MARÍA ZAMBRANO: ESILIO E CURA
María Zambrano (1904-1991) è una filosofa spagnola che con la sua riflessione è riuscita a differenziarsi dal panorama filosofico del suo tempo. Ha il merito, infatti, di aver portato al mondo un modo differente di fare e di stare all’interno del sapere filosofico. La sua elaborazione è enigmatica, in quanto il suo pensiero non si concede alle menti altrui con disinvoltura, bensì a piccoli pezzi. Per questo motivo la sua visione filosofica può essere colta soltanto quando si è consci di intraprendere un “viaggio ideale” nel suo pensiero, ma in fondo anche in noi stessi.
Detto ciò, l’essenza di María Zambrano non può essere colta tenendo in considerazione od analizzando esclusivamente il suo mero pensiero. Questa sarebbe una strada impervia, azzarderei anche priva di senso, perché ci condurrebbe soltanto a vedere una faccia della medaglia, impedendoci così di apprezzare ogni sfaccettatura del suo peculiare spirito. Infatti, la sua biografia non può essere assolutamente messa da parte. È la sua vita a plasmare e a muovere il suo pensiero. La sua vita è filosofia. Si tratta di una premessa importante, che non deve essere persa di vista. A questo proposito, è necessario introdurre un evento essenziale che ha determinato non solo il corso della sua vita, ma anche la sua attività intellettuale, ossia l’esilio, ormai una parte irrinunciabile della filosofia di María Zambrano.
Ma in che modo l’esilio è diventato un tassello significativo della sua esistenza? Come concepisce l’esilio in alcuni suoi scritti? Com’è riuscita a sviluppare all’interno dell’esilio una filosofia, la filosofia dell’esilio? E ancora, la sua filosofia dell’esilio può essere concepita in qualità di cura, di filosofia medicinale?
Ecco, queste sono le domande a cui cercheremo di rispondere.
In virtù di quanto detto sopra, ora possiamo comprendere come l’esilio non sia dunque un semplice escamotage filosofico, uno strumento creato dal nulla in cui poter filosofare liberamente; tutt’altro: è un’esperienza di vita. Per avere un quadro più chiaro della situazione, è necessario spiegare come l’esilio sia diventato parte attiva del suo vissuto.
Le radici del suo esilio affondano in una Spagna, dilaniata da una guerra civile (1936-1939), che è riuscita ad annientare gli ideali repubblicani. Gli esiti negativi di tale conflitto rappresentano un fulmine a ciel sereno nella vita della Zambrano. La guerra civile, in altre termini, simboleggia un momento di cesura, un anno zero per la sua filosofia, in quanto non solo ogni aspetto della sua esistenza è stato messo in discussione ma anche la cultura circostante subisce un mutamento. A seguito di questo avvenimento, la Zambrano non riesce più ad identificarsi nei valori presenti nella sua patria. Pertanto, a guerra finita, decide nel gennaio del 1939 di abbandonare la Spagna e di dare inizio al suo lungo esilio, che la porterà a soggiornare in molti paesi, tra cui l’Italia. L’evento storico della guerra civile e il suo conseguente esilio hanno forgiato il suo arguto pensiero, le hanno permesso di nascere per una seconda volta, di risvegliarsi grazie alla consapevolezza dell’esilio.
Ma che cos’è l’esilio? È una domanda che di primo acchito potrebbe risultare addirittura banale in quanto i più definirebbero l’esilio come un allontanamento forzato dalla propria patria, lo spostamento da un posto all’altro o l’approdo a un luogo che non sentiamo a noi vicino.
Tuttavia, per la Zambrano le cose non funzionano esattamente così, in quanto tale concetto non può semplicemente essere ridotto a queste definizioni. Insomma, è qualcosa che va oltre. A tal riguardo, quando si adopera questo concetto, è indispensabile fare uno scatto, ossia oltrepassare il piano antropologico, e quindi la concezione dell’esilio come mero “non-luogo”, e spostarci su un altro piano, quello di un essere che non accade. In questa prospettiva, si giunge ad un’altra enunciazione che ci conduce ad intendere l’esilio come mancanza di luogo: significa vivere in una dimensione di assenza. Un’esule non vive né a Roma e né in Francia ma nella mancanza, nell’assenza data dalla negazione di un futuro.
Il tema dell’esilio è, in base a quanto detto fin’ora, un tema che riecheggia nei testi della filosofa. La sua scrittura, infatti, è mossa da questa condizione esistenziale.
