DERRIDA E IL DONO

L’atto del donare (donner) è tanto comune nella quotidianità quanto dirompente nella sua inerente impossibilità filosofica. Non casualmente, infatti, Jacques Derrida ha colto l’eversività e l’intensità del dono, facendone una delle figure principali del suo filosofare periferico, ai margini – della filosofia (Margini – della filosofia [Marges – de la philosophie] è difatti il titolo di una delle sue opere – una raccolta di saggi scritti tra il 1967 e il 1971 – più originali).
La marginalità ben si addice ad un pensiero la cui intenzione primaria è fare piazza pulita di ogni discorso dal sentore metafisico. E non può che essere ai margini, sebbene non marginale, se vuole davvero interrompere il regno dell’orthos, se desidera effettivamente scardinare la violenza di un pensiero che dissimula apertura, preferendo invece la piazza centrale dell’incrocio quasi cartesiano di cardo e decumano. Solo un pensiero che abita i margini, che si allontana dal centro città è in grado, e forse è l’unico ad averne il diritto, di decostruire quel logocentrismo millenario, connaturato con l’immagine stessa che la filosofia ha voluto dare di sé – ma che è ancora da indagarne la consistenza. Logocentrismo che diventa fonocentrismo, ovverosia il porre la voce al centro, dominio platonico del dictum sullo scriptum (nonché base del monoteismo giudaico-cristiano): in poche parole fallocentrismo (che incrocia l’orthos e lo eleva a centralità assiologica).
Proprio per questo, in Donare il Tempo la donazione è appannaggio di una donna, Madame de Maintenon, tra un tempo preso (dalla figura maschile del Re, del Re-Essere) e un tempo, eccedente, donato: «Le roi prend tout mon temps; je donne le reste à Saint-Cyr, à qui je voudrais le tout donner» (p. 3). Resta il resto e questo resto è ciò che viene donato. Ma è un dono impossibile a ben pensarci: come donare ciò che non si ha? Ecco, compare fin da qui lo spazio che il dono crea: l’apertura di un non-tempo, di un non-spazio. Il dono è ciò che spezza il (corto)circuito economico, il do ut des, il dono-e-il-contro-dono. Donare è sempre l’impossibile benché non si doni mai l’impossibile: la possibilità del dono stesso certifica l’impossibilità della donazione impossibile. Se vogliamo figurarcela con una immagine, la donazione è la messa in opera della decostruzione, il rovesciamento e lo spostamento (come giustamente sottolineato da Silvano Petrosino) della spirale ascensiva dello Spirito hegeliano. È il rovesciamento e lo spostamento dell’Aufhebung e l’instaurazione così di una spirale discendente: la Grande Gidouille, la Grande Giduglia patafisica.
Se essa è la spirale simbolo dell’ingordigia umana al centro delle avventure di Ubu Roi di Alfred Jarry, essa è anche, allora, metafora del Re-mangia-tutto, del crapulone gozzovigliante che consuma fino alla sparizione del resto (muore il re, muoiono tutti e tutti, così come in Le Roi se meurt di Ionesco). Se questo fosse il dono, se il cioè instaurasse solamente il rovesciamento (dalle stelle alle stalle), il pensiero periferico sarebbe ancora alla periferia di un centro che lo rende periferia. Ma ad esso si associa lo spostamento che porta il dono stesso al cospetto della sua impossibilità. Motivo per il quale, nel testo interamente dedicato al dono, la seconda parte affronta una donazione detonatoria che si può leggere nel racconto di Baudelaire La moneta falsa. La risposta che il giovane ricco, il quale decide di lasciare il resto al mendicante che avanzava il berretto supplice, porge al suo amico, stupito dalla generosità dell’interlocutore – “Era la moneta falsa” – conduce direttamente all’interno di quella mise en abîme che spezza la circonduzione logociclica o quanto meno teleologicamente orientata: tutte le strade portano a Roma.
Qui effettivamente tutte le strade non portano a Roma perché quale titolarità può avere una affermazione che si fregia di non avere titolarità? Era falsa la moneta o l’affermazione? Era falsa l’affermazione rivolta all’amico o era vero che il dono al vagabondo era stato un dono vero di un donato falso? E il titolo del racconto? Quale titolarità può avere un titolo che dice di essere senza titolarità (come se il titolo fosse la moneta priva della titolarità: a quale titolo può definirsi priva di titolarità?). Quello che resta, ancora una volta, è una ingestione senza metabolizzazione e senza ingordigia perché non è ciò che viene ingurgitato: non è, ma c’è (il y’a = es gibt, da geben = donare). E ciò che c’è resta (unica modalità di esistenza del resto) come mistero letterario, come mistero della letteratura. Ecco lo spostamento periferico: dall’Essere logocentrico al mistero della letteratura, alla letteratura come mistero.
Che cosa vuol dire allora “La moneta falsa“? Il titolo “La moneta falsa“? Per che cosa si dà (se denne-t-il)? Come si può o si deve prenderlo? Il suo posto e la sua struttura di titolo lasciano qui una grande indeterminazione e una grande possibilità di simulacri che aprono propriamente il campo alla moneta falsa (Donare il tempo, p. 86).
@ILLUS. IN EVIDENZA by PATRICIA MCBEAL, 2021
@ILLUS. IN FONDO AL TESTO by FRANCENSTEIN, 2021