tr.) è trans- + scando = tra-salgo. Il prefisso trans richiama però fortemente l’idea del passaggio, del trascéndere, travalicare, passare oltre, oltrepassare… anche “trasgredire”, nel senso di transgrĕdĭor, ĕris, gressus sum, grĕdi, (3 dep. intr. e tr.), è voce del verbo trascendere: grădĭor, ĕris, gressus sum, grădi, (3 dep. intr.) è andare ‘per grado’, salire i gradini, nel senso di avanzare, procedere, muovere il passo, fare dei passi avanti, progredire, non necessariamente in senso ascendente o discendente.
Filosoficamente la trascendenza resta però una dimensione al di fuori di un’altra, magari anche non al di sopra, o non al di sotto, ma al di fuori certamente sì: una dimensione che supera se stessa, che si trascende in quanto protesa verso il suo più essenziale sottinteso: sein zum, sein zu dem. Il tedesco zu è una preposizione che regge il dativo (zum = zu + dem / zur = zu + der) e implica il moto a luogo: ich gehe zu… io vado a… Ma questo moto a luogo s’estende anche alla finalità di una funzione o di una destinazione quando la preposizione zu passa a significare un essere per qualcosa, com’è das Sein zum Tode (l’essere per la morte) o das Sein zum Ende (l’essere per la fine). Prima che la trascendenza finisse sottosopra, anzi, soprasotto, questo nostro essere qui (Dasein) era creduto ‘per punizione’, zur Strafe:
das Sein zum Tode & das Sein zur Strafe
Ora s’è perso il nesso causale, eziologico, fra esistenza e punizione, fra esistenza e colpa, e quindi la preposizione zu perdendo la propria “ascendenza trasgressiva” ha insediato l’essere in una esistentiva ed esistenziale localizzazione priva di ubiquità: das Sein zu Hause è un essere a casa che è stare a casa. La trascendenza esistenziale è il dovere di stare, è più uno stato in luogo, che un moto da luogo: essere nell’esserci (stato in luogo) e quindi essere per non-esserci (moto a luogo). Andare a casa, nach Hause gehen, è zu Hause bleiben, restare a casa. Se il linguaggio è la casa dell’essere, come sostiene Heidegger, facciamo bene a scandagliare accuratamente l’abisso etimologico della trascendenza: non c’è più una cacciata dalla Casa del Padre che getta l’umanità nell’angoscia del peccato perché, dopo Heidegger, l’angoscia non è più sistenziale ma esistenziale; l’ontologia sconfessa l’aitiologia perché non è più confessionale. In principio l’Essere era creduto una Causa prima che causava gli effetti secondari mediante delle cause seconde; adesso l’Essere è un Effetto primo del proprio Esserci. Il complemento d’agente ontologico perde il soggetto agente in senso metafisico ed acquista una causa efficiente che ha per complemento l’Essere: l’Essere è effetto dell’Esserci, l’Essere è effettuato dall’Esserci, l’Essere è fatto dall’Esserci, l’Essere è un fatto dell’Esserci; l’Essere è un fatto che riguarda l’Esserci e perciò non guarda a nient’altro che alla propria fine: l’Essere dell’Esserci non guarda più alla propria ascendenza trascendente bensì guarda alla propria discendenza.
La nuova trascendenza instaurata dall’esistenzialismo crede che solo la fine può essere creduta il fine che riguarda veramente l’Esserci: non credendo più in un Essere che dall’Inizio guarda l’Esserci, non resta che credere a un Essere che dalla Fine riguarda l’Esserci. Ecco perché è alla fine, che guarda l’Esserci heideggeriano: perché se l’Inizio non è più creduto al Principio, esso retrocede alla Fine e questa fine diventa il fine ultimo dell’esistenza.
La trascendenza ontologica della fede religiosa è sempre intesa come un ‘sovrinteso sottinteso’: un Essere sovr(a)intende all’Esserci e l’Esserci sott(o)intende ad esso. Il sotto-intendere umano della trascendenza richiedeva un sopra-intendere divino. Se da sempre effectum rima con perfectum a dire che un fatto giunge ad effetto solo se giunge al fine, alla fine della sua effettuazione, non da sempre questo fine è creduto ‘Essere nell’Esserci’: l’identificazione che vuol far coincidere Essere ed Esserci è lo sforzo più audace del pensiero esistenzialista, lo sforzo teso a fare dell’Esserci un sottinteso dell’Essere, un Essere che non va più sovrainteso ontologicamente, ma appunto sottointeso esistenzialmente. L’esistenzialismo è l’ontologia dell’essere sottointeso. Ma questo sottointeso può facilmente essere frainteso: il fraintendimento più paradossale dell’esistenzialismo è quello che fa credere la fine come il fine immanente dell’Esserci.
Trascendere, ontologicamente, è diventato marciare dritti dritti verso il proprio fine: la fine della morte. Questo è, non c’è altro: tant’è. La metafora cattocristiana che imponeva di bere il calice amaro della sofferenza a fini soteriologicamente trascendenti è diventata un imperativo molto più dozzinale: Esserci è essere qui, in questo mondo, Esserci è essere finiti, la finitezza impone ed intima di essere bevuta fino in fondo, sino all’ultima goccia: la fine è il fine dell’Esserci, il destino più proprio, più specifico, dell’Esserci; la fine è il fine inerente l’Esserci e quindi aderente ad esso al punto che Essere è aderire al fine della propria fine. La fine inerisce all’Esserci sì che l’Essere vi aderisce.
