DAL GOLEM AI CYBORGS: DISTOPIA TEOLOGICA?

Recensione di Barbara Henry, Dal Golem ai Cyborgs. Trasfigurazioni nell’immaginario, Salomone Belforte & C., Livorno 2016.
In una cultura sempre più votata all’inorganico e a tesserne le lodi a dispetto di un organico debole, tristanzuolo e malaticcio (e potenzialmente pericoloso dacché contagioso), le speranze presentate al cospetto di Scienza di preservare l’individuo umano il più a lungo possibile troveranno finalmente riscontro? Di fronte a un organismo sempre più minacciato da patogeni esterni, improvvisi e devastanti, quanto da sfilacciamenti interni, correlati all’aumento dell’aspettativa di vita media, siamo tentati di compiere quel passo evolutivo ultimo, autentica μετάβασις εἰς ἄλλο γένος (metabasis eis allo genos), salto, qualitativo, di specie: l’uomo è davvero antiquato (?; un punto interrogativo tra parentesi a segnalare una dubbiosità e una possibilità. Forse l’uomo non è – ancora – così antiquato quanto si creda, con buona pace di Anders che pensò, negli anni ’50, che l’uomo fosse già sorpassato).
Le nuove tecnologie hanno plasmato a tal punto il mondo da mutare, per effetto rebound, i fruitori stessi dei dispositivi e con loro gli sviluppatori di nuovi apparecchi che si trovano ingabbiati in un processo ricorsivo che si autoalimenta: ogni nuova trovata cela in sé i germi della sua successiva evoluzione. Più che di anacronismo dell’umano si dovrebbe parlare di mortalità macchinale, decesso (auto)programmato dell’apparato, un sacrificio ontogeneticamente rilevante per la sopravvivenza filogenetica (che poi la stessa ontogenesi macchinale si presenta in veste filogenetica e imbellettata: la serie, il modello…).
All’interno di questo panorama assume allora il ruolo di testata d’angolo la morte e la sua carica mitologhematica. Il termine impiegato presuppone una chiara linea interpretativa: in quanto «schema o plot narrativo» (p. 32) sancisce una linea di discendenza che si è alimentata in rivoli vieppiù portanti a confluire in fiumi trans-culturali e trans-generazionali. Un mitologhema è un’unità declinabile, una radice combinabile scaturigine di polivalenti filiazioni che ad-traversano tempi e spazi per ripresentarsi ogni qualvolta differenti seppur riconoscibili (si possono intravvisare in questa definizione fornita nel corso del libro un possibile rinvio ai modelli archetipici junghiani nonché alla sempre feconda philosophia perennis in quanto patrimonio dell’essere uomo in quanto uomo, qualunque cosa ‘uomo’ significhi). Morte e vita; obbedienza e ribellione; programmabilità e alea si riaffacciano prepotentemente proprio ora che sembra essersi trovata se non una soluzione, quanto minimo una direzione da percorrere.
Viviamo nell’epoca degli indovini. Più che nei tempi passati, nei quali l’ignoranza favoriva l’attività mantica, ora lasciamo che siano le nostre protesi elettroniche a imboccarci su cosa dovremmo desiderare: in realtà Esse lo sanno meglio, molto meglio di noi ciò che non sappiamo di sapere (come ha intelligentemente segnalato Vespignani nel suo L’algoritmo e l’oracolo; su ciò che non sappiamo di sapere si è fatto riferimento a Žižek). Lo strumento tecnico si fa parte di noi, ci rende partecipi della sua onniscienza (certo, forse non saprà tutto; ma tutto quello che c’e da sapere, lo sa). In un paesaggio concettuale di entità tale (basti aprire il proprio account Amazon per farsene un’idea) riaffiorano sempre più antiche narrazioni, originatesi in un passato ancestrale e, questo sì, inconoscibile (Vernant).
Morte, ribellione, alea non ricordano forse una storia, tanto antica da essere la prima, l’originaria? Non riecheggia forse il tempo primevo, edenico di Adamo e Eva? Non è proprio a partire dalla loro disobbedienza (da molti interpretata alla stregua di una ribellione) che la morte, l’effetto imprevedibile (per Agostino Adamo mangiò il frutto perché mai avrebbe pensato che Dio li avrebbe puniti così duramente; cfr. Greenblatt, Ascesa e caduta di Adamo ed Eva) entrò nel mondo? E da chi nacque poi il primo uomo, Adamo? Barbara Henry, attraverso un’attenta analisi dei lemmi biblici, ripercorre i sentieri indagandone le tracce che, passando per il Talmud e il Midrash e sfociando nei testi cardini della Qabbalah fino ai romanzi di età moderna e al neoespressionismo tedesco dei primi anni Venti del Novecento e allo sfondamento con interessanti accostamenti al multiverso manga di Osamu Tezuka, conducono all’avvicinamento di tre figure cardini dell’immaginario globale: Adamo, Golem e Cyborg.