Nella Lettera sull’esilio, scritta durante il suo soggiorno in Italia, María Zambrano parla direttamente al suo destinatario, l’esule, e nel farlo descrive la sua condizione. L’esiliato ha vissuto tutte le condizioni, «s’è trovato, volta a volta, sui più diversi piani della vita storica, substorica e privata»[1]. Inoltre, «ricade dunque in pieno sull’esiliato tutta l’ambiguità della condizione umana; la assume egli stesso o l’obbligano ad assumerla gli altri»[2]. Si tratta di una descrizione stupefacente, ma allo stesso tempo molto debilitante per l’uomo. L’esiliato, dinanzi a questa situazione, a queste maschere, non può far altro che spogliarsi da ogni giustificazione, dal torto e dalle ragioni, deve in qualche modo, passatemi il temine, ritornare ad uno stato originario, deve dunque essere nudo, distaccato, solo e immerso in se stesso come un essere che sta nascendo e morendo, mentre vede la sua vita continuare. L’individuo, immerso in questa situazione, porta avanti la sua esistenza senza veramente stare e agire. Ed ecco che si riesce a rispondere e anche ad apprendere il motivo per cui si è esiliati. La motivazione è semplice, seppur sconcertante: «perché mi lasciarono nella vita»[3].
Vediamo quindi come l’esiliato nasca come essere rifiutato dalla morte, come superstite di essa e per questo, in quanto essere impotente, non può far altro che nascere, non ha insomma prospettive. Seguendo questa linea di pensiero sorge una domanda spontanea, una questione che anche l’uomo comune potrebbe porre. Il quesito è: perché l’esiliato non potrebbe decidere di tornare semplicemente indietro, alla condizione di uomo non immerso nell’assenza? Perché non potrebbe innescare un processo inverso e quindi “dis-esiliarsi”? In controrisposta, sarebbe necessario, a mio parere, aggiungere un’altra domanda: perché si dovrebbe ritornare? In fondo, l’esiliato, vivendo in uno status di mancanza, perde anche i contatti con il luogo a cui la storia si riferisce. Ne consegue che, se è rimasto in se stesso, avvolto dalle braccia dell’esilio, ha l’opportunità di rimanere su di un orizzonte senza realtà, di vedere e contemplare la storia – nel caso della Zambrano, la storia della Spagna – con maggior lucidità e chiarezza. In sintesi, essere esiliati vuol dire stare ai margini della Storia Universale.
Malgrado ciò, è importante comprendere un altro punto, ovverosia quando l’esiliato diventa veramente tale: quali sono i passaggi? Nei Beati María Zambrano ripercorre le tappe della nascita dell’esule, o per meglio dire, della sua seconda nascita. L’esilio ha inizio nel momento in cui un individuo prende coscienza del fatto che dentro di sé sia presente un forte senso di abbandono, che non si limita a rimanere rinchiuso nella propria anima, anzi si concretizza nella vita reale. Inizialmente, l’individuo avverte di essere stato espulso dalla propria patria, ma poi quella sua sensazione di distanza e di incertezza lo fa arrivare sulle rive dell’esilio. Ed ecco che inizia la «peregrinazione tra le viscere sparse di una storia tragica. Nodi multipli, oscurità, e qualcosa di ancor più grave: l’identità perduta che reclama riscatto riscatto»[4].
La profondità della Zambrano è stupefacente, riesce ad interpretare gli aspetti dell’animo umano in modo del tutto peculiare. Con queste parole sembra quasi rievocare, a mio avviso, l’idea di un “salto”, oserei dire di un “doppio salto”, verso l’esilio. Sono conscia del fatto che possa forse sembrare un’affermazione un po’ impegnativa. Ma d’altronde, l’intelletto della Zambrano ha la straordinaria capacità di mettere in moto i pensieri, a tal punto da permettere alle sue lettrici e ai suoi lettori di osservare le cose da un’altra prospettiva, senza aver la percezione di essere incatenati a idee pietrificate.
Ebbene, che cosa intendo con “salto”, o per meglio dire con “doppio salto”? Il doppio salto consiste nel raggiungere un “mondo” che ci appare nuovo, anche se in verità non è così. Questa novità è solo apparente, perché tale mondo è sempre esistito. Si tratta di una realtà marginale, un orizzonte che è sempre stato all’ombra della concezione della storia e della filosofia dominante. Tuttavia, l’intenzione di saltare non consiste esclusivamente nella decisione di non rimanere ancorati a una realtà che non sentiamo in linea con il nostro pensiero. Infatti, entra in gioco la possibilità di abbandonare noi stessi per arrivare ad essere quel qualcuno che vede il mondo con occhi distaccati, e che ha anche l’opportunità di concepire appieno se stesso, di analizzarsi nel profondo. Ed ecco che il sentirsi persi ed estranei non è necessariamente un indizio negativo, bensì un monito capace di farci cogliere la vita e la storia con occhi diversi, più consapevoli e coscienti.
María Zambrano è riuscita a sfruttare il suo status di donna esiliata per fuoriuscire dai morti schemi che hanno vincolato il pensiero e le azioni, arrivando persino a fondare all’interno dell’esilio una filosofia che trova i suoi fondamenti nella vera concezione dell’uomo e della storia. L’esilio è stato la sua forza, ciò che ha determinato l’evoluzione del suo spirito. Infatti, è proprio quando qualcosa di essenziale viene a mancare che il pensiero ritrova in sé la spinta vitale e creatrice. È l’amore per le cose ad essere il nostro punto di partenza ma quest’ultimo si manifesta solo quando esse vengono meno. Nonostante tutto, l’esilio è anche una questione di merito, dal momento che offre la vera occasione di vivere al margine dell’Accademia e di poter condurre una vita filosofica tout court, senza alcun tipo di condizionamento. Così facendo, non ci si sente oppressi e costretti a vivere, pensando e agendo in virtù di un’intelligenza che non ci appartiene.
Ne consegue che la filosofia debba ritornare alla sua dimensione originaria. Emerge quindi la necessità di riportare in essere un principio fondamentale, ovverosia la componente poetica. Perciò il sapere filosofico deve riaccogliere al suo grembo la componente poetica, disprezzata e condannata dalla “Kallipolis” della Repubblica di Platone. Per questo motivo è necessario prendere atto dell’importanza della poesia, in qualità di caposaldo della conoscenza, e non come semplice fruizione estetica.
Sebbene la filosofia dell’esilio possa essere intesa come una effettiva risposta alla filosofia egemonica, il pensiero della Zambrano si può interpretare soltanto mediante questo punto di vista oppure può essere portatrice di un senso maggiore? Questa è una domanda estremamente significativa poiché – nel caso della filosofa spagnola – non ci si limita a proporre un sapere fine a se stesso, che permetta al filosofo di professione di compiacersi con la pubblicazione di enormi volumi e di conquistare soltanto un po’ di notorietà nel piccolo contesto accademico. In questa prospettiva, l’intento della Zambrano è tutt’altro che superficiale, in quanto la pensatrice spagnola si fa ambasciatrice di un sapere non sterile, bensì attivo. A questo proposito, non sarà per nulla difficile interpretare la filosofia della Zambrano come una cura. A un primo intendere, l’interpretazione dell’idea di cura, in senso medico, sembrerebbe fuori dal comune, in quanto la sua proposta non contiene alcunché di scientifico. È ovvio che la Zambrano non ci stia offrendo un sapere tecnico, capace di risolvere le sofferenze fisiche che si riversano senza pietà sulla vita dell’essere umano; ma allora che cosa ci sta presentando? In merito a quanto appena enunciato, la Zambrano, mediante la sua filosofia, ci sta fornendo un φάρμακον – farmaco.
Si parla di farmaco in quanto esso, nel suo significato originario, significa sia malattia, veleno, che cura. Possiamo dire che il suo pensiero è nato come effetto di un esilio – la malattia – grazie al quale, tuttavia, è stato possibile fondare un pensiero di natura poetica – la cura – che ha permesso di respirare nuovamente la vita. Ecco perché l’esilio non viene rinnegato dalla filosofa, anzi esso viene amato in tutta la sua durezza, a tal punto da considerarlo seconda patria.
Inoltre, così operando, María Zambrano è riuscita a riportare l’attenzione sull’uomo. L’essere umano ha un ruolo centrale ed è il punto di partenza della sua filosofia. Prendendo spunto da questo presupposto, ritengo però necessario riflettere più a fondo sul concetto di uomo.
Mi sembra opportuno infatti notare come l’uomo sia enigma di se stesso e come quindi abbia il bisogno di capire che cosa sia la sua vita, cercando nel corso della sua esistenza una verità.
Tuttavia, come si fa a raggiungere la verità della vita? Si dice che la vita sia essenzialmente tempo. E cosa vuol dire che la vita è tempo? Se il tempo non ci appartiene mai pienamente, in quanto viviamo nell’istante che fugge, come dobbiamo comportarci? Come si può essere forti, se il tempo sfugge e le fragilità permangono? Ma in tal caso, perché dovremmo scegliere la forza a discapito delle fragilità? Che cos’è la forza e per quale motivo la nostra cultura è così ossessionata da tale concetto?
Queste sarebbero forse le domande a cui cercare di rispondere per elaborare una filosofia che trovi davvero il proprio perno nell’uomo.
[1] M. ZAMBRANO, Per abitare l’esilio, a cura di Francisco José Martin, Le Lettere, Firenze (2006) p. 135.
[2] Ivi, p. 135.
[3] Ivi, p. 137.
[4] M. ZAMBRANO, I Beati, Se, Milano (2010) p. 32.
Martina Giribaldi
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