DALLA POLIS ALLA NATURA

L’arte e la morale hanno in comune
la creazione e l’invenzione.
J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo.
L’essenza dell’etica si riassume, in fin dei conti, nell’esigenza ben sintetizzata da Thomas Nagel di verificare come sia possibile
combinare la prospettiva di una persona particolare all’interno del mondo con un punto di vista oggettivo su questo mondo, che includa la persona e il suo punto di vista[1]
Si tratta cioè dell’esigenza di tenere insieme la visione soggettiva, che caratterizza la specificità delle persone – il loro sguardo dall’interno –, i loro interessi, le loro preferenze, i loro desideri, con la prospettiva “oggettiva”, ossia con quello sguardo da nessun luogo che, in quanto rimanda alla presunta universalità delle leggi morali, è in grado di assolvere meglio alla necessaria funzione ‘pubblica’, costituendo la base per l’ethos condiviso nel contesto sociale e politico.
Per dirla nei termini che abbiamo introdotto all’inizio del libro, ciò che caratterizza la questione centrale dell’etica è la continua tensione alla realizzazione dell’ethos nel suo duplice significato di ‘carattere’ del soggetto morale e ‘contesto’ entro cui conduce la propria esistenza. La giustizia non sarebbe altro, in fondo, che la realizzazione di questo obiettivo; ma essa può darsi come perfettamente compiuta solo in una prospettiva metafisica o teologica, in cui le inevitabili ed evidenti obiezioni a questa sintesi sono stigmatizzate come forme del ‘male’ presenti nel ‘finito’, funzionali a un disegno piú alto e però imperscrutabile. Fuori da tali prospettive, la giustizia rimane come una continua aspirazione a bilanciare le esigenze e i bisogni dei singoli all’interno di una visione complessiva. Lo stesso Nagel, quando si richiama all’esigenza di coniugare la prospettiva soggettiva con quella oggettiva, non intende affatto suggerire un’“unificazione finale”, ma esorta anzi a uno sforzo “creativo” in grado di gestire questa polarità tenendo conto dell’inevitabile conflitto che porta con sé. Non si tratta di approdare a una soluzione definitiva capace di tenere assieme l’oggettività e la soggettività dell’etica, perché essa consiste piuttosto nella costante ricerca “creativa” di un possibile equilibrio all’interno di un inaggirabile conflitto tra singolare e universale.
Al di là delle considerazioni di Nagel, a ben vedere tale ‘conflitto’ che caratterizza l’etica ha la sua origine più profonda già nella condizione ontologica in cui è collocato l’individuo in quanto parte attiva e creativa di un contesto più ampio cui pure appartiene. La filosofia morale ha tradizionalmente indicato i confini di tale contesto nella ‘polis’, ampiamente intesa come dominio sociale e politico entro cui gli esseri umani convivono. In questo senso, il conflitto tra singolare e universale si riduce alla tensione tra le aspirazioni e le preferenze della singola persona e gli interessi e i bisogni della comunità (variamente estesa) dei suoi simili. Se però riconosciamo che l’origine profonda di questa tensione è radicata all’interno di un conflitto ontologico piú ampio, quello descritto, per esempio, nell’Antigone da cui siamo partiti, mediante il deinón (l’inquietante) che caratterizza in generale l’essere e in particolare l’essere umano, che in esso agisce come sua parte attiva, l’‘altro’ cui la singola persona contrappone le proprie esigenze e aspirazioni non è più soltanto da intendersi come il suo simile o, meglio, come la comunità dei suoi simili (polis) cui anch’egli appartiene. Lo “sguardo da nessun luogo” che qui si assume non è più semplicemente l’ambito della ‘polis’, ovvero l’ambito delle relazioni interpersonali. Né potrebbe essere inteso come lo “sguardo di Dio”, ossia come lo sguardo oggettivo per eccellenza, poiché, come si è detto, in questo caso la tensione che caratterizza la concretezza della vita etica verrebbe risolta in una forma di “teodicea”, vale a dire nella più alta giustizia di Dio in cui ogni ostacolo alla realizzazione della giustizia, ogni ‘male’, è riassunto e compreso come obiezione contingente e parte costitutiva di un disegno piú elevato e inintelligibile.