Aderire. Propriamente, un’adesione implica una volontà libera: io aderisco ad un progetto perché mi piace quel progetto e quindi voglio aderirvi; ma, se a un progetto inerisce una fattualità così insita in esso da presupporre una gettatezza insindacabile ontologicamente, l’inappellabilità di questo progetto diventa una inoppugnabilità che non permette nemmeno di discuterne: l’Essere dell’Esserci heideggeriano è infatti indiscutibile, è un dato di fatto incontestabile solo perché esso appare esistenzialmente innegabile. Come può, un Essere di questo genere, essere oggetto della filosofia? Come può essere… filosofabile? Un Essere che non permette al proprio Esserci di farsi delle domande, di fargli delle domande, è un Essere al quale l’Esserci deve aderire a posteriori, deve aderire ad esso dal momento che in esso si trova, aderire con un’adesione non consensuale, dacché l’adesione stessa è gettata addosso all’aderente senza che questi possa fare qualcosa per togliersela di dosso. L’aderenza ontologica degli esistenzialisti è l’adesione dell’Essere all’Esserci senza una previa adesione dell’Esserci all’Essere. Alla luce di queste riflessioni desistenziali si rilegga ora il passo dal quale tali riflessioni hanno preso le mosse:
«L’Esserci, in quanto gettato essere-nel-mondo, è già da sempre consegnato alla propria morte. Esistendo per la propria morte, esso muore effettivamente e costantemente fino a quando non sia pervenuto al proprio decesso».
La traduzione è quella che Pietro Chiodi fece per la collana «Il labirinto» (volume 24) in cui la casa editrice Longanesi di Milano pubblicò Essere e tempo di Martin Heidegger nel 1970 (pag. 391). Il testo originale suonava:
In-der-Welt-sein ist das Dasein je schon seinem Tode überantwortet. Seiend zu seinem Tode, stirbt es faktisch und zwar ständig, solange es nicht zu seinem Ableben gekommen ist.
Il vostro Profeta, o desistenti, vi raccomanda di leggere e rileggere attentamente questo passo, perché fra le sue righe striscia il vecchio serpente ontologico con una nuova pelle ma con la sua solita tentazione: diventare quello che si è. Se preferite, potete leggere la traduzione di Alfredo Marini che la casa editrice Mondadori di Milano pubblicò nella collana «I Meridiani» nel 2006:
«In quanto dejetto esser-nel-mondo, l’esserci è via via già rimesso alla sua morte. Essendo-alla sua morte esso muore fattiziamente, e continuamente, finché non sia giunto all’ultimo respiro».
L’ultimo respiro è il fine del respirare, quindi, alla fine, si respira per non respirare più. Non sembra una barzelletta? Eppure, grazie alla traduzione più tecnica e noiosa di Alfredo Marini, il messaggio heideggeriano suona né più né meno che così (che sublime filosofia!). Una volta si rimetteva il peccato che ci aveva costretto a respirare quest’aria inquinata, adesso si rimette il respiro stesso. Una volta l’uomo credendosi figlio di Dio spirava rimettendo il proprio ultimo respiro nelle mani del Padre, adesso lo rimette nelle proprie mani come se l’Esserci fosse il figlio di se stesso, cioè del proprio Essere.
Di autentico, nell’Esserci umano di Heidegger, c’è solo questa intima adesione dell’Esserci al proprio Essere: autentico è l’uomo che non tergiversa, di fronte alla propria morte, ma appunto la vive come propria senza estraniarla, senza alienarla nella morte altrui, così come vorrebbe il ‘«Si» passivante e impersonale dell’inautenticità’, il quale ultimo deve invece risolversi (decidersi!) nel ‘«Ci» attivante e personale’ dell’Esserci, che esige di conseguenza un’adesione entusiasta e volontaria all’Essere. L’autenticità del ‘«Ci» attivante e personale’ è la nuova trascendenza esistenzialista d’ascendenza ontica: quella che impone di credere al dovere ontologico di mantenersi in un essere-per-la-fine senza svicolare passivamente e impersonalmente verso altri fini non compresi nell’essere-per-la-morte. L’iter del fatto esistenziale è quello di trovarsi in itinere sin dall’inizio del viaggio: il factum dell’esistenza sta nel suo essere in fieri e questo divenire del fatto è l’itinerario dell’esistenza stessa in quanto iter itinerante, iter itinerans. Non è più solo il viaggiatore, che viaggia: anche il viaggio si fa viaggiatore e la via viatrice, via viatrix. L’inizio del viaggio è già deciso, quando il viaggiatore si trova in viaggio: il trovarsi già in viaggio è un fatto al quale bisogna aderire senza fare storie; si tratta solo di viaggiare sino alla fine del viaggio, senza lamentarsi se la via è impervia. Il viaggiatore autentico è quello che non trasgredisce alla regola esistenzialista della trascendenza, la quale ordina e comanda di procedere nell’itinerario sinché il capolinea non trascende la linea. Ecco la Buona Novella esistenzialista, alla quale s’oppone la Buonissima Novella desistenzialista.
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