Se quest’ultimo rappresenta l’epigone contemporaneo e (fanta)scientifico dei suoi antenati “religiosi”, tale figura permette una complessiva ricodificazione della logica soggiacente ai suoi prodromi. In sé il Cyborg, per quanto sia da identificare come un organismo le cui componenti biologiche non devono mai mancare (foss’anche solo il cervello, che l’autrice fa assurgere a criterio distintivo-tassonomico) risveglia quei sogni che avevano animato Norbert Wiener, “il padre della cibernetica”, in un testo dal titolo esplicativo quanto altri mai: God and Golem, Inc. A Comment on Certain Points where Cybernetics Impinges on Religion (1963). Così Barbara Henry:
[l’]ideale neppure implicito è il servitore muto, fedele sino alla morte, immune da seduzioni esterne, incapace di critica e indefettibile nel compimento dei suoi doveri: un Golem, appunto (pp. 242-243).
Vero che il prototipo di Wiener corrisponderebbe più ad un robot (un cervello umano completamente programmato può ancora definirsi umano?), ma la prospettiva di una programmabilità assoluta ci porta oltre che in un contesto scientifico anche all’interno di un confine squisitamente religioso.
La programmabilità algoritimica farebbe il paio con l’ortoprassi cultuale: Dio ha creato il mondo, i cieli e la terra pronunciando le parole creative che si sono sedimentate nelle cose, che sono divenute le cose stesse: “E Dio disse“. I segreti della creazione sono infatti celati dentro l’armonica combinazione di quelle lettere che non solamente forniscono la base per il linguaggio naturale, per la scrittura e per la reciproca comprensione, ma altresì rendono manifesta, agli occhi di chi è in grado di leggerne la disposizione, la Potenza originaria, invocabile e utilizzabile dalle persone pie e pure di cuore che, nel più completo rispetto delle formule rigorose di applicazione codificate dai sapienti e sacerdoti di Dio, riproducono nel piccolo dell’umano la creazione divina.
A tale riguardo si intrecciano le figure di Adamo, la cui etimo ebraica richiama alla “terra” e alla “polvere”, e quella del Golem, creatura d’argilla vivificata dall’insufflazione nel corpo materico dello spirito di vita, soffio vitale attraverso la pronuncia dello HASHEM HAMEFORASH, il nome Santo. Il Golem sarebbe allora una creatura fabbricata dall’uomo il quale, richiamandosi direttamente al potere vitalizzante di Dio e inserendo tale operazione all’interno del recinto di pratiche rituali normate, ricreerebbe sulla falsariga della primigenia creazione divina. Forse si dovrebbe parlare di adamizzazione golemica piuttosto che di golemizzazione adamica, ma resta del tutto innegabile la linea di confluenza tra questa due mitiche figure: entrambe create dalla polvere, animate dallo spirito divino e soprattutto destinate alla disobbedienza.
Ed è per questo riguardo che sembrerebbe preferibile affrontare la questione da un lato principalmente antropologico, ovverosia adamitico. Perché se «[n]arrare e prescrivere la costruzione di un Golem non costituisce né un atto di blasfemia né di tracotanza» (p. 250), non meno vero è il fatto dell’imperfezione tutta umana in quanto creatura e per giunta creatura decaduta a seguito del peccato, della disobbedienza. Nelle narrazioni golemiche, difatti, il colosso d’argilla tende a fuoriuscire da ogni contenibilità fisica (crescita a dismisura) e sociale (pericolosità delle sue azioni): una programmazione perfetta si scontra con i limiti antropologici e creaturali. Se neanche Dio è riuscito (non ha voluto?) a programmare l’uomo in modo tale che non peccasse né disobbedisse mai ai suoi comandi, come può pretendere proprio l’uomo di portare a termine il progetto della perfetta programmabilità?
La questione sollevata, stressando il testo di Barbara Henry, è squisitamente antropologico-teologica: se per l’autrice la prospettiva di una controllabilità auspicabilmente totale preconizzata da Wiener è «[u]n sogno (o un incubo) […] molto più radicale e utopico del mitologhema golemico» (p. 244), ciò è dovuto al fatto che di utopico, in tale visione c’è ben poco, e proprio perché si è fatta ἔποχή (epoché) della controparte antropologica. È solo sul terreno dell’antropo-logico che si può parlare di utopia, come non-luogo, come luogo-altro (non-questo-luogo), come disobbedienza e ribellione. Un dispiegamento perfettamente preventivabile, una processione già da sempre proceduta, un processo anticipatamente processato: questi sono i sogni di una utopia realizzata, di una formula magica ritual-algoritmica che fa il tecnologico embricato al teologico.
Da Adamo ai Cyborgs passando per il Golem: utopia antropologica vs distopia teologica?
Di Vespignani si fa riferimento al suo lavoro con Rosita Rijtano, L’algoritmo e l’oracolo. Come la scienza predice il futuro e aiuta a cambiarlo, Il Saggiatore, Milano 2019.
Per il riferimento a Jean-Pierre Vernant si rinvia all’edizione italiana tradotta da Irene Babboni, L’universo, gli dei, gli uomini, Einaudi, Torino 2014, quarta edizione.
Su Sant’Agostino cfr., Stephen Greenblatt, Ascesa e caduta di Adamo ed Eva, Rizzoli, Milano 2017, nella traduzione italiana di Roberta Zuppet.
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L’opera nel corpo del testo si intitola The mythical chain of Being.
@ILLUS. NEL CORPO DEL TESTO by, FRANCENSTEIN, 2020