Nella misura in cui la questione etica valica i confini della ‘polis’ e impone una riconsiderazione del “posto dell’essere umano nella natura”, occorre recuperare la radicalità ontologica del conflitto da cui essa nasce, e lo “sguardo da nessun luogo” cui occorre fare riferimento si pone cosí all’altezza dell’essere stesso.
La […] contrapposizione messa in evidenza da Heidegger tra fare umano (techne) e ordinamento dinamico dell’essere (dike)[2] ben sintetizza il conflitto entro cui si colloca la questione etica ampiamente intesa. Per Heidegger, l’ethos consiste di fatto nello spazio in cui si fronteggiano la techne umana e la dike naturale dell’essere. Sappiamo già che con dike egli intende qui la mera disposizione dell’essere e non la Giustizia più alta e compiuta, poiché questa non consentirebbe un’autentica contrapposizione e priverebbe l’agire umano della ‘necessaria’ libertà d’azione. L’ethos non è quindi la capacità di conformarsi a una Legge più alta, bensì il continuo fronteggiarsi dell’agire dell’uomo con l’essere cui sempre appartiene, in un conflitto permanente che si produce nella ‘storia’ in cui l’umanità per l’appunto ‘dimora’, determinando il proprio ethos. L’agire ‘storico’ dell’essere umano si esplica tradizionalmente nello spazio della ‘polis’, inteso come contesto socio-politico in cui la contrapposizione all’essere ‘predominante’ si stabilizza nelle forme (sempre provvisorie) dell’ethos. E tuttavia, nella misura in cui l’agire umano, la techne, ciò che Heidegger chiama il ‘violentante’ che agisce sul ‘predominante’ (ossia sulla dike intesa come ordine dell’essere), si spinge a sottometterlo, la sua azione non è più semplicemente ‘storica’ e i suoi effetti non possono più essere relegati all’interno dei confini della ‘polis’[3], ma vanno di necessità estesi al più ampio contesto naturale.
[…] quando l’agire umano assume la capacità di dominare l’essere, ciò sembra condurre a una «confusione senza sosta e senza uscita». E tuttavia, è proprio con l’eccedenza e la tracotanza della techne che si giunge a superare l’ambito meramente ‘storico’ e a mostrare la radice ontologica del conflitto che anima l’ethos e si estende al di là di una questione soltanto umana.
[1] T. Nagel, Lo sguardo da nessun luogo (1986), Mimesis, Milano 2018, p. 15.
[2] «Cosí il deinón considerato come il predominante (dike) e il deinón considerato come il violentante (techne) si fronteggiano, peraltro non come due cose sussistenti. Questo “essere a fronte” consiste piuttosto in ciò, che la techne si erge contro la dike, la quale dal canto suo come ordine (Fug) dispone di ogni techne. È questo reciproco esser di fronte che è. Esso è solamente in quanto ciò che vi è di più inquietante, l’esser-uomo, accade (geschieht), in quanto l’uomo è presente come storia (als Geschichte west)», in Heidegger, Introduzione alla metafisica (1935), Mursia, Milano 1990, p. 168.
[3] Come chiarisce Hans Jonas rispetto all’esigenza di una nuova etica “per la civiltà tecnologica”: «Il confine tra “polis” e “natura” è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo un’enclave nel mondo non-umano, si estende ora a totalità della natura terrena e ne usurpa il posto. La differenza tra l’artificiale e il naturale è sparita, il naturale è stato fagocitato dalla sfera dell’artificiale», in H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), Einaudi, Torino 2009, p. 14.